Neil Young & Crazy Horse Alchemy Tour 2013 - Lucca
Un immenso Neil Young strega Lucca con un concerto memorabile
Lucca, Piazza Napoleone, 25 luglio 2013. Dio esiste. È canadese. E si chiama Neil Young. Nessuno si offenda, non si vuole essere blasfemi. Impossibile però trovare parole o paragoni sufficienti a rendere giustizia al concerto del cantante in piazza Napoleone a Lucca. L’esibizione andata in scena non era di un uomo, ma di un essere sovrannaturale. Un dio della musica che ha deciso di mostrarsi ai comuni mortali e condividere un momento di pura estasi con i pellegrini arrivati di fronte a lui. La voce, assolutamente integra, è quella di un tempo. A sorprendere ancora di più però sono le qualità del Young musicista. Si dimostra una volta di più, per chi non lo conoscesse in queste vesti, uno dei migliori chitarristi della storia del rock. Assoli formidabili e di ogni tipo hanno accompagnato quasi tutte le canzoni suonate nelle due ore e venti di concerto. A prescindere dalla lunghezza e dal virtuosismo, a stupire è la capacità di rendere il tutto perfettamente omogeneo. Il vecchio Neil (classe ’45) arriva ad allungare alcuni brani oltre i dieci minuti, senza che nessuno dei presenti distolga sguardo e orecchie neppure per un istante. Mai una nota è sembrata fine a se stessa.
C’è poi un altro motivo che spinge a credere nel soprannaturale parlando di Neil Young. Il tempo non solo si è fermato, come capita per i migliori concerti, ma per qualche minuto si è aperto un varco spazio-temporale e tutto il pubblico si è trovato catapultato alla fine degli anni Sessanta. È successo durante l’assolo di Walk Like A Giant, con il cantante canadese a giocare con gli amplificatori e la sua chitarra per creare effetti di risonanza sorprendenti. È andata avanti così tutta la prima ora, tra qualche pezzo del nuovo bellissimo album e capolavori come Powderfinger. Poi, usciti i Crazy Horse (Frank «Poncho» Sampedro alla chitarra, Billy Talbot al basso e Ralph Molina alla batteria), compagni di avventura di una vita e ulteriore pezzo di storia della musica, è stato il turno di quattro canzoni acustiche con chitarra e armonica a bocca, tra le quali un’immensa Heart Of Gold e una cover d’eccezione di Blowin’ In The Wind. Poi, con il gruppo, il Nostro si sposta al piano per Singer Without A Song, prima di imbracciare di nuovo la chitarra elettrica.
È lei la grande compagna di Neil. Ed è sempre lei la protagonista dell’assolo forse migliore tra i tanti stupendi, quello di Fuckin’ Up (perla di un repertorio che spazia dagli inizi all’ultimo album Psychedelic Pill). È qui che un aspetto diventa chiaro: il concerto di Lucca è qualcosa di superiore a qualsiasi possibile categorizzazione. È stato come sentire suonare per la prima volta. L’esibizione di Neil Young è stata una reale epifania, un disvelamento di cosa sia davvero il rock ‘n’ roll. Di cosa sia stato a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta nel suo momento migliore e più puro, di massima perfezione. E di cosa possa ancora essere. È la sublimazione stessa dell’idea di rock. La perfezione della forma unita alla potenza di una band che ne ha vissute tante e tante cose ancora ne sa raccontare. Verso la fine, a tratti, spunta anche qualche sorriso e cenno d’intesa tra Sampedro e Young. Si stanno divertendo e si sente. E così dal cappello escono, oltre alle prevedibili Mr. Soul (dei Buffalo Springfield, con un riff che ricorda molto Satisfaction dei Rolling Stones) e Cinnamon Girl, anche rarità come Surfer Joe And Moe The Sleaze. La chiusura è con Roll Another Number e Everybody Knows This Is Nowhere. Un viaggio negli ultimi cinquant’anni di rock.
