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On The Beach / Tonight's The Night / Zuma - The Rolling Stone archives

ON THE BEACH - 1974 

Fin dai suoi giorni nei Buffalo Springfield, i mutamenti delle preoccupazioni di Neil Young hanno rappresentato il barometro dell’attitudine di una generazione, riflettendo il dissolversi dell’idealismo politico e la fine della giovinezza stessa. Perfino nelle prime ballate come “Sugar mountain” o “I am a child”, Young metteva gentilmente in guardia dal vivere nell’illusione di una perenne giovinezza, mentre la sua voce adolescenziale ci tenava con questa eventualità. Il dolore dell’affrontare la realtà degli adulti in un momento storico che incoraggiava il prolungamento delle fantasie adolescenziali era compreso nella sottesa tematica dei primi tre album solisti di Young, una trilogia culminata in After The Gold Rush, forse la quintessenza del cambio di decennio in un album di un folk-rocker.
Laddove la musica di Dylan ha rappresentato l’elemento di punta della rabbia generazionale e del fervore morale della metà degli anni sessanta, Young ha invece espresso successivamente, con uguale credibilità, il senso di colpa, il dubbio e la paranoia che ne sono seguiti, specialmente nei termini di ossessione nei confronti del tempo e dell’età. Ironicamente Young ha ottenuto lo status di superstar con il suo album più compromesso, Harvest, un’addolcito rifacimento delle idee di After The Gold Rush. Young ha però resistito alla tentazione di preservare in quello stile che ha tanto convinto il suo pubblico e il suo album dal vivo Time Fades Away, pubblicato a quasi due anni da Harvest, è sembrato un rude voltafaccia.
On The Beach è il suo miglior disco da After The Gold Rush. Anche se registrato in studio, ha un suono grezzo e scarno, dello stesso impatto di Planet waves di Dylan. Per la maggior parte autoprodotto On The Beach conta sul bel supporto strumentale del chitarrista Ben Keith (che canta con Young due brani), Rusty Kershaw (violino e slide guitar in due brani) e i due membri della Band Rick Danko (basso) e Levon Helm (batteria) su uno dei pezzi più coinvolgenti del disco, “Revolution blues”. Il suono tagliente di On The Beach è uno dei fattori della sua grandezza, dato che l’album pone questioni estetiche e politiche troppo serie per essere trattate in modo leggero. Young evoca attraverso diversi personaggi le priorità sociali e le polarità psichiche che esemplificano il deterioramento della cultura americana. Anche se non menzionate, le figure di Charles Manson e Patricia Hearst appaiono come emblemi di un’apocalittica dislocazione sociale nei due capolavori del disco “Revolution bues” e “Ambulance blues”. In entrambi i brani, attraverso l’enfatizzazione delle emozioni sia dei carnefici che delle vittime, Neil Young laddove nessun altro artista rock bianco ha mai fatto (tranne John Lennon) ha osato abbracciare, esporre e forse purgare la paranoia e il senso di colpa collettivi di una società malata, senza farne un’apologia o darne un’interpretazione. “Walk on” respinge succintamente le fantasie dei sixties, rivoltandole in un’amara osservazione sul crescere: “Prima o poi tutto diventa reale/ và avanti”. “See the sky about to rain” e “For the turnstiles”, tremanti e fatalistiche ballate, sono infarcite di immagini di violenza, corruzione e disintegrazione, il cui significato è contenuto nei criptici titoli, negli slogan, nei mantra, nei graffiti scarabocchiati. La terrificante visione che guida “Revolution blues” fa da contraltare alla ugualmente orrorifica “Vampire blues”.
