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Neil Young + Promise Of The Real: The Visitor (Reprise Records, 2017)


    01 Already Great
    02 Fly By Night Deal
    03 Almost Always
    04 Stand Tall
    05 Change of Heart
    06 Carnival
    07 Diggin’ a Hole
    08 Children of Destiny
    09 When Bad Got Good
    10 Forever

“A proposito, sono canadese ma amo l'America.”
Parte così The Visitor e “il visitatore” in questione è proprio lui, Neil Young, canadese trapiantato che da sempre osserva la storia e il presente del Nuovo Continente con fascino e sdegno mischiati assieme. Il titolo del suo ultimo lavoro è eloquente: Neil sembra volerci offrire uno scorcio dell'America di oggi nei suoi molteplici e contraddittori lati. Lo fa attraverso dei testi a cui ormai siamo abituati: indignazione e rabbia verso la politica, i governi, le multinazionali e gli uomini avidi di denaro e potere.
Ma in The Visitor non c'è solo questo; a differenza di The Monsanto Years, similmente a Peace Trail, i temi sono più generali e non mancano gli aspetti più intimistici e le constatazioni personali che meglio contraddistinguono il cantautore (va detto, con risultati migliori di Peace Trail). Neil fa sempre i conti con ciò che diceva in “Just Singin' A Song” (un bel momento di Fork In The Road): non basta una canzone per cambiare il mondo, ma nel proprio piccolo (canta Young qui) “provo a fare qualche differenza”. Se in un momento Neil si indigna per colpa di Trump, il momento dopo Young medita “sono sulla mia strada, ora mi fermo per riposare e mangiare, provando a non danneggiare ciò che mi trovo di fronte, cercando un modo per essere completo”. Una filosofia che dovrebbe essere parte di tutti noi.
Da un punto di vista musicale, vari punti di The Visitor toccano sonorità piuttosto inedite, e questo ne fa senz'altro una prova di coraggio nonché l'ennesima dimostrazione di coerenza, perfettamente in linea con la costante esplorazione dei generi (roots ma non solo) che percorre tutta la carriera younghiana. Neil sembra voler “visitare” alcuni degli stili musicali che popolano l'America e che si fanno veicolo di messaggi diversi. Abbiamo il grezzo rock da protest-song di “Already Great” (con cui l'album si apre, la più somigliante alle sonorità elettriche classiche di Neil Young) e “Stand Tall” (inno ambientalista sulla riga dei precedenti “Who's Gonna Stand Up” e “Seed Justice”, ma francamente con molto meno appeal).
Abbiamo il blues sporco da tradizionale di “Diggin' a Hole” e “When Bad Got Good” (due brevi e godibilissimi momenti che fanno ripensare a Americana). Abbiamo quell'inno patriottico e anti-militarista che ha fatto parlare di sé (nel bene e forse soprattutto nel male) l'estate scorsa quando è stato rilasciato su internet in anteprima, dal titolo “Children Of Destiny”, che vede l'accostamento delle chitarre elettriche di Young + Promise of the Real a un'orchestra sinfonica + coro.
Abbiamo le ballad folk/western reminiscenti di altro Young: “Almost Always” (con riferimenti a “Unknown Legend” nell'arpeggio), “Change of Heart” e la lunga coda di “Forever” (che ricordano certe parti acustiche di Sleeps With Angels e Greendale). Le percussioni, le tastiere e le chitarre echeggianti dei Promise danno a questi momenti acustici una tonalità a metà tra l'etnico e lo spettrale, davvero gradevole e profonda.
Poi arrivano i tocchi di classe, quello che ancora non avevamo mai sentito in un album di Young dopo mezzo secolo di carriera. In “Carnival”, dall'inaspettato sapore texmex, la consueta impostazione lirica di Neil lascia il posto a parlato, risate, esclamazioni e grugniti… Poi nel ritornello si cambia tempo e il mood si fa improvvisamente quello di un carosello da lunapark che ricorda, ebbene sì, i Buffalo Springfield di “Broken Arrow”.
Nella breve “Fly By Night Deal” Neil praticamente rappeggia mentre dietro i ragazzi Nelson costruiscono un arrangiamento che mischia ritmi funky, scampanellii orientali e l'armonica noise già sentita in Greendale e Peace Trail. Un tocco di eccentricità che lascia di stucco al primo ascolto, ma più lo si ascolta più è dannatamente fantastico.
L'accompagnamento dei Promise, più pronti a sperimentare insieme a Neil rispetto alla pacca di solido rock che regalavano in The Monsanto Years, contribuisce a substrati musicali variegati, ricchi, dalle mille sfaccettature e provenienze, debitori di strumenti e ritmi e tradizioni musicali di un intero continente. Il tocco, insomma, di cui si sentiva la mancanza in Peace Trail: al contrario di quel disco, The Visitor è bello denso, una zuppa musicale da bere d'un fiato. La band è talentuosa ed eclettica e si dimostra una compagna di strada ideale per questo momento creativo.
The Visitor, come tutti gli album di Neil Young da un ventennio a oggi, non si annovera tra i capolavori che definiscono il suo songwriting né i dischi da ricordare nella storia della musica. Ma Neil ha sempre qualcosa da dire e soprattutto qualcosa ancora da provare. Tolte un paio di canzoni discutibili (ma pur sempre ispirate), l'album funziona egregiamente: è vario e variopinto come certi dischi dei vecchi tempi, c'è l'elettrico e c'è l'acustico e ci sono cose che non hanno eguali nell'intera discografia younghiana, oltre a un sound come sempre diverso da tutti i predecessori. Che altro si può chiedere a un cantautore settantaduenne?!
Che in conclusione canta tristemente: “la Terra è come una chiesa senza un predicatore”, ribadendo ciò che gli sta davvero a cuore oltre alla musica.


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