Ecco insomma perché Neil Young è un dio, se non il dio, della musica. Perché sa suonare e sa cantare al massimo livello e soprattutto sa trasmettere emozioni. Perché lo fa a quasi settant’anni con alle spalle una vita non proprio morigerata e un aneurisma che sembra non avere lasciato il minimo segno. Perché non ha bisogno di parlare durante il concerto per instaurare un dialogo con il pubblico, a farlo sono la sua chitarra e le sue canzoni. Perché è un immortale, uno dei pochi a essere sopravvissuto alla fine degli anni Sessanta e ad essere arrivato ad oggi in piena forma. Non chiamatelo dio a voce alta, se vi dà fastidio, ma le parole leggenda, mito o gigante non si avvicinano neppure lontanamente a spiegare chi sia Neil Young.
Alvise Losi, OnStage
Torna il cavaliere elettrico: Neil Young seduce Lucca
Nella prima delle due date italiane il musicista canadese e i suoi Crazy Horse regalano montagne di suono con classe di altri tempi
Lucca, 25 luglio 2013 - Di solito i musicisti rock che raggiungono l’età matura decidono di imbracciare chitarra acustica, ukulele e mandolino e di creare versioni “unplugged” dei propri brani. Questo non è il caso di Neil Young, che nel suo viaggio verso le 70 primavere, sottolinea al contrario sempre di più la propria anima rock.
Gli ultimi album della sua vastissima discografia lo dimostrano a partire da Living with war a The noise, da Americana fino all’ultimo Psychedelic Pill. Proprio questo disco riporta con Young i fidati Crazy Horse, gruppo che ha legato il suo nome al suono del cantante e chitarrista canadese, spesso in contrasto con le atmosfere più rassicuranti del sodalizio con Crosby, Stills e Nash. Psychedelic Pill è un album doppio per un totale di 85 minuti di musica e con brani come l’iniziale Driftin’ Back che superano i 25 minuti di durata. Tutto nel segno del rock duro e puro.
Per questo anche dal vivo il copione non cambia come nella prima delle due date italiane del tour, al Summer Festival di Lucca. E i suoi compagni di palco (Billy Talbot al basso, Frank Sampedro alla chitarra e Ralph Molina alla batteria) seguono le indicazioni di Young da bravi operai della musica con quella classe che solo gli artigiani di esperienza sanno regalare.
Psychedelic Pill è rappresentata dal brano che dà il titolo all’album, oltre che da Walk like a Giant e da Ramada Inn. Ma l’inizio, dopo l’ottima esibizione del texano Devendra Banhart forse capitato in una serata più grande di lui, è affidato a Love and Only Love da Ragged Glory del 1990 per fare capire che il repertorio sarebbe stato scelto da tutta la discografia senza privilegiare né gli ultimi dischi né quelli (come Harvest, da cui è stata fatta solo Heart of Gold) appartenenti al cuore di molti spettatori giunti in piazza Napoleone.
Ci sono comunque dei classici pronti a scaldare l‘anima del pubblico come Cinnamon Girl, perle rare come Surfer Joe and Moe the Sleaze ma anche cover di lusso come Blowin’ in the Wind di Bob Dylan e la splendida Mr.Soul degli anni lontani dei Buffalo Springfield. Uno spettacolo che per intensità e volume ha ricordato quello del tour italiano del 2008. Un’altra occasione per far capire che Neil Young non ha certo intenzione di appendere la chitarra elettrica al chiodo.