In due ballate, “Motion pictures” e “Ambulance blues”, Young canta almeno un’ottava al di sotto del suo solito registro apparendo, per la prima volta nella sua carriera, moralmente arrogante. “On the beach”, la title track di sette minuti,  è il brano più discutibile dell’album, una letargica e lamentosa meditazione sul non rimanere fisicamente isolato a Los Angeles, luogo cercato di riscattare. Nonostante l’insofferenza di Young nei confronti della civiltà sia il tema di “Motion pictures”, il suo fluire melodico ne fa l’unico diretto messaggio d’amore dell’album. I nove minuti di “Ambulance blues” che chiudono il lavoro, sono lo sforzo maggiore di tutta la carriera younghiana. Con la chitarra acustica e l’armonica doppiate dall’eloquente violino di Kershaw, Young riassume tutto il suo passato politico-musicale, a partire dai vecchi tempi del folk, attraverso l’impressionistica evocazione di specifici traumi sociali tra cui il Watergate e l’affare Patricia Hearst. Ci indirizza il tutto in un’attitudine populistica ripetuta con una voce che quietamente ci sputa in faccia: “State tutti pisciando al vento”. L’ultima strofa cita Nixon come sintomo e causa di una predica che, se compresa, fa paura:
Non ho mai conosciuto un uomo che potesse dire tante bugie
Ha una storia diversa per ogni sguardo
Come può ricordarsi con chi sta parlando
Perché so che non sono io
E spero che non sia tu
Con il suo appellarsi alla generazione di giovani americani post-rivoluzionari e post-psichedelici, “Ambulance blues” si configura come un lamento epico, nonché come un inconfutabile pezzo di canzone-poesia alla stessa stregua di “American tune” di Paul Simon e “For everyman” di Jackson Browne. Non riesco ad immaginare chi altri potrebbe cantarla se non Neil Young. On The Beach è uno dei più disperati album del decennio, un testamento amaro da parte di uno che ha attraversato il fuoco ma che poi ci è ritornato dentro. 
Stephen Holden, Rolling Stone 1974


TONIGHT’S THE NIGHT – 1975

Tonight's The Night vede Neil Young in ginocchio in cima al mucchio mentre cerca di rialzarsi. Le difficoltà musicali di On The Beach dell’anno scorso sono state risolte nel modo più diretto possibile tornando a una registrazione coi Crazy Horse e Nils Lofgren. Ma nemmeno i Crazy Horse sono più quelli di una volta: il chitarrista solista Danny Whitten è morto lo scorso anno per un’overdose. Il brano in cui appare, “Come on baby let’s go downtown”, è stato registrato al Fillmore East quattro anni fa e serve come metafora per gli ossessionanti e lugubri temi emozionali. Musicalmente la chitarra e la voce di Whitten erano complementari a Young, spronandolo e ispirandolo. Il resto dell’album sta in piedi occasionalmente e l’effetto è donchisciottescamente esilarante. I successi (l’ironica “Tired eyes”, la falsamente dolce “Albuquerque”, la roboante “Lookout Joe” e le due versioni della canzone del titolo) sono la miglior musica di Young dai tempi di After The Gold Rush. La chitarra e il piano di Lofgren sono potenti e diretti, mentre la batteria di Ralph Molina si adatta sia al rock che ai piagnistei (questi ultimi guidati dalla steel guitar di Ben Keith). Il piano, la chitarra e l’armonica di Young sono semplici ma costantemente carichi.
L’album divide con On The Beach un senso di disperazione pienamente sviluppato: il sognatore di “Helpless” qui non trova conforto. La musica ha quel senso di improvvisazione, di crudezza da “buona la prima” riscontrata recentemente solo in Blood on the tracks di Dylan. È quasi come se Young avesse voluto deliberatamente negare all’album un senso di maestosità per enfatizzare un taglio lacerato e desolante. “Borrowed tune”, per esempio, si basa sul piano scarno e sull’armonica di Young. L’accoppiata di basso e chitarra della versione d’apertura di “Tonight’s the night” suonano come lo sfascio del proprio destino e il cantato di Young (specialmente nella versione che chiude l’album) è in bilico tra puro e semplice panico e lo stile minaccioso da Vecchio Testamento. “Stanotte è la notte” urla, implora, geme, impreca, raccontando la storia di Bruce Berry, il roadie morto di overdose “di eroina”. Pare che Young stia ancora assorbendo lo shock della morte degli amici, certe volte sembra inveire contro lo stesso concetto di morte, altre volte pare accettarlo. Tuttavia non sembra mai crederci.
