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Neil Young & Crazy Horse: Barn (Reprise Records, 2021)


1. Song Of The Seasons
2. Heading West
3. Change Ain't Never Gonna
4. Canerican
5. Shape Of You
6. They Might Be Lost
7. Human Race
8. Tumblin' Thru The Years
9. Welcome Back
10. Don't Forget Love


Crazy Horse: Neil Young, Billy Talbot, Nils Lofgren, Ralph Molina

Prodotto da Neil Young & Niko Bolas

Un paio d'anni dopo Colorado, i Crazy Horse (con Nils Lofgren che mantiene il posto di Poncho Sampedro, ormai "in pensione") sono tornati lo scorso giugno sulle Montagne Rocciose per incidere un nuovo album nelle notti di luna piena, all'interno del fienile che dà il titolo all'opera: Barn. Anche stavolta la filosofia del "buona la prima" fa da padrone, e cominciamo col dire che questo si sente.
Se in tempi lontani la spontaneità degli Horse era bilanciata dall'abile lavoro produttivo di David Briggs, e se in tempi più recenti le jam a briglia sciolta di Americana e Psychedelic Pill hanno partorito due ottimi album, la nuova band e il nuovo metodo di lavoro sta producendo album zoppicanti nei quali né Young né, in questo caso, il co-produttore Niko Bolas si prendono il tempo di capire quando una parte (di voce, di chitarra, di batteria) sia non tanto una sfumatura imprevista che arricchisce la vibe del pezzo, quanto un palese erroraccio che la affossa.
C'è però da dire che Barn è un passo avanti rispetto a Colorado, nel quale più di tutti il batterista Ralph Molina viaggiava disorientato. Le canzoni di Barn nel loro complesso sono imbroccate meglio, con alcune sbavature ma anche alcuni momenti topici dove si sente l'alchimia funzionare molto bene. Ma, dobbiamo  dirlo, grazie al tocco delicato apportato da Lofgren, questa alchimia ricorda più la band che suonava Tonight's The Night che non i Crazy Horse propriamente detti, trainati dal muscoloso Poncho in una misura da non sottovalutare.
In effetti dei Crazy Horse di Everybody Knows, Zuma e Psychedelic Pill, in Barn (così come in Colorado) non c'è praticamente nulla. Ciò non deve essere inteso per forza in senso negativo, ma è bene essere consapevoli che si tratta di una band diversa. Canzoni come "Songs Of The Seasons" e "They Might Be Lost" sono senz'altro impreziosite dalla presenza di Lofgren a strumenti diversi. Canzoni come "Welcome Back" e "Heading West" ci fanno invece provare nostalgia di Poncho.
L'altra metà dell'equazione è costituita dalle composizioni. Il livello si mantiene analogo a Colorado, con alcuni momenti alti ma anche cadute di tono a nostro avviso abbastanza imperdonabili. "Songs Of The Season" riesce a creare la giusta atmosfera e il giusto equilibrio tra le riflessioni intime a cui il vecchio Neil ci ha abituati, e la sua vocazione ambientale con cui infarcisce le sue cose più recenti. Non si può non provare un brivido nel sentirlo cantare ancora del Re e della Regina già citati in pezzi del passato come "Broken Arrow" e "Prime Of Life", sebbene sia solo un verso in un brano che spazia dai paesaggi delle montagne alle persone che indossano la mascherina, al legame che unisce Neil alla moglie Daryl, all'andatura del Cavallo. Insomma, di tutto un po', eppure quando Young si limita a osservare - anziché proclamare - non c'è bisogno che scenda troppo in profondità per avere una marcia in più.
Ma il momento acustico più alto (e forse la canzone migliore dell'intero album) è senza dubbio "They Might Be Lost". Anche se Molina perde qualche colpo, anche se il giro di chitarra e di armonica non sono certo innovativi, l'atmosfera c'è tutta e le lyrics disegnano il triste ritratto dell'attesa di qualcuno che non arriva, e forse non arriverà mai, perché "potrebbe essersi perso". A chi si riferisce? Forse ai compagni musicisti ormai scomparsi... Ma la canzone ha un po' della qualità obliqua di certi vecchi brani di Young e può trovare applicazione in contesti diversi. Perché non una diligenza nel vecchio West americano? O in un villaggio indiano come quello che subirà la devastazione dei conquistadores in "Powderfinger"? "They Might Be Lost" è una canzone che richiede un minimo di attenzione per essere apprezzata, e questo è bene: siamo certi che crescerà ad ogni ascolto, anche a distanza di tempo.