Michele Manzotti, La Nazione
Il concerto di Lucca
Quella chitarra come nessuna al mondo
Si può fare un concerto e non includere quei brani che normalmente il pubblico pensa essere i più rappresentativi? Insomma, pensate se Bruce Springsteen non facesse Born to Run, Thunder Road, Badlands. O se gli Stones non facessero Satisfaction, Honky Tonk Women e Brown Sugar. Sareste delusi? Forse no, ma un po’ si diciamo la verità. L’altra sera a Lucca Neil Young – che in Italia a suonare ci viene molto più raramente di un Bruce Springsteen – prima di due sole tappe italiane, ha tranquillamente lasciato fuori tre monumenti del suo repertorio quali Hey Hey My My, Rockin’ in the Free World e Like a Hurricane. Qualcuno si è lamentato? Assolutamente no. Il concerto ha perso di bellezza e di interesse? Ancora no. A parte che Young ha un tale repertorio che può tranquillamente fare a meno di pezzi come quelli citati (a Lucca ad esempio ha tirato fuori una rara Mr. Soul e il super classico Heart of Gold), ma lo spettacolo è stato di tale strabordante bellezza che lo si è vissuto come l’evento che è stato. Circa 10mila persone di tutte le età hanno accolto nella piazza ottocentesca dove si svolge il Lucca Summer Festival uno degli ultimi giganti del grande rock, una delle ultime leggende degli anni 60, uno dei più grandi cantautori di sempre.
Accompagnato dai Crazy Horse ha rilasciato il concerto che un fan di Young può solo sognare: due ore di debordanti, lancinanti e possenti assolo di chitarra elettrica. Frank Sampedro (uomo dai mille riff impossibili alla chitarra ritmica) lo stantuffo Billy Talbot (al basso) e il metronomo umano Ralph Molina (alla batteria) hanno fatto quello che da sempre i Crazy Horse fanno con Young: accompagnarlo, assecondarlo e andarlo riprendere quando fugge troppo lontano nelle sue cavalcate impazzite di chitarra.
In questo senso indicativa – e cuore musicale della serata – è stata Walk like a Giant: quasi venti minuti di furia incontenibile, scatenata dall’amplificatore di Young che lo manovrava come una sorta di dottor Frankestein posseduto facendo scaturire assalti sonici senza fine, esplosioni chitarristiche, driff siderali, muri massicci di feedback, assolo lancinanti. Un caos apparente, manovrato invece con intelligenza musicale degna di un genio da parte del canadese. Lo stesso è accaduto in pezzi come Fuckin’ Up: un brano nato come sferragliata punk di un paio di minuti, diventa la celebrazione del concetto di improvvisazione rock. Il riff potente, accattivante, punkettaro è la base di partenza per un selvaggio solismo che lacera le mura dei palazzi di Lucca. Frank Sampedro improvvisa alla voce versi rappati che guardano ai Beastie Boys, Young ride e si diverte, poi l’impresa però è rientrare tutti nei ranghi per recuperare il bisonte che sta cavalcando altrove: Sampedro perde una battuta, e il gioco perfetto di questo quartetto sembra poter deragliare. Invece lo stesso Young recupera la battuta e i quattro possono riprendere all’unisono.
Sembrano sciocchezze, ma quando si suona questo tipo di musica rock, è forse ancor più difficile che improvvisare nel jazz: qua accade tutto al secondo, e non si sbaglia. Dicevamo di una grande serata: forse l’unica nota un po’ criticabile è stata quella dell’intermezzo acustico, ma Young quando suona con i Crazy Horse fa sempre così. La pausa acustica ha infatti fatto calare di tensione quanto di strabordante si era costruito fino a quel momento (l’iniziale Love and Only Love, Powderfinger, Psychedelic Pill e Walk like a Giant) e meglio sarebeb stata eseguirla a fine serata. Tra l’atro, a parte la super applauditissima Heart of Gold che ha mandato in visibilio i presenti, Young ha alquanto deluso nella scelta dei pezzi: due inediti niente di che (Hole in the Sky e la pianistica Singer Without a Song), la trascurabile Red Sun da un disco dei primi anni Duemila. Ovviamente Heart of Gold ha accontentato tutti, mentre Human Highway (1978) forse è stata riconosciuta da pochi. Nell’anno del cinquantenario del disco cantautorale più importante di tutti i tempi, “The Freewheelin’ Bob Dylan”, Young ha proposto poi Blowin’ in the Wind: cattiva, i versi sputati con veemenza, il canadese ne ha celebrato l’importanza al cuore del rock.
