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Neil Young, Jack White e Archives 2: l'intervista di Rolling Stone


Quando hai realizzato A Letter Home e di chi è stata l'idea, tua o di Jack White? In effetti ero sorpreso che lui non avesse ancora fatto un album del genere.
Le registrazioni sono state fatte in settembre, proprio prima del Farm Aid dell'anno scorso. Ero al Third Man Studios durante il Record Store Day, l'anno scorso, e ho provato la cabina. Sia Jack che io siamo interessati ai procedimenti meccanici. Siamo un po' nerd, da questo punto di vista. C'erano persone che erano lì per registrare, durante tutta la giornata. Jack è un personaggio davvero interessante, ha uno stile tipo Barnum & Baley [compagnia circense americana degli anni Venti, ndt]. Quindi abbiamo iniziato a parlarne, e io ho detto, “Sai, Jack, penso che tornerò qui e farò un album con questo marchingegno.” Ho trascorso l'estate facendo ciò che facevo, cercando le canzoni giuste da fare e imparandole, parlando con la gente, facendo ricerche. Cercavo canzoni che mi avessero colpito – canzoni che significassero qualcosa nella mia vita, nel mio mestiere di songwriter.

Non è tanto un set di cover, ma un album di ricordi riconsiderati.
Qualcosa del genere. Dentro c'è tutta la storia. Non so qual è. [Ride] Ma conosco le persone che hanno scritto quelle parole, che ci hanno messo dentro i loro sentimenti. Tutto ciò ha contribuito a rendermi quello che sono.

Come sei riuscito a entrare nella cabina Voice-O-Graph con la chitarra? Nella foto di copertina sembra una cabina telefonica e tu sei per metà fuori.
Per quasi tutto l'album ho usato la chitarra Parlor, che appartiene a Pegi [la moglie]. Abbiamo usato un po' di gommapiuma per attutire la cassa se sbatteva contro la cabina, in modo che non si sentisse nella registrazione. Ho usato anche Hank, la mia Martin che apparteneva a Hank Williams, per metà di una canzone. Ho dovuto fare le canzoni a pezzi, perché si può registrare solo per 140 secondi. Quindi se la canzone è più lunga deve avere dei tagli.

Hai fatto diversi take per ottenere la performance completa.
Sì. Nel box set che sta per uscire, c'è un vinile in edizione speciale per audiofili, che è il risultato diretto della cabina senza il crepitio del vinile. È andato direttamente sul nastro analogico, prima di essere riversato in vinile. È il suono puro della cabina. C'è un solo, piccolo microfono. Il mono è davvero bello. La sua profondità va al di là di qualsiasi descrizione, ha qualcosa che lo stereo non avrà mai.

Cosa cerchi di dirci di te stesso attraverso le canzoni che hai scelto?
Queste canzoni hanno un riverbero nella mia anima. Sono canzoni in cui credo ciecamente, in cui posso vivere. Mi hanno fatto essere ciò che sono. Mi fanno sentire. Quella di Dylan [“Girl From The North Country”] è piena di piccole idiosincrasie, strani errori che continuavo a commettere. Sono diventati parte del quadro.

La canzone di Dylan era tra quelle che facevi durante i tuoi primi set nelle coffeehouse di Toronto? Suonavi questi brani di Tim Hardin, Phil Ochs e Gordon Lightfoot quando stavi per intraprendere la carriera di songwriter?
No, non suonavo queste. Le sentivo, sì, ma non potevo suonarle. Non le suonavo bene abbastanza per render loro omaggio, specie quelle di Dylan. [Ride] Non avrei mai potuto fare quella di Ivory Joe Hunter [“Since I Met You Baby”]. Non sapevo suonare bene il piano. Ho cominciato suonando con una band [gli Squires di Winnipeg]. Ma in pratica non riuscivo a vivere di musica, con loro. Quando sono andato a Toronto, cercavo di campare come songwriter. Ho alternato l'uno e l'altro per lungo tempo. Nei momenti di transizione mi dedicavo a questa musica. Ecco perché ho desiderato imparare a suonarle come le suono ora – perché ascoltavo quei musicisti fare ciò che facevano. C'è una parola che ho sempre usato molto: apprezzare. Apprezzavo troppo quelle canzoni. Erano lassù, nella mia anima, sempre. C'ero davvero dentro.

C'è un forte senso di comunione personale nella grezza intimità di A Letter Home, specialmente con quei messaggi verso tua mamma – una regressione al tempo in cui non c'erano i CD e il download. Un senso di attaccamento diretto, emotivo, alla tua infanzia. Potrà mai tornare così? O la gente ha perso ormai il treno, per colpa di iPods e iTunes?
Sarà sempre lì. Forse la gente è stata allontanata, è stata distratta. Sai, è difficile giudicare una risposta alla tua domanda, perché non c'è mai stata un'alternativa. La gente va dove la tecnologia la porta. La tecnologia è qui per servirci, per renderci la vita migliore. Nell'ambito musicale, la convenienza della tecnologia è stata talmente abbagliante che ha travolto la civiltà, creando il più grande vuoto di sempre nel sound registrato. È l'occasione di cambiare e riscoprire, di preservare il mondo dell'audio e la storia della registrazione in modo da rendergli giustizia. È un grande dono per tutti gli appassionati di musica – il fatto di poterla riascoltare. È questo che stiamo cercando di fare con Pono – dare una possibilità di scelta. È l'America! [Ride] Libertà di scelta!