Più di ogni altro disco e canzone precedenti (perfino più dello scoraggiato On The Beach e del corrosivo e pieno di rancore Time Fades Away) Tonight's The Night è pervaso da morte e disastri. Dedicato alla morte di Berry e Whitten, è un disco in bianco e nero come la copertina, le note interne e l’etichetta. I personaggi delle canzoni sono traumatizzati, perdenti, rovinati, malati, vagabondi, eccezione fatta per i defunti. L’uomo più felice di tutti, il padre di “New mama” ammette di vivere in una “terra di sogni”. In definitiva anche lui è prigioniero dei fantasmi esterni come traspare dal suo fissare il proprio lago ghiacciato. Young è allo stesso tempo spaventato da questo paesaggio desolato e affascinato dal disgusto e dalla cupidigia che evoca. L’unica soluzione sembra espiare il tutto col rituale della musica che martella incessantemente finchè tutto viene risanato, incluso (o forse soprattutto) il cantante e l’ascoltatore, e messo in discussione. Stanotte è la notte, va bene, ma a che scopo? Per ricevere solo un’altra batosta? In cerca di qualcosa che aiuti a dare un senso, può essere utile una storia dimenticata di Raymond Chandler, Red wind: “Era uno di quei venti caldi, secchi e provenienti da Santa Anas che scende giù passando fra le montagne, ti scompiglia i capelli ti fa saltare i nervi e venire la pelle d’oca. In notti come quella ogni bevuta finisce in una rissa. Le miti mogliettine sentono il richiamo della lama del coltello e studiano i colli dei propri mariti. Può succedere di tutto”. Questa è certamente musica del deserto, addirittura della parte più imperversa del deserto. Ciò che infine succede in “Tired eyes” è materiale per un romanzo; infatti, come Bud Scoppa ha sottolineato da qualche altra parte, la somiglianza con Dog soldiers d Robert Stone (un romanzo che ha in comune con Young l’ossessione dell’eroina e il rifiuto della guerra) è lampante. “Ne ha fatti fuori quattro per una storia di cocaina” canta fuori dai denti Young, “li ha lasciati stesi in un campo/ pieno di vecchie auto coi buchi di proiettile negli specchietti”. Tutto l’album mira a questo, canzone dopo canzone facendo crescere la tensione con l’infinita ripetizione di frasi (musicali e liriche) fino al punto in cui le strazianti chitarre nei rock e la dolcezza del cantato nei piagnistei cominciavano a stridere, a far male. L’intera carriera di Young potrebbe essere stata spesa all’inseguimento di questa storia (ricordate le sinistre limousine nere in agguato nell’ombra di “Mr. Soul” e “Broken Arrow”?) ma solo adesso ha trovato il modo di raccontarla così direttamente. Molto si deve all’allontanamento di Young dalle melodie carine negli ultimi tre album. In questo album ci sono allusioni allo stesso tipo di bellezza in cui si è abusato in Harvest e che alla fine l’hanno gonfiato e appesantito. “World on a string” e “Roll another number” non sarebbero state fuori posto su quell’album, colme come sono di pretenziosità. Le canzoni qui non sono carine, ma dure e potenti, con una chitarra metallica che le rende più assimilabili all’abrasività dei Rolling Stones che alle placide armonie di CSNY. Le melodie non sono scomparse (come sembravano esserlo in On The Beach), ma sono soltanto abbozzate, facendo intravedere cosa avrebbero potuto essere.