Poi è ripresa la cavalcata elettrica: la versione lunghissima e furiosa di Ramada Inn è sta semplicemente esaltante, assolo di chitarra di epica bellezza pieno di sfumature romantiche aprono agli scenari di quel Canada da dove un giorno è arrivato Neil Young. E' un mondo perduto, che improvvisamente ci viene messo davanti. Cinnamon Girl ha ricordato i giorni belli del Laurel Canyon e del sogno hippie, mentre Surfer Joe and Moe the Sleaze, tratta con disinvolto coraggio da uno dei dischi più brutti in assoluto del canadese, “Reactor”, è stata proposta in smagliante versione rock’n’roll.
Young ha lasciato il palco con una sublime Mr. Soul dei giorni dei Buffalo Springfield portando ancora il pubblico nei più alti spazi siderali di una psichedelia che va a braccetto con l’hard rock. C’è infatti nel parossismo con cui Young suona la chitarra una dose di violenza che a tratti pare quasi insostenibile sostenere. Non solo: c’è un dolore che fuoriesce in quel magma sonoro, violenza e dolore che sembrano dirci quanto il musicista sul palco stia piangendo e allo stesso tempo esplodendo di rabbia per le bruttezze e le ingiustizie del mondo. D’altro canto qualcuno aveva profetizzato in un’altra epoca e in un altro tempo che “la sua chitarra avrebbe pianto”. Non c’è nessun altro al mondo che faccia piangere e urlare la sua chitarra in questo modo, e sicuramente mai più ci sarà. Lo ha detto anche lui in questa serata di Lucca: camminare come un gigante, ma dove sono finiti i giganti che accendevano il nostro cuore? Spariti, nel cinismo del terzo
millennio.
Nonostante l’ora tarda, Young è tornato ancora sul palco per salutare il pubblico incontenibile: tornate a casa dai vostri bambini, ha detto, che avete affidato a qualche baby sitter per questa sera. Fate in modo che domani mattina sia per loro un giorno meraviglioso, fate la differenza per queste meravigliose piccole vite umane. Poi con la consapevolezza che da sempre lo contraddistingue ha salutato in modo un po’ inquietante: ci rivedremo ancora da qualche parte, ma in realtà questo potrebbe essere l’ultimo grazie che vi rivolgo. Chissà se domani saremo ancora qua. Ma il saluto più bello sono stati altri due pezzi di musica, un tuffo in quegli anni 70 che hanno dettato le coordinate esistenziali dei molti che eravamo lì. Roll Another Number (in cui Young recita ancora oggi con certo veleno quei versi che ci svegliarono dolorosamente dal sogno hippie riportandoci con i piedi per terra: “I'm not goin' back to Woodstock for a while, Though I long to hear that lonesome hippie smile. I'm a million miles away from that helicopter day. No, I don't believe I'll be goin' back that way) e una divertente e scanzonata Everybody Knows This Is Nowhere. A quasi 70 anni di età, Neil Young ha dimostrato che il rock non solo mantiene per sempre giovani, ma dà la forza e la visione per affrontare il mondo. Con onestà e passione.
