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Rassegna stampa d'epoca: Zuma / Long May You Run


ZUMA – 1975

L'ultima uscita di Neil Young, Zuma, mostra i suoi diversi talenti come cantante e compositore fornendo un'affascinante retrospettiva della sua lunga e variegata carriera. La chiave del successo di Young è sempre stata la sua sorprendente versatilità. Young scrive con sensibilità, è un cantante creativo ed è un fenomenale chitarrista, e la combinazione di questi talenti gli ha dato una marcia in più rispetto a molti degli artisti della musica popolare. Queste qualità vengono dimostrate come non mai in questo nuovo album.
Il dono che Young ha per la parola è stato raramente ai livelli che mostra Zuma. Senza dubbio alcuno, l'LP conferma la mia sensazione che lui sia un moderno poeta travestito da rock star – un artista creativo che ha mischiato poesia e musica per ottenere un ineguagliabile, contemporaneo veicolo per le sue idee. Solo Bob Dylan, Joni Mitchell o Jackson Browne hanno mostrato questo talento nel modo così intenso e provocante che Young adotta su Zuma. Mentre molte delle nuove canzoni sono sostenute principalmente dai testi, altre vedono formidabili assoli di voce o di chitarra per veicolare ciò che Young cerca di dire.
“Pardon My Heart”, uno sguardo indietro ai giorni in cui Young lasciava i Buffalo Springfield e cercava di formarsi come folksinger, è un brano rarefatto che dipende dalle intricate implicazioni del testo che arrivano all'ascoltatore. Young esamina la perdita della sua amante e conclude nel ritornello che lui stesso “se l'è procurato” e poi nega quel messaggio, dicendo “no, non credo a questa canzone”. Questa attitudine vendicativa è esemplificata nella canzone “Stupid Girl”, dove incolpa una donna per gli errori che ha commesso con lei.
“Drive Back”, “Barstool Blues” e “Don't Cry No Tears” sono brani che ricordano le prime collaborazioni tra Young e i Crazy Horse su Everybody Knows This Is Nowhere. Le abilità tecniche della band sono al meglio, qui, e mettono in luce il notevole talento di Young per la chitarra.
Su gran parte degli altri brani, comunque, Young si presenta come un “ballader” di non pochi talenti. In “Danger Bird” tesse un inquietante racconto che calamita l'attenzione. In “Looking For A Love” Young decide che cercherà il suo prossimo amore al meglio delle sue capacità.
La versatilità di Young è ulteriormente dimostrata in “Cortez The Killer”, nella quale descrive come gli spagnoli conquistarono l'impero Azteco e suggerisce che un simile massacro possa avvenire ancora oggi. Il lungo assolo di chitarra, la minuziosa storyline e la rabbia con cui Young pronuncia il nome di Cortez fa capire all'ascoltatore che siamo di fronte a un lavoro di fino come lo erano “Cowgirl In The Sand” e “Southern Man”.
Dopo il successo critico di On The Beach e Tonight's The Night, Young ha infine pubblicato materiale che otterrà anche popolarità. Ha combinato diversi elementi della sua energica musica in un una forza coesiva grazie alla quale esprime i demoni e gli angeli che abitano la sua anima.
Kurt Harju, Michigan Daily 1975

Tonight's The Night, pubblicato lo scorso luglio, sembrava un atto suicida artistico e commerciale; Zuma ci racconta una storia ugualmente tragica ma il suo tono è più vicino all'omicidio. Come Blood On The Tracks di Bob Dylan, Still Crazy After All di Paul Simon e Red Headed Stranger di Willie Nelson, Zuma è ossessionato dalla rottura del matrimonio. Ma mentre Dylan, Simon e Nelson puntavano al rimorso e all'eventuale redenzione, Young ha solo desidero di vendetta. “Torna indietro alla tua vecchia città” canta con evidente perfidia, “voglio svegliarmi con nessuno intorno”.
Il conforto non c'è proprio, come fattore, nemmeno in “Through My Sails”, una canzone sinistramente bellissima con le armonie di Crosby, Stills, Nash & Young, che chiude il disco. Qui, Young sale al paradiso ma non riesce a toccare terra: “confusione totale, disillusione, nuove cose che apprendo”.
Ma ciò che rende Zuma davvero stupendo è che Young suona in modo arrabbiato tanto quanto scrive. La musica ricorda il meglio di After The Gold Rush, con linee di chitarra che riecheggiano dei riff più maestosi dei Buffalo Springfield. “Drive Back”, “Stupid Girl”, “Don't Cry No Tears” e “Barstool Blues” sono tutte cariche dell'onnipresente tensione tra Young e i nuovi Crazy Horse, in particolare col secondo chitarrista appena arrivato Frank Sampedro, che fa da complemento a Young tanto bene quanto lo era Danny Whitten.
Comunque, non è un album dall'ascolto così facile come After The Gold Rush o Harvest; è violento, teso, persino intimidatorio. Se Young appare meno frustrato che non su Time Fades Away, On The Beach o Tonight's The Night, non è di sicuro a suo agio nella situazione. E in un certo qual modo, dato che Young è abile nel lanciarsi in momenti di tranquilla bellezza (“Pardon My Heart”, solo con Tim Drummond all'accompagnamento; le magniloquenti armonie di CSNY in “Through My Sails”; la spettrale “Cortez The Killer” che è quasi una celebrazione di guerra e belligeranza), Zuma è forse il più confuso disco che abbia mai fatto. Young somiglia a un profeta da Vecchio Testamento che non sarà soddisfatto finché il mondo non gira come dovrebbe; e dato che non succederà, lancia maledizioni a destra e a manca sopra le nostre teste.
Dave Marsh, Lakeland Ledger 1975


