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Americana - Rassegna Stampa (pt.3)


Chissà che cosa avrà pensato John Lydon, tornato da poco con i suoi P.I.L, leggendo “God Save The Queen” al fondo della tracklist di questo Americana. Specificando che si tratta dell’inno britannico e non del manifesto punk di fine anni ’70 a firma Sex Pistols, sembra quasi che il vecchio Neil Young abbia voluto rendere nuovamente omaggio al sig. Rotten, dopo l’incoronazione di “Hey Hey My My” di circa trent’anni fa. L’inno inglese è solo l’ultima canzone di un album dedicato, come suggerisce il titolo, alla tradizione americana, ai suoi brani che hanno segnato la storia del Paese e della musica. E poco importa se ad incidere il remake di queste tracce sia un grande del rock che americano non è, viste le sue celebri origini canadesi. Per l’occasione il rocker solitario riunisce i Crazy Horse al completo, che non suonavano insieme da Broken Arrow (1995) dato che in Greendale, del 2003, mancava il chitarrista Frank Sampedro, unitosi al gruppo solo durante la tournèe. E non è certo insolito che questa reunion di dinosauri del rock arrivi proprio insieme ad altri due grandi ritorni, come quelli della Sacerdotessa Patti Smith e degli impomatati Beach Boys. A differenza loro, Young ha sempre continuato a fare musica, forse troppa, visto che la copiosa discografia del canadese ha spesso messo seri dubbi in seno alla critica. Ci si era fermati al rock sperimentale di Le Noise, perché Treasure, la raccolta country-bucolica di inediti registrata live a metà anni ’80 e riemersa pochi mesi fa, non può esser considerata un vero e proprio disco. Ora arriva Americana, una raccolta di cover che allarma i fans dell’ex compagno di Crosby, Stills & Nash. La benzina è finita? Quella forse no, ma le idee non sono certo il punto forte di questo disco. Tante chitarre elettriche per ripercorrere canti popolari impolverati dalla sabbia del tempo, la solita vena creativa che ha contraddistinto negli anni il canzoniere di questo cowboy solitario. Un disco che nulla aggiunge e nulla toglie alla carriera di Young, che da tempo riesce sempre a scomporre la critica, incapace di dare un giudizio univoco. Così, se Americana non tiene il ritmo di alcuni vecchietti d’eccezione (Leonard Cohen, Tom Waits, Dr John), non è certo il caso di smontare totalmente quest’ultima produzione. E se “Oh Susanna” sembra suonare come “Venus” degli Shocking Blue, gli otto minuti di “Tom Dula” sono effettivamente un po’ troppi e le parti coriste sono decisamente eccessive per un disco rock, la simpatica rivistazione della zeppeliniana “Gallows Pole” e la ballatona acustica di “Wayfarin’ Stranger” non possono che aprire il baule delle emozioni. Il consiglio è dunque di prendere questo Americana per quello che è, un disco di cover, senza paragoni con i fasti del passato, sperando che non sia l’album che consegni Neil Young alla pensione.
Davide Agazzi, outsidersmusica.it


Nella sua lunghissima carriera, partita alla fine degli anni 60 come leader dei Buffalo Springfield, Neil Young ha attraversato cicli artistici diversissimi tra loro: prima la leggendaria partecipazione con Crosby, Stills e Nash, poi sorretto dai Crazy Horse quasi anticipò il movimento grunge, che celebrò definitivamente a metà degli anni Novanta con i ragazzi di Seattle, i Pearl Jam di Eddy Vedder. Ma non ha mai accettato etichette ben definite e si è impelagato anche in lavori musicali molto discutibili, sperimentando l’elettronica estrema o annegando nel country più fondamentalista. Eccolo ripresentarsi ora dopo un periodo in cui si è distinto nel recupero di produzioni perse nell’oblio della memoria storica e nel dare alle stampe vecchi live rimasti inediti: roba da collezionisti o da fan incalliti. La notizia di questa nuova uscita ha stranamente avuto un’importante eco anche sulla stampa specializzata made in Italy, che gli ha dedicato ampie recensioni creando un’attesa risultata alla fine un tantino esagerata.