Paolo Vites, Il Sussidiario
Lucca, Piazza Napoleone, 25 luglio 2013. Dio esiste. È canadese. E si chiama Neil Young. Nessuno si offenda, non si vuole essere blasfemi. Impossibile però trovare parole o paragoni sufficienti a rendere giustizia al concerto del cantante in piazza Napoleone a Lucca. L’esibizione andata in scena non era di un uomo, ma di un essere sovrannaturale. Un dio della musica che ha deciso di mostrarsi ai comuni mortali e condividere un momento di pura estasi con i pellegrini arrivati di fronte a lui. La voce, assolutamente integra, è quella di un tempo. A sorprendere ancora di più però sono le qualità del Young musicista. Si dimostra una volta di più, per chi non lo conoscesse in queste vesti, uno dei migliori chitarristi della storia del rock. Assoli formidabili e di ogni tipo hanno accompagnato quasi tutte le canzoni suonate nelle due ore e venti di concerto. A prescindere dalla lunghezza e dal virtuosismo, a stupire è la capacità di rendere il tutto perfettamente omogeneo. Il vecchio Neil (classe ’45) arriva ad allungare alcuni brani oltre i dieci minuti, senza che nessuno dei presenti distolga sguardo e orecchie neppure per un istante. Mai una nota è sembrata fine a se stessa.
C’è poi un altro motivo che spinge a credere nel soprannaturale parlando di Neil Young. Il tempo non solo si è fermato, come capita per i migliori concerti, ma per qualche minuto si è aperto un varco spazio-temporale e tutto il pubblico si è trovato catapultato alla fine degli anni Sessanta. È successo durante l’assolo di Walk Like A Giant, con il cantante canadese a giocare con gli amplificatori e la sua chitarra per creare effetti di risonanza sorprendenti. È andata avanti così tutta la prima ora, tra qualche pezzo del nuovo bellissimo album e capolavori come Powderfinger. Poi, usciti i Crazy Horse (Frank «Poncho» Sampedro alla chitarra, Billy Talbot al basso e Ralph Molina alla batteria), compagni di avventura di una vita e ulteriore pezzo di storia della musica, è stato il turno di quattro canzoni acustiche con chitarra e armonica a bocca, tra le quali un’immensa Heart Of Gold e una cover d’eccezione di Blowin’ In The Wind. Poi, con il gruppo, il Nostro si sposta al piano per Singer Without A Song, prima di imbracciare di nuovo la chitarra elettrica.
È lei la grande compagna di Neil. Ed è sempre lei la protagonista dell’assolo forse migliore tra i tanti stupendi, quello di Fuckin’ Up (perla di un repertorio che spazia dagli inizi all’ultimo album Psychedelic Pill). È qui che un aspetto diventa chiaro: il concerto di Lucca è qualcosa di superiore a qualsiasi possibile categorizzazione. È stato come sentire suonare per la prima volta. L’esibizione di Neil Young è stata una reale epifania, un disvelamento di cosa sia davvero il rock ‘n’ roll. Di cosa sia stato a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta nel suo momento migliore e più puro, di massima perfezione. E di cosa possa ancora essere. È la sublimazione stessa dell’idea di rock. La perfezione della forma unita alla potenza di una band che ne ha vissute tante e tante cose ancora ne sa raccontare. Verso la fine, a tratti, spunta anche qualche sorriso e cenno d’intesa tra Sampedro e Young. Si stanno divertendo e si sente. E così dal cappello escono, oltre alle prevedibili Mr. Soul (dei Buffalo Springfield, con un riff che ricorda molto Satisfaction dei Rolling Stones) e Cinnamon Girl, anche rarità come Surfer Joe And Moe The Sleaze. La chiusura è con Roll Another Number e Everybody Knows This Is Nowhere. Un viaggio negli ultimi cinquant’anni di rock.
Ecco insomma perché Neil Young è un dio, se non il dio, della musica. Perché sa suonare e sa cantare al massimo livello e soprattutto sa trasmettere emozioni. Perché lo fa a quasi settant’anni con alle spalle una vita non proprio morigerata e un aneurisma che sembra non avere lasciato il minimo segno. Perché non ha bisogno di parlare durante il concerto per instaurare un dialogo con il pubblico, a farlo sono la sua chitarra e le sue canzoni. Perché è un immortale, uno dei pochi a essere sopravvissuto alla fine degli anni Sessanta e ad essere arrivato ad oggi in piena forma. Non chiamatelo dio a voce alta, se vi dà fastidio, ma le parole leggenda, mito o gigante non si avvicinano neppure lontanamente a spiegare chi sia Neil Young.