A colpire l'orecchio al primo ascolto, invece, è "Welcome Back", diversa da tutto il resto di Barn. Otto minuti, liriche minimali e piuttosto criptiche, niente grandi assoli ma chitarre delicatamente atmosferiche alla Sleeps With Angels. Un capolavoro da greatest hits? No, ma un'interessante aggiunta a quel filone di brani dove è l'Old Black, prima di tutto il resto, a parlare dritto al cuore.
In "Heading West" Neil racconta un frammento della sua infanzia, dopo la rottura dei genitori, quando ricominciò la vita da solo con mamma Rassy. Il brano si accosta quindi a predecessori come "Born In Ontario" e "Don't Be Denied", ma è forse il pezzo più sgangherato da un punto di vista esecutivo, ed è un peccato perché con un take in più avrebbe probabilmente brillato davvero.
A fare il paio con "Heading West" c'è "Canerican", un altro racconto personale, questa volta sull'orgoglio di essere canadese di origine ma, ora, anche cittadino americano. L'orgoglio di votare per la sinistra americana è un tema politico che ha segnato altre canzoni recenti, non certo indimenticabili, come "Already Great" in The Visitor. Ma "Canerican", rivolgendosi a se stesso e non solo al mondo esterno, funziona un po' meglio (un po' come, su Colorado, "Truth Kills" funzionava meglio di "Rainbow Of Colors", o la "Love And War" di LeNoise, da sola, funzionava meglio di tutto Living With War).
Cosa che invece non si può dire per "Human Race", l'ormai tradizionale paternale sul salvare l'ambiente e l'umanità (vedi "Children Of Destiny", "Rainbow Of Colors", "Stand Up" e altre) di cui non sentiamo più il bisogno, specialmente se eseguita come un esercizio di stile svogliato e malriuscito.
Se nel tema politico si mette un po' di sarcasmo e si mantengono toni musicalmente più leggeri, come in "Change Ain't Never Gonna", che fa l'occhiolino al rhythm'n'blues, il risultato è sicuramente più godibile, sebbene niente di memorabile.
Con le rimanenti tracce acustiche le note sono più dolenti, perché mai finora Neil Young ha dimostrato tanta superficialità, sia musicale che lirica, in canzoni sull'amore e sulla vita: "Shape Of You", "Don't Forget Love" e "Tumblin' Thru The Years" sono inconsistenti riempitivi con versi scadenti ("E' una cosa complicata, questa vita / se non fossi qui con te..."), delle quali possiamo salvare solo il tentativo, in "Tumblin", di variare un po' la melodia.
Prendendo il meglio di Barn ("Welcome Back", "They Might Be Lost", "Songs Of The Season", "Heading West") e il meglio di Colorado ("Green Is Blue", "Milky Way", "Help Me To Lose My Mind", "Truth Kills") e cestinando i riempitivi, si otterrebbe un disco in grado di valorizzare abbastanza bene i nuovi Crazy Horse. Ma al momento quello che resta è la sensazione dolceamara di quando le cose, per quanto ci si provi e lo si desideri, funzionino solo a marcia ridotta e proprio non decollino.
Young ha già dichiarato di essere al lavoro su nuove canzoni e di essere pronto a tornare in studio con Lofgren, Talbot e Molina: sta solo decidendo dove registrare. La sua inesauribile creatività ci fa come sempre sperare (forse ingenuamente) che il terzo tentativo sarà quello giusto. Di certo un tour dal vivo consentirebbe alla band di lavorare di più sulle canzoni prima di registrarle, la qual cosa gioverebbe a un eventuale nuovo lavoro in studio. Purtroppo Neil, nell'ultima intervista a Rolling Stone (che a breve tradurremo qui su Rockinfreeworld), ha confermato di non averne l'intenzione finché il pubblico non sarà al sicuro.

MPB, Rockinfreeworld




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