Americana doveva essere nelle intenzioni di Young, che per l’occasione aveva richiamato a pieno servizio i Crazy Horse, un tributo alle radici del rock, andando a ripescare work – songs o traditionals che a cavallo (è proprio il caso di dirlo) tra l’800 e il secolo scorso si sono tramandate tra le classi più rurali della società americana, dove i nativi pellerossa e gli immigranti europei, alla disperata ricerca di una terra promessa, erano la maggioranza. Doveva essere, attraverso la riproposizione di questi brani storici, l’attualizzarsi di una protesta sulla condizione di precarietà vissuta oggi dalla middle class americana. Doveva essere l’aprire i cassetti della storia musicale (il songbook) e recuperare gioielli di inestimabile valore sociale. Purtroppo la foga di riproporre standard folk in salsa grunge ha tirato un brutto scherzo a Young e ai suoi compagni in questo viaggio a ritroso nel tempo.
Americana non riesce a coinvolgere l’ascoltatore, assalito da chitarre distorte che alla fine diventano puro rumore di fondo, sempre uguali qualunque brano venga presentato: che sia “Oh Susannah”, già plagiato dagli Shocking Blue di “Venus”, oppure “Tom Dula”, o anche “This Land Is Your Land” fino all’inno inglese “God Save The Queen”. Insomma un’operazione inspiegabile, che toglie epicità ai brani scelti, li decontestualizza realizzando versioni che più sghembe non si può, tra cori strazianti e abborracciati, per niente accattivanti e struggenti, che non hanno senso al di fuori di alcuni circoli alternativi statunitensi. Pur ammettendo che si sia voluto evidenziare il lato “dark” e psichedelico di questi brani folk, esiste però un’estetica elementare a cui attenersi che qui non viene proprio presa in considerazione. E la voglia di stupire a tutti costi e apparire radicalmente anticonformista e corrosivo non riesce a giustificare totalmente una tale accozzaglia di suoni.
Altra cosa era l’operazione della Seeger Session, messa in pista nel 2007 da Bruce Springsteen: in questo caso, pur usando un songbook molto simile per temi e struttura musicale, “The Boss” aveva completamente reinventato con passione e grande ritmo non ripiegandosi sul proprio ombelico bensì, attraverso l’accompagnamento di una grande band, aveva reso la proposta universale e “capibile” a tutte le latitudini. Nel rispetto della storia di ogni artista.
Carlo Candio, tempi.it


“Sono nato a Toronto … ricordo che una volta fui vittima di una serie di provocazioni da parte dei bulli della mia classe; il ragazzo che mi sedeva di fronte con il gomito buttò giù i miei libri dal banco … andai dall’insegnante e chiesi se potevo avere il dizionario, era la prima volta che alzavo la mano per chiedere qualcosa, presi il dizionario, mi alzai in piedi … lo tirai su più in alto che potei e lo sbattei in testa a quel ragazzo”. Neil Young è un genio. I Crazy Horse sono Neil Young. Neil Young e i Crazy Horse sono la più bella ed eccitante macchina da rock’n’roll della storia dopo (?) i Rolling Stones. Quando, nel 1969, Brian Jones ci lasciò orfani, Neil sperò di prenderne il posto. Fortunatamente non accadde. Per Neil, per gli Stones, per tutti noi. Clementine ci travolge. Ralph Molina, Billy Talbot e Frank “Poncho” Sampedro martellano su note che sono storia della canzone del Nord America. Hard folk?
Doveva essere un disco nei solchi della tradizione (il Canadese Errante ci ha abituato a questo), ma si incrociano riff e feedback a metà strada fra Reactor e Hawks & Doves. Il suono è quello di venti, trenta, quaranta anni fa. Magnifico. La luna piena nel ranch, racconta Poncho. Vengono alla mente le notti di fumo e tequila di Tonight’s The Night, ma è tutto diverso. Il “loner” ha sessantasei anni e di notti ne ha viste tante altre. ‘Bruce Berry was a workin’ man’ cantava Neil, ma Bruce è morto e Neil e Cavallo Pazzo sono più vivi che mai. L’uomo che la generazione grunge ha eletto come idolo e fonte d’ispirazione è un tripudio di meraviglie … come sempre. Woody Guthrie e la sua “chitarra che uccide i fascisti” esplodono in “This Land Is
Your Land” (il Boss è migliaia di anni luce lontano), “Tom Dooley”, “Get a Job”, Neil e i Crazy Horse: possenti, estremi, bellissimi. Ma aspettiamo con beatitudine ciò che è nato dalle sessions della luna piena… a ottobre: di quale anno non sappiamo, ma Neil c’è!