Non viene offerto alcun senso di ritirata, di giustificazione o di scuse, né è data una direzione. Semmai si ritrovano le vecchie idee, ma con un nuovo senso di aggressività. Il nervosismo, i non-arrangiamenti della musica (comunque decisamente strutturata) e in generale il senso di trascuratezza sono chiaramente voluti. La musica ci trascina dentro, con la magnifica linea di chitarra che irrompe nella sinistra “Lookout Joe”, con la steel guitar di “Albuquerque” e con la suggestiva melodia quasi folkeggiante che guida “Tired eyes”, ma poi (e qui sta la novità) ci risputa fuori tutto facendoci vedere la bruttezza che sta sopra e dietro la superficie. Il cambio di musica in Young non ha finora mai riflettuto una simile durezza di contenuti, anche se questo è ciò che potrebbe pensare l’ascoltatore casuale. Le tensioni ci sono sempre state, ma solo ora sono così sconfortanti. Dire, come qualcuno ha fatto, che l’attuale musica di Young deriva dalla confortevolezza del suo successo (in pochi hanno invece evidenziato che Young solo di recente ha scoperto un mondo che è l’opposto della scena rock) significa ignorare la maggior parte del suo lavoro. Soltanto i titoli delle sue canzoni potrebbero raccontare la storia: “Freccia spezzata” (“Broken Arrow”), “Fuori di testa” (“Out of my mind”), “Tutti sanno che qui non esiste” (“Everybody knows this is nowhere”), “Solo l’amore può spezzarti il cuore” (“Only love can break your heart”, senza lasciarti intendere che qualcosa possa mai guarirlo) e persino “Inermi” (“Helpless”). “Ohio”, l’altro grande contributo a CSNY, parla degli stessi orrori: “Cosa faresti se la conoscessi e la trovassi per terra morta/ come puoi scappare quando sai?”. Alla fine i quattro morti di “Ohio” sono in stretta relazione coi quattro spacciatori di cocaina morti in “Tired eyes” ossia vittime, in differenti battaglie, della stessa guerra.
Tutto ciò è coerente solo per metà, perché i nomi che fa Young così diventano solo cliché. La misura del successo di Young deriva dal fatto che quando canta in modo calmo è spettrale e quando dice “Per favore ascolta il mio consiglio/ apri i tuoi occhi stanchi” porta direttamente a noi il messaggio in un modo nuovo. Improvvisamente la malvagità non è più banale, ma orribile e ironica, nel simultaneo riconoscimento che il consiglio è stupido e che se ascoltato non aiuta ma potrebbe solo allargare le ferite. Piangendo la morte degli amici veri e immaginando, Neil Young sembra eroe e antieroe, coraggioso e assurdo. Ci lascia come ci ha trovati, devastati ma col rock dentro.  
Dave Marsh, Rolling Stone 1975


ZUMA – 1975

“È un altro album di rock ‘n’ roll con un sacco di cose strumentali. Parla di Inca e Atzechi, è affrontato con un’altra personalità. È come essere in un’altra civiltà. È una specie di forma d’animo che passa da uno scenario storico a un altro cercando di ritrovare me stesso come uomo in questo labirinto. L’ho già scritto tutto e abbiamo imparato le canzoni. Domani inizieremo a registrare… Lo faremo solo di mattina alla mattina presto quando esce il sole…” (Neil Young tipicamente ironico che descrive Zuma).
Il nono album solista di Neil Young è di gran lunga il miglior disco che ha fatto; è il più unitario (ma non il più ovvio) concept album che ho mai riscontrato e, nonostante la sua profondità, Zuma è così accattivante che potrebbe diventare il suo primo successo dai tempi di Harvest. Uno degli aspetti più affascinanti di questo capolavoro younghiano è il contesto in cui appare. Negli ultimi mesi il rock ‘n’ roll è ridiventato terribilmente vitale, ma non per l’emergere di nuove importanti figure, quanto per la rinascita dei vecchi eroi. Nonostante i loro oscuri scenari, Blood on the tracks di Dylan, Numbers degli Who e il pauroso uno-due di Tonight's The Night e Zuma hanno fatto breccia con la loro nuda e disperata energia in una parte nuova, e parzialmente risaputa, forma di rock ‘n’ roll (una “forma d’animo”, come la descrive Young) simultaneamente reinventata emozionalmente da questi tre grandi artisti come una necessità estetica. E pur nella loro seriosità tutti, tranne quello che Young ha autodefinito un “album horror”, sono pienamente accessibili.