LONG MAY YOU RUN – (The Stills-Young Band) 1976

Quando CSNY si sono sciolti dopo 4 Way Street, Nash e Crosby si sono uniti per alcuni dischi insieme e alcuni solisti. Dopo un periodo di pausa, Stills e Young si sono uniti per questo disco. Solo su Zuma, un disco di Young, il gruppo completo si era ritrovato per una canzone.
Qui c'è una totale diversità nello stile tra i due. Sebbene gran parte dei pezzi provenga da entrambi nel senso che Young suona su una canzone di Stills e viceversa, ciascuno canta le proprie.
E ancora una volta, Young spicca per la sua brillantezza. Suona rilassato, disteso come se fosse in vacanza, cantando più per ammazzare il tempo che per interesse. Stills, il cui apice è stato “Suite Judy Blue Eyes” (dedicata alla sua fiamma Judy Collins), dimostra ancora degli sprizzi di brillantezza in “12/8 Blues (All The Same)” che parla di come finisca la comunicazione tra due amanti: “Voglio parlare con te, ascolta, troppe volte ho sprecato le mie parole, è un crimine chiedere di essere ascoltato?”
Per i fan di Young, questo album è l'essenziale testimone di una fase della sua carriera, e per i seguaci di Stills egli ha i suoi momenti. 
SF Lam, New Straits Time 1976

La giustapposizione tra Stills e Young in Long May You Run (ognuno con le sue canzoni) dovrebbe – ma probabilmente non sarà così – mettere fine alla carriera di Stills. Il salto di qualità è sproporzionato. Young colpisce forte e diretto; Stills fa tanto rumore per nulla. Il miglior matrimonio sarebbe tra Young e Lou Reed. Senza scherzi. 
Bill Bentley, Lyon County Reporter 1976
   
Questo disco dovrebbe piacere agli ammiratori di Steven Stills, ecco perché contiene “Black Coral”, la miglior canzone che scrive da anni, così come un certo fine lavoro di chitarra. I fan di Neil Young saranno scusati per il loro scarso entusiasmo; la title-track è un bell'esempio del lavoro di Young, ma le altre non lo sono. La sensazione è vaga e sperimentale, senza la coerenza della prima collaborazione tra Young e Stills, nei Buffalo Springfield, che ha raggiunto grandiose vette. 
Dave Marsh, The Morning Record 1976

LA PARTNERSHIP STILLS-YOUNG: NON ESATTAMENTE UNA COLLABORAZIONE
Long May You Run della Stills-Young Band è la prima collaborazione ufficiale tra Neil Young e Stephen Stills dai tempi di Dejà Vu di Crosby Stills Nash & Young. Ma diversamente da quel titolo, questo album non è niente che abbiate già sentito da questi due collettivi, quindi non aspettatevi un facsimile di “Mr. Soul” dei Buffalo Springfield o di “Woodstock” di CSNY.
Invece bisogna aspettarsi una estensione degli stili che i due hanno sviluppato nel corso degli anni, che sia il grezzo, talvolta oscuro, country-rock di Young, o i ritmi jazz-latini di Stills.
Questo è il problema principale di questo album. Sebbene sia venduto come una collaborazione (la Stills-Young Band del titolo) non sembra che i due partecipanti accettino appieno l'idea. In pratica ciò che l'ascoltatore sente è una canzone di Neil Young, con Stills seduto, e una canzone di Stills, con Young seduto.
La prima canzone, che dà il titolo, è la più vicina del disco a uno “Stills-Young sound”. La canzone è composta da Young, una melodia country che parla di un'auto di vecchia data. Anche se l'argomento è evidentemente leggerino, la canzone è davvero orecchiabile e contiene contributi interessanti da parte di entrambi gli artisti. Young ci mette qui e là una bella armonica mentre Stills interviene con un po' di chitarra che è allo stesso tempo potente e di sottofondo.
Da qui il disco diventa un'alternanza tra una canzone di Stills e una di Young con entrambi che suonano nello stesso modo che se fossero su un album solista. “I Want To Make Love To You” è una canzone di Stills che nella sua presunzione blues funziona, mentre “12/8 Blues (All The Same)” è il suo miglior pezzo e probabilmente uno dei migliori che abbia fatto da diverso tempo. “12/8 Blues” ha una chitarra trascinante e un eccellente break di Stills. Quello che manca è una buona chitarra che bilanci i criteri dell'album.
Long May You Run è un buon disco ma non un grande disco. Come i loro concerti estivi, è sul bordo di quella grandezza di cui entrambi sono consapevoli e capaci, ma non riesce a raggiungerla. Questo disco non rimpiazzerà nessun disco dei Buffalo Springfield o i migliori dischi solisti dei due. Ma è interessante, contiene comunque buona musica e vale i soldi spesi. Sebbene si potesse avere molto di più. 
Dan Kaferle, The Morning Record 1976

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