Maurizio Galasso, distorsioni.net


Mi ero mentalmente riproposto di iniziare più o meno così questa seconda recensione del programmatico Americana: ‘Dopo la sentita elegia - che avete appena finito di leggere - del caro amico e collaboratore napoletano Maurizio Galasso ad Americana, il nuovo commovente lavoro dell’immenso Neil Young e dei ritrovati amatissimi Crazy Horse, cercherò di essere più freddo e di esaminarlo obiettivamente …’. Eccomi qui, ad ascoltare Americana la seconda volta con tutte le migliori intenzioni del mondo; niente da fare, puttana eva: ho già un groppo alla gola che conosco molto bene con l’iniziale primo traditional “Oh Susannah”, terribilmente intrigante, trattata e sottoposta come gli altri dieci brani di questo lavoro incredibile, ad un arrangiamento armonico micidiale e trasfigurante, che la rende irriconoscibile, e vicinissima melodicamente - strano ma verissimo – in alcuni risvolti alla celeberrima “Venus” degli Shocking Blue; 'ma dì un po'... straparaculo di un Young che non sei altro, ma avevi proprio quella in mente mentre arrangiavi Oh Susannah?'.
Già da questo primo episodio è chiaro che l’operazione di Neil Young & Crazy Horse, di certo non nuova, di riproporre riattualizzandola la tradizione americana più tradizionale (ripetizione sintattica voluta) è strepitosa e carismatica, ed il viatico è il – finalmente - ritrovato sound chitarristico epico, iper elettrico, farcito di movenze percussive 'pellerossa' (leggasi nativi d'America) minacciosamente foriere di guerra, elaborato dai quattro all’epoca di dischi entrati nella storia del nostro rock come Everybody Knows This Is Nowhere (1969, Reprise), Tonight’s The Night (1975, Reprise), Zuma (1975, Reprise), Rust Never Sleeps (1979, Reprise), Live Rust (1979, Reprise), Ragged Glory (1990, Reprise) e via dicendo, attraverso i ’90 ed il terzo millennio, sino all’ultimo in ordine di tempo Greendale (2003, Reprise) in cui Neil Young, Ralph Molina (drums), Billy Talbot (bass, vocals), Frank "Poncho" Sampedro (guitar) compaiono insieme, in studio come in tour.
In Americana però i nostri appaiono più sobri e contenuti strumentalmente - come già saggiamente notato da qualcuno molto vicino a Distorsioni - non si lasciano andare a quelle lunghe jam-sfuriate chitarristiche marchio di fabbrica, che (oddio!) non avremmo disdegnato, ma va alla grandissima anche così. La superba drammatizzazione estetica di altri due ultra-conosciuti traditional a stelle e strisce, “Clementine (Oh my darlin’)” e “Tom Dooley” (irriconoscibili anche loro, solo alcune parole del testo ci mettono sulla buona strada) confermano che quando, come in questo strabenedetto nuovo Americana, Neil decide di lavorare ancora con Frank, Billy e Ralph son scintille che sprizzano, e siamo solo al terzo brano in scaletta. Il tempo di rinfrancare lo spirito con “Get a Job” (doo wop ed early Beach Boys mood) e la pastorale ultracountry “Travel On”: a seguire le strepitose rivisitazioni crepuscolari e mistiche di “High Flyin’ Bird” e “Jesus’ Chariot (She’ll Be Coming Round The Mountain)” toccano alcuni degli apici del lavoro (l’addetto ai lavori docet); ci fanno il cuore a pezzettini, questa volta son calde lacrime ed ectoplasmi di un passato trapassato a materializzarsi (“I’ve Been Waiting For You”, “The Loner”), e questo che parla è invece l’’appassionato’, fragile e spoglio di cinture di salvataggio critiche.