Alvise Losi, OnStage
Torna il cavaliere elettrico: Neil Young seduce Lucca
Nella prima delle due date italiane il musicista canadese e i suoi Crazy Horse regalano montagne di suono con classe di altri tempi
Lucca, 25 luglio 2013 - Di solito i musicisti rock che raggiungono l’età matura decidono di imbracciare chitarra acustica, ukulele e mandolino e di creare versioni “unplugged” dei propri brani. Questo non è il caso di Neil Young, che nel suo viaggio verso le 70 primavere, sottolinea al contrario sempre di più la propria anima rock.
Gli ultimi album della sua vastissima discografia lo dimostrano a partire da Living with war a The noise, da Americana fino all’ultimo Psychedelic Pill. Proprio questo disco riporta con Young i fidati Crazy Horse, gruppo che ha legato il suo nome al suono del cantante e chitarrista canadese, spesso in contrasto con le atmosfere più rassicuranti del sodalizio con Crosby, Stills e Nash. Psychedelic Pill è un album doppio per un totale di 85 minuti di musica e con brani come l’iniziale Driftin’ Back che superano i 25 minuti di durata. Tutto nel segno del rock duro e puro.
Per questo anche dal vivo il copione non cambia come nella prima delle due date italiane del tour, al Summer Festival di Lucca. E i suoi compagni di palco (Billy Talbot al basso, Frank Sampedro alla chitarra e Ralph Molina alla batteria) seguono le indicazioni di Young da bravi operai della musica con quella classe che solo gli artigiani di esperienza sanno regalare.
Psychedelic Pill è rappresentata dal brano che dà il titolo all’album, oltre che da Walk like a Giant e da Ramada Inn. Ma l’inizio, dopo l’ottima esibizione del texano Devendra Banhart forse capitato in una serata più grande di lui, è affidato a Love and Only Love da Ragged Glory del 1990 per fare capire che il repertorio sarebbe stato scelto da tutta la discografia senza privilegiare né gli ultimi dischi né quelli (come Harvest, da cui è stata fatta solo Heart of Gold) appartenenti al cuore di molti spettatori giunti in piazza Napoleone.
Ci sono comunque dei classici pronti a scaldare l‘anima del pubblico come Cinnamon Girl, perle rare come Surfer Joe and Moe the Sleaze ma anche cover di lusso come Blowin’ in the Wind di Bob Dylan e la splendida Mr.Soul degli anni lontani dei Buffalo Springfield. Uno spettacolo che per intensità e volume ha ricordato quello del tour italiano del 2008. Un’altra occasione per far capire che Neil Young non ha certo intenzione di appendere la chitarra elettrica al chiodo.
Michele Manzotti, La Nazione
Il concerto di Lucca
Quella chitarra come nessuna al mondo
Si può fare un concerto e non includere quei brani che normalmente il pubblico pensa essere i più rappresentativi? Insomma, pensate se Bruce Springsteen non facesse Born to Run, Thunder Road, Badlands. O se gli Stones non facessero Satisfaction, Honky Tonk Women e Brown Sugar. Sareste delusi? Forse no, ma un po’ si diciamo la verità. L’altra sera a Lucca Neil Young – che in Italia a suonare ci viene molto più raramente di un Bruce Springsteen – prima di due sole tappe italiane, ha tranquillamente lasciato fuori tre monumenti del suo repertorio quali Hey Hey My My, Rockin’ in the Free World e Like a Hurricane. Qualcuno si è lamentato? Assolutamente no. Il concerto ha perso di bellezza e di interesse? Ancora no. A parte che Young ha un tale repertorio che può tranquillamente fare a meno di pezzi come quelli citati (a Lucca ad esempio ha tirato fuori una rara Mr. Soul e il super classico Heart of Gold), ma lo spettacolo è stato di tale strabordante bellezza che lo si è vissuto come l’evento che è stato. Circa 10mila persone di tutte le età hanno accolto nella piazza ottocentesca dove si svolge il Lucca Summer Festival uno degli ultimi giganti del grande rock, una delle ultime leggende degli anni 60, uno dei più grandi cantautori di sempre.