Come suona A Letter Home su Pono? I fruscii sono migliori?
È talmente lo-fi che suona bene in qualsiasi formato tu lo riproduca.

Il mio primo disegno mentale, quando ho ascoltato l'album, eri tu nella cabina, nel 1929, nella sala dove Charley Patton fece la sua prima session.
Mi sentivo in quel modo, sì. Jack e io esultavamo: “Grandioso. L'abbiamo fatto.” L'ho fatto sentire al mio amico John Hanlon [l'ingegnere di Young sin da Ragged Glory, 1990, e co-produttore di Americana e Psychedelic Pill, 2012]. Quando ha sentito l'armonica e la chitarra insieme, fusi insieme nell'unico microfono con quel suono antiquato, è trasalito: “Mio Dio, sono anni che cerchiamo di ottenere un sound così. Da dove viene?” Ho detto: “Da un solo microfono, e me dentro una scatola.”

Come siete riusciti tu e Jack a fare i duetti? Specialmente quello con il pianoforte [su “On The Road Again” di Willie Nelson]?
Abbiamo messo il piano proprio di fronte alla cabina e lasciato la porta aperta. Jack lo suonava, cantando, mentre io stavo tra il piano e il microfono. Per il pezzo degli Everly Brothers [“I Wonder If I Care As Much”], suonavamo entrambi la chitarra. Lui stava sull'uscio e cantava sulla mia spalla.

Come mai hai deciso di fare proprio quelle canzoni con lui? Sono entrambe due ottime scelte per l'album – parlano di relazioni e, nel caso di Nelson, di amici che fanno musica insieme.
È solo capitato. Non saprei dirti come. Allo stesso modo in cui il disco è capitato. Era un'idea ed è diventata: “facciamolo”. O anche: “Parlerò con mia mamma e le spedirò queste canzoni.”

A che punto sei con le prossime memorie?
Ho finito. Ora sto dipingendo delle immagini da includere. Sono dipinti molto semplici, basati su ricalchi di cose che adoro. Li sto colorando con acquerelli, dandogli il mio tocco. Non l'ho mai fatto prima. Lo trovo rilassante e gratificante. Non sarà lo stesso genere di libro [di Waging Heavy Peace]. Parla della mia storia con le auto. Ho raccontato le vicende capitate all'interno di ciascuna delle auto che ho avuto, il modo in cui la mia vita è cambiata guidando quelle auto. Rivelerà tutte le cose che ho visto mentre vi ero seduto dentro. Ogni capitolo si riferisce a una nuova auto, alle esperienze che ho passato finché ho avuto l'auto.

Devi proprio avercele nel sangue le macchine – intese come auto, chitarre vintage, quella cabina Voice-O-Graph. Da dove viene questo chiodo fisso?
Adoro le macchine. Sul serio. Adoro quello che le fa andare o funzionare. E soprattutto voglio che siano migliori di com'erano prima. Perché siamo solo all'inizio, con le macchine. Dobbiamo far molta strada con i carburanti, la combustione e il controllo. Abbiamo molte cose semplici che hanno continuato a funzionare per un centinaio di anni. Ora siamo nell'era del computer e ancora usiamo queste cose nel modo in cui le usavamo un tempo. Dappertutto carbone. Possiamo fare tutto questo in modo molto migliore. Come possiamo fare per spostare tutto quel metallo senza combinare un casino? Io mi ci sto dedicando totalmente. Il mio libro parla di questo. Comincia con le auto, poi le auto diventano subito un problema. [Pausa] Forse non dovrei avere tutte queste auto. Ma le ho.

A che punto siamo con Archives Vol.2? Ho sentito dire che potrebbe uscire alla fine di quest'anno.
Sarà concluso durante l'estate. Tutta la musica sarà a posto. Arriva fino a Rust Never Sleeps [1979]. È pieno di album che non sono mai usciti prima – roba che ho registrato e mai fatto uscire. [Young aveva già confermato la presenza di Chrome Dreams e Homegrown, due album inediti, e una versione alternativa di Time Fades Away.] Il resto uscirà più velocemente. Mentre lavoravamo al volume 2, procedevamo anche con gli altri volumi. [Young ha detto che ci saranno 5 volumi, l'ultimo dedicato agli anni 2000.]

È un sollievo far uscire finalmente la roba inedita – non solo per i fan, ma dare alla musica nuova vita e una storia al di là dello scaffale?
Sono arrivato al punto in cui ho stabilito la regola che indichi il modo in cui la musica dovrà uscire in futuro, se non potrò essere io a farlo. Mi sono occupato io stesso di molte cose. La qualità c'è. È un modello che indica come preservare la musica.

Con tutti questi progetti che vanno avanti contemporaneamente, pensi di star gareggiando contro il tempo? Hai già sfiorato l'orlo.
Sono pieno di impegni per via delle cose che faccio. Esse richiedono che io le faccia. Non sto facendo nulla che non voglia fare. E faccio una cosa alla volta, e la faccio bene. Ma continuo ad averne, davanti. E tutte sembrano ugualmente importanti. Seguo il mio cuore, facendo ciò che penso di dover fare. E sono molto aperto.

Traduzione in esclusiva di Matteo 'Painter' Barbieri

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