Se Tonight's The Night era lugubre, spettralmente nero, Zuma (l’album del “mattino” di Young) è largamento intriso di fiori e solarità. Apparentemente la depressione e l’ossessione di amore-morte si sono stemperate nella luminosità che contraddistingue oggi il genio epilettico younghiano. Ma se, come enuncia il caparbio e solitario proclama di “Drive back”, vuole “svegliarsi senza nessuno intorno”, in “Looking for a love” Young si aggrappa ancora alla speranza di trovare l’amore magico e appagante che si cerca per tutta una vita, quella persona che lo faccia “vivere e trarre il meglio da ciò che vedo”. Young non si sottrae al paraosso e l’abbraccia come l’amore che immagina. Ci sono anche amori reali in Zuma, ma sono stati tutti persi. Come il Dylan ferito dall’amore di Blood on the tracks e della nuova “Sara”, Young si sforza di trovare un appiglio “bruciando la nebbia” e cercando di vedere cos’è che non andava nei suoi amori e nei suoi sogni. Fuori da queste amare, agonizzanti e dolorosamente sincere confessioni cerca di raggiungere una nuova onestà nell’amore e, ancora più importante, la rivelazione (già intravista anni fa in “The loner”) che né le sue ali, né la sua donna potranno trascinarlo via. Questa intuizione implica per Young terrore e liberazione.
Per questo sforzo Young ha tirato fuori tutto il meglio della sua artiglieria: preminenti sono le ricorrenti metafore di uccelli in volo e di navi sull’acqua, la sua coercitiva sincerità, il suo eccentrico e brillante (apparentemente intuitivo) stile narrativo, le amabili ed efficaci melodie, il cantato da gatto in calore: componenti di tutti gli album di inizio carriera di Young (specialmente di Everybody Knows This Is Nowhere e di After The Gold Rush) che trovano una loro collocazione nell’agitata sincronia di Zuma.
Ma quello che alla fine rende l’album assolutamente grande è la presenza dei Crazy Horse, i quali hanno finalmente trovato nel nuovo chitarrista Frank Sampedro un adeguato sostituto di Danny Whitten. Il magistrale lavoro ritmico di Sampedro sprona Young verso il più potente chitarrismo mai registrato in carriera. Le sue linee di chitarra s’insinuano tra gli accordi di Sampedro come se fossero sempre pericolosamente sospese su un filo. Gli assoli di Young si sposano perfettamente con l’eloquenza dei suoi versi, trasmettendo angoscia, violenza, gioia e desiderio. Con i Crazy Horse che si preoccupano dell’incisività e della stabilità Young è al meglio, illimitatamente inventivo e sfaccettato in maniera decisiva. Come attacca, Young decide stranamente di proporre scherzosi riferimenti ad altre canzoni, forzatamente drammatiche incongruenze (l’allegro coro di “la la” nel rifiuto dalla perdita di “Stupid girl”), nuovi espedienti strutturali (i due cantati simultanei, ma completamente diversi nelle parole che deviano l’attenzione in “Danger bird”; le parole e gli accordi irrisolti di “Pardon my heart”), le brillanti e ironiche espressioni (si ascoltino per intendere “Looking for a love” e “Barstool blues”).
Delle nove canzoni di Zuma cinque sono bollenti tempeste rock, tre sono magnifiche e torbide ballate e l’ultima, “Cortez the killer” è un lungo racconto che racchiude in uguale misura l’epica di una leggenda americana, un’immaginario erotico lawrenciano e l’estrema metafora personale di Young. Questa canzone, forse il suo capolavoro assoluto, cresce di intensità con quei numerosi minuti di musica volutamente tesa, che precedono l’ingresso della voce di Young:
Arrivò danzando sull’acqua/ Coi galeoni e i cannoni/ In cerca del nuovo mondo/ E di quel palazzo al sole/  Sulla spiaggia c’era Montezuma/ Con le sue perle e foglie di coca/ Vagava spesso nelle sue stanze/ Con i segreti del mondo
Il segreto dell’album, e anche dell’opera di Young, è incapsulato in questo confronto: vigore e saggezza, innocenza e aggressività, amore e morte come valori in gioco. Il climax è inevitabile, ma non prima che Young soccomba, per una sola strofa, al classico dilemma:
E so che lei vive là/ E che mi ama anche adesso/ Non riesco ancora a ricordare dove/ O come ho perso la mia strada
Nella breve ballata finale “Through my sails” Young (accompagnato da CSN), dopo essersi levato in volo con ali “divenute pietra”, atterra su una spiaggia dove trasforma le ali in vele e canta “Conoscimi/ mostrami/ nuove cose che imparo”. Poi salpa.
Forse qualche raggio di sole fa breccia su di lui. 
Bud Scoppa, Rolling Stone 1976

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