Accompagnato dai Crazy Horse ha rilasciato il concerto che un fan di Young può solo sognare: due ore di debordanti, lancinanti e possenti assolo di chitarra elettrica. Frank Sampedro (uomo dai mille riff impossibili alla chitarra ritmica) lo stantuffo Billy Talbot (al basso) e il metronomo umano Ralph Molina (alla batteria) hanno fatto quello che da sempre i Crazy Horse fanno con Young: accompagnarlo, assecondarlo e andarlo riprendere quando fugge troppo lontano nelle sue cavalcate impazzite di chitarra.
In questo senso indicativa – e cuore musicale della serata – è stata Walk like a Giant: quasi venti minuti di furia incontenibile, scatenata dall’amplificatore di Young che lo manovrava come una sorta di dottor Frankestein posseduto facendo scaturire assalti sonici senza fine, esplosioni chitarristiche, driff siderali, muri massicci di feedback, assolo lancinanti. Un caos apparente, manovrato invece con intelligenza musicale degna di un genio da parte del canadese. Lo stesso è accaduto in pezzi come Fuckin’ Up: un brano nato come sferragliata punk di un paio di minuti, diventa la celebrazione del concetto di improvvisazione rock. Il riff potente, accattivante, punkettaro è la base di partenza per un selvaggio solismo che lacera le mura dei palazzi di Lucca. Frank Sampedro improvvisa alla voce versi rappati che guardano ai Beastie Boys, Young ride e si diverte, poi l’impresa però è rientrare tutti nei ranghi per recuperare il bisonte che sta cavalcando altrove: Sampedro perde una battuta, e il gioco perfetto di questo quartetto sembra poter deragliare. Invece lo stesso Young recupera la battuta e i quattro possono riprendere all’unisono.
Sembrano sciocchezze, ma quando si suona questo tipo di musica rock, è forse ancor più difficile che improvvisare nel jazz: qua accade tutto al secondo, e non si sbaglia. Dicevamo di una grande serata: forse l’unica nota un po’ criticabile è stata quella dell’intermezzo acustico, ma Young quando suona con i Crazy Horse fa sempre così. La pausa acustica ha infatti fatto calare di tensione quanto di strabordante si era costruito fino a quel momento (l’iniziale Love and Only Love, Powderfinger, Psychedelic Pill e Walk like a Giant) e meglio sarebeb stata eseguirla a fine serata. Tra l’atro, a parte la super applauditissima Heart of Gold che ha mandato in visibilio i presenti, Young ha alquanto deluso nella scelta dei pezzi: due inediti niente di che (Hole in the Sky e la pianistica Singer Without a Song), la trascurabile Red Sun da un disco dei primi anni Duemila. Ovviamente Heart of Gold ha accontentato tutti, mentre Human Highway (1978) forse è stata riconosciuta da pochi. Nell’anno del cinquantenario del disco cantautorale più importante di tutti i tempi, “The Freewheelin’ Bob Dylan”, Young ha proposto poi Blowin’ in the Wind: cattiva, i versi sputati con veemenza, il canadese ne ha celebrato l’importanza al cuore del rock.