La rivisitazione più fedele è quella di “This Land Is Your Land”, commovente ed immortale inno ad un nazionalismo non becero e naif: Woody l’autore, colui che ammazzava i fascisti con la sua chitarra; e non è cambiato molto credetemi, ancor oggi, nonostante ripetuti patetici tentativi di appropriarsene in nome di una storia che di certo non appartiene loro, acustica o elettrica che sia, rimane l’arma più letale per metterglielo in culo … ai fascisti! Dopo i tre minuti accorati di “Wayfarin’ Stranger” si conclude con una “Gode Save The Queen” di cui sinceramente avremmo fatto a meno. Young ha affermato – a proposito nella sua inclusione in Americana - che la sua pregnante britannicità era sentitissima dai coloni americani che la intonavano, e non ho dubbi a riguardo, come anche a proposito della buona fede dell’artista nel definire a 360° un’operazione culturale coerente e necessariamente dallo sguardo retroattivo: nonostante tutto ciò preferisco (preferiamo?), e me ne assumo in prima persona la piena responsabilità (ah ah ah!) la “God Save The Queen” di settantasettina memoria di un certo Johnny Rotten e c., sì, proprio quel ‘re punk scomparso ma non dimenticato’ celebrato da Neil in “Hey Hey, My My” (Rust Never Sleeps). Con questo intrigante gioco di rimandi musicali e cronologici non posso non concludere perdonando al sessantasettenne Young questa règia debolezza, alla luce dei precedenti 53 minuti di Americana stellari, già ‘storia’!
Pasquale Wally Boffoli, distorsioni.net

Immaginate Vasco Rossi che incide un disco di cover e che i brani reinterpretati siano “Quel mazzolin di fiori”, “Romagna mia”, “L’inno di Mameli” e cose simili. Bene, è di fatto quello che ha fatto l’orso canadese con il suo ultimo lavoro intitolato Americana nel quale reinterpreta alcuni classici della musica americana, anche dell’ottocento, alla sua maniera. Per farlo richiama a corte i fidi Crazy Horse garantendo quindi quell’elettricità che solo lo storico gruppo di supporto è in grado di garantire.
Detta così sembrerebbe una pazzia completa, un’iniziativa sulla quale lasciarci le penne ma invece no. Il disco suona come nuovo, le canzoni come fossero uscite direttamente dalla penna dell’artista e i Crazy Horse funzionano che è una meraviglia. Nulla in questo disco è scontato, ogni canzone sorprende per freschezza e originalità.
Siamo in perfetto Young Style e forse il segreto sta tutto qui. A differenza di altri suoi colleghi che nel passato hanno rivisitato gli standards della canzone americana (Rod Stewart e Willie Nelson fra tutti)senza alcun tentativo di personalizzazione ma preoccupati solo di fornire versioni patinate (e inutili) dell’originale, Neil Young se ne frega e fa esattamente l’opposto. Traditionals e classici della canzone americana vengono stravolti e adattati allo stile dell’artista.
Certo, commercialmente, l’impresa sembra persa in partenza ma il disco è vibrante, denso, elettrico al pari di Zuma ed alla fine coinvolge e affascina.
Il lavoro ha inizio con “Oh Susanna”, proprio quella che ogni amante dei films western, di John Wayne e di John Ford conosce a memoria. Un classico della metà dell’ottocento che Neil Young e i Crazy Horse fanno diventare un brano del tutto nuovo, basato sulle chitarre elettriche, in un’atmosfera di tensione che trasfigura il prezzo, riconoscibile solo per il refrain. Se non si trattasse di Neil Young direi che trattasi di un pazzo fuori da ogni controllo, sapendo che invece si tratta proprio di lui il risultato finale riesce a convincere. Bella e trascinante.
Il pezzo seguente è “Clementine”, nota filastrocca della fine dell’Ottocento, indurita e resa elettrica allo spasimo da una schiera di chitarre che riportano ai momenti più intensi del passato di Neil Young, quelli, tanto per intenderci di Live Rust. La batteria picchia durissima e il resto è nella mani e nelle dita dei chitarristi.
“Tom Dula” è una canzone scritta nel 1866 da un autore ad oggi sconosciuto ed è la storia di un omicidio compiuto da un soldato confederato. Il brano ha conosciuto alcune rivisitazioni tra cui, la più famosa, quella ad opera del Kingston Trio. Il ritmo è trascinante e il ripetuto coro che richiama il testo del titolo è azzeccato.
“Gallows Pole” ha il ritmo di una marcia ed il coro in sottofondo. Il brano è, alla fine, riuscito, anche se si distoglie un poco dal contesto generale del lavoro.
La successiva “Get a Job” è una sorta di doo woop, un po’ avulso dal resto del disco. Piacevole ma ben distante dagli apici del lavoro.
“Travel On” è il brano più lungo del lavoro, ha ritmo ed allegria. Alcuni assoli di chitarra si passano il testimone ed il risultato finale è vicino a quello del disco che Springsteen ha dedicato a Pete Seeger. La presenza di un coro sguaiato dà al pezzo un’ aria di festa paesana.
“High Flyn’Bird”, è un brano già reinterpretato nel passato da altri artisti, Stephen Stills tra tutti. Il motivo è pervaso da un tensione elettrica che coinvolge. Il risultato finale è più che buono anche se manca quella melodia che in altre parti del lavoro rappresenta lo spunto vincente.
“Jesus’ Chariot” è un brano del 1800 e il suo inizio ricorda “Back in the U.S.S.R” dei Beatles. Il pezzo è tirato, il coro in sottofondo centrato.
“This Land Is Your Land” è la nota canzone di Woody Guthrie e vede la presenza tra le voci di quella di Stephen Stills. La rilettura, rispetto ai brani che la precedono, è decisamente più folk, le chitarre elettriche sono presenti in modo discreto e il timbro dei Crazy Horse meno evidente. Qui l’aria che si respira è quella di “Long May You Run”, il disco inciso con Stephen Stills qualche decennio fa. Nonostante le innumerevoli versioni già sentite, questa appare ancora nuova ed estremamente piacevole.
Il brano che mi è piaciuto di più è certamente “Wayfarin’ Stranger”, una ballata folk che ha vissuto numerose interpretazioni, tra cui quella memorabile di Johnny Cash, di cui Neil Young offre una versione acustica, cantata con grande rispetto e discrezione.
Termina il lavoro “God Save the Queen”, proprio quella, che parrebbe avere origini americane. Il risultato finale non è male anche se pare un po’ forzato. Bello ed azzeccato il coro.
Bel disco, assolutamente personale.
La rilettura di classici pare più un pretesto per utilizzare dei riffs, delle melodie, dei ritornelli immortali e inserirli in brani originali. Ancora una volta Neil Young ci spiazza, ma non ci delude.
Forse è per questo che dopo quasi 40 anni lo seguiamo ancora con grande passione.
Brother Giober, Bergamonews.it


In tempo di crisi ci si guarda allo specchio. Si fa i conti con i frutti che crescono e con quelli marci, caduti per terra e rosicchiati dai parassiti. L’America puzza di polvere ancora oggi che la sua cicatrice, più sfregiante, possiede undici anni. Niente ripresa, nessuno sviluppo, un pezzo di carta verde chiamato dollaro e un foglio di giornale liso a coprire le notti di homeless e borsisti caduti in disgrazia. Ci si guarda allo specchio in tempo di crisi, in cerca di fiori profumati, buoni pensieri e di quella luce che non abbandona mai chi sa essere ottimista comunque. Zio Neil è così. Ha sfidato l’America a colpi di penna infuocata, l’ha amata come un canadese ama l’America, l’ha attraversata con le sue auto catalitiche, l’ha suonata sempre, lungo i suoi quarant’anni di carriera. E con lui i Crazy Horse, ultima frontiera di un modo di raccontare il nuovo continente. A quarantatré anni da Everybody Knows, This Is Nowhere, la band losangelina e il vecchio Young si guardano allo specchio con Americana. Undici tracce che affrontano il viaggio più affascinante che ci sia: ovvero quello del tempo a ritroso. Canzoni della tradizione a stelle e strisce (e anche prima dello “Stars and Stripes”) che volteggiano oggi sopra un Ground Zero pieno di elettrodi maligni, impattando contro tecnologie griffate, sorvolando città sdentate e disoccupazione, tra insegne di “rent”, cibi avariati, caldo isterico, grandi magazzini cinesi, ettari ed ettari di grano arabo. Ed il miracolo è che né “Susannah” né “Clementine” o “Tom” perdono un grammo della loro vicenda, anzi la rivivono fieramente grazie alla grinta elettrica tipica del “Cavallo Pazzo” e di Uncle Neil, qui con la solita voce generazionale. Poi ci sono i casi in cui la storia si prende gioco di noi, vedi nel caso di “Get A Job”, doo-wop del ‘57 a firma The Silhouttes, in cui il tema dell’assenza di lavoro produce un terribile cortocircuito con il tasso mostruoso di disoccupazione moderna. E si scherza, oh si scherza in questo albo, le risate dei nostri tra una spremuta di chitarre e una prova di forza rock, si sprecano. Si prova a raggirare, con la vecchia ricetta della nostalgia intelligente, un mondo supersonico e indifferente. Talmente tanto, da non essersi accorto di guardare dal basso i rami dell’albero, mentre un verme senza pietà lo divora a morte.
Riccardo Marra, ilcibicida.com

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