Poi è ripresa la cavalcata elettrica: la versione lunghissima e furiosa di Ramada Inn è sta semplicemente esaltante, assolo di chitarra di epica bellezza pieno di sfumature romantiche aprono agli scenari di quel Canada da dove un giorno è arrivato Neil Young. E' un mondo perduto, che improvvisamente ci viene messo davanti. Cinnamon Girl ha ricordato i giorni belli del Laurel Canyon e del sogno hippie, mentre Surfer Joe and Moe the Sleaze, tratta con disinvolto coraggio da uno dei dischi più brutti in assoluto del canadese, “Reactor”, è stata proposta in smagliante versione rock’n’roll.
Young ha lasciato il palco con una sublime Mr. Soul dei giorni dei Buffalo Springfield portando ancora il pubblico nei più alti spazi siderali di una psichedelia che va a braccetto con l’hard rock. C’è infatti nel parossismo con cui Young suona la chitarra una dose di violenza che a tratti pare quasi insostenibile sostenere. Non solo: c’è un dolore che fuoriesce in quel magma sonoro, violenza e dolore che sembrano dirci quanto il musicista sul palco stia piangendo e allo stesso tempo esplodendo di rabbia per le bruttezze e le ingiustizie del mondo. D’altro canto qualcuno aveva profetizzato in un’altra epoca e in un altro tempo che “la sua chitarra avrebbe pianto”. Non c’è nessun altro al mondo che faccia piangere e urlare la sua chitarra in questo modo, e sicuramente mai più ci sarà. Lo ha detto anche lui in questa serata di Lucca: camminare come un gigante, ma dove sono finiti i giganti che accendevano il nostro cuore? Spariti, nel cinismo del terzo
millennio.
Nonostante l’ora tarda, Young è tornato ancora sul palco per salutare il pubblico incontenibile: tornate a casa dai vostri bambini, ha detto, che avete affidato a qualche baby sitter per questa sera. Fate in modo che domani mattina sia per loro un giorno meraviglioso, fate la differenza per queste meravigliose piccole vite umane. Poi con la consapevolezza che da sempre lo contraddistingue ha salutato in modo un po’ inquietante: ci rivedremo ancora da qualche parte, ma in realtà questo potrebbe essere l’ultimo grazie che vi rivolgo. Chissà se domani saremo ancora qua. Ma il saluto più bello sono stati altri due pezzi di musica, un tuffo in quegli anni 70 che hanno dettato le coordinate esistenziali dei molti che eravamo lì. Roll Another Number (in cui Young recita ancora oggi con certo veleno quei versi che ci svegliarono dolorosamente dal sogno hippie riportandoci con i piedi per terra: “I'm not goin' back to Woodstock for a while, Though I long to hear that lonesome hippie smile. I'm a million miles away from that helicopter day. No, I don't believe I'll be goin' back that way) e una divertente e scanzonata Everybody Knows This Is Nowhere. A quasi 70 anni di età, Neil Young ha dimostrato che il rock non solo mantiene per sempre giovani, ma dà la forza e la visione per affrontare il mondo. Con onestà e passione.
Paolo Vites, Il Sussidiario
1. Love And Only Love
2. Powderfinger
3. Psychedelic Pill
4. Walk Like A Giant
5. Hole In The Sky
6. Red Sun
7. Heart Of Gold
8. Human Highway
9. Blowin' In The Wind
10. Singer Without A Song
11. Ramada Inn
12. Cinnamon Girl
13. F*!#in' Up
14. Surfer Joe And Moe The Sleaze
15. Mr. Soul
16. Roll Another Number
17. Everybody Knows This Is Nowhere
2. Powderfinger
3. Psychedelic Pill
4. Walk Like A Giant
5. Hole In The Sky
6. Red Sun
7. Heart Of Gold
8. Human Highway
9. Blowin' In The Wind
10. Singer Without A Song
11. Ramada Inn
12. Cinnamon Girl
13. F*!#in' Up
14. Surfer Joe And Moe The Sleaze
15. Mr. Soul
16. Roll Another Number
17. Everybody Knows This Is Nowhere