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Live at Massey Hall 1971 (2007) - Rassegna Stampa pt.2


36 anni di anonimato per questo incredibile live di Neil Young alla Massey Hall.
1971: un uomo, la sua chitarra, le sue canzoni.
Perché parlare di un concerto tenuto nel 1971 mai edito ed uscito solo ora, 35 anni dopo? Semplice perché è stupendo.
Invito chiunque ad ascoltare queste 17 canzoni e riuscire a non emozionarsi.
Bé dico… provate a mettere il dvd nel vostro lettore premete play. Siete nel 1971. Chiudete gli occhi. Immaginate una persona che parte dal Canada, ottiene un successo straordinario in California per cinque lunghi anni, giusto il tempo di fondare un gruppo dal nome Buffalo Springfield, dare una mano a tre amici dal nome Crosby, Still & Nash - sì quelli di 4 Way Street - il live che uscirà di li a poco raccogliendo i nastri di una tournee trionfale e del bellissimo Dejà Vu. Registrare un disco da solista - After The Gold Rush - e successivamente tornare in Canada ed esibirsi nella Massey Hall. Si proprio quel luogo mitico dove 18 anni prima suonarono gente del calibro di Charlie Parker accompagnato da Dizzy Gillespie, Bud Powell e Charles Mingus.
Premete quindi play ed ascoltate attentamente l'ingresso del "loner" sul palco prima di suonare il primo pezzo "On the way home". Sembra che venga giù il palco tanto fragorosi sono gli applausi e tanto calore il pubblico infonde al loro beniamino.
Infatti il Nostro è oramai maturo. Sul palco solo lui, una chitarra acustica (la mitica Gibson) ed un piano. Sono gli strumenti che lo hanno accompagnato da sempre. Io credo che una batteria o un basso avrebbero rovinato tutto.
La scaletta è da brividi. La già citata "On the way home", "Tell me why", "Old man", "Journey through the past", ma soprattutto la bellissima "The needle and the damage done".
Pensate non l'aveva mai suonata dal vivo, infatti, il disco in cui è contenuta, il mitico Harvest, uscirà da li a poco.
Avrei dato non so cosa per essere con quelle persone che hanno avuto la fortuna di ascoltare per la prima volta una tra le più belle canzoni scritte dal Nostro. E vi assicuro che ne ha scritte di bellissime, ma questa… con il suo arpeggio iniziale di chitarra, con quel testo sulla pericolosità dell'eroina…
È quasi incerto sulla chitarra si sente, l'arpeggio non esce benissimo ma l'emozione c'è tutta, la voce è limpida alta e piena.
C'è poi un medely, "A man needs a maid/Heart of gold" suonata con il piano. Semplicemente da brividi. In particolare la prima risulta molto più immediata quasi una gemma allo stato grezzo rispetto alla versione ufficiale di Harvest, dove è stata molto appesantita a causa della presenza di archi ed altri strumenti.
Che dire poi di "Cowgirl in the sand"? Il tempo è fermo le note sono tirate allo spasimo come il mio cuore.
Camicia scozzese e capelli lunghi, una sedia in mezzo al palco. Neil Young parla con il pubblico, cerca il dialogo, spiega che sta comprando un ranch. Quando annuncia una canzone contenuta in Harvest, dopo aver sentito l'approvazione da parte dei presenti con un fragoroso applauso, lui li rimprovera bonariamente dicendo "ma se non l'avete mai sentita".
Il produttore David Briggs quando ascoltò il nastro se ne innamoro a tal punto che lo volle pubblicare già nel 1971. Il Nostro non era d'accordo aveva la testa su Harvest e non volle. In una recente intervista però ascoltando il disco ebbe a dire:
"Sono canzoni bellissime, c'è un'aria speciale, ora capisco perché David si disperò tanto all'epoca quando non volli dargli retta" .
C'è davvero da credergli.
Un consiglio: ascoltate queste canzoni e se non provate un brivido dietro la schiena non siete umani. 
Gianluca Maccari


[…] Dato che la recensione citava un altro recente "inedito d'archivio" di Young, Live at Massey Hall 1971, abbiamo deciso di scriverne il nome nell'apposita finestrella e di attivare il comando "search".
La recensione c'è: firmata da Rob Mitchum, è apparsa su Pitchfork in data March 13, 2007. Anche qui, solite cose. Dobbiamo ammettere che stavolta manca un exploit altrettanto clamoroso, ma mentre leggiamo ci balza agli occhi la seguente frase: "(...) mentre “See The Sky About To Rain”, qui disadorna rispetto alla versione sovraccarica di Rhodes presente su “On The Beach”, si rivela una gemma trascurata e vede un "massaggiare i tasti" sorprendentemente complesso." (Così suona l'originale: "(...) while "See the Sky About to Rain", stripped down from its Rhodes-heavy On the Beach version, reveals itself as a neglected gem, featuring surprisingly complex key-tickling.")
Lasciamo perdere il "sorprendentemente complesso" e anche la "gemma trascurata" (non sono certo pochi quelli che hanno considerato proprio questo brano quale il migliore della prima facciata dell'album!). La cosa che fa sorridere è quel buttar lì, con perfetta nonchalance, la parola "Rhodes"; una parola che su una rivista come Keyboard non avrebbe certo bisogno di ulteriori specificazioni, ma che su un giornale "generalista" - e in un'epoca in cui le tastiere che ascoltiamo sono per la quasi totalità campionate - a nostro parere andrebbe integrata dall'espressione "piano elettrico".
Solo che il piano elettrico della versione di “See The Sky About To Rain” presente su “On The Beach” non è un Rhodes: è un Wurlitzer.
A questo punto è sempre possibile dire che la cosa è di poco conto, e che l'essenziale non è questo, e in fondo cosa si pretende da uno che scrive recensioni, eccetera (conosciamo un bel po' di persone capacissime di fare proprio questo genere di discorsi). Proviamo quindi a fare un po' di chiarezza.
Scambiare un Wurlitzer per un Rhodes non è come confondere un Chamberlin e un Mellotron. È proprio roba da guitti. Se abbiamo presente il suono di piano elettrico degli album di Miles Davis dalla fine degli anni sessanta in poi - o quello dei tanti gruppi di fusion pressoché coevi - sappiamo già come suona un Fender Rhodes, strumento "fusion" per eccellenza. Per quanto riguarda il Wurlitzer (qui il primo pezzo che ci viene in mente è il bel singolo degli Small Faces, Lazy Sunday) possiamo agevolmente ricorrere a un gruppo tutt'altro che sconosciuto: i Doors. Laddove il terzo pezzo della seconda facciata di Morrison Hotel, “Queen Of The Highway”, vede quale protagonista strumentale un Wurlitzer (con il caratteristico vibrato tanto simile a quello usato su “See The Sky About To Rain”, anche se il tocco e gli accordi di Ray Manzarek sono ovviamente molto diversi). Mentre introduzione e assolo della celeberrima “Riders On The Storm” sono affidati a un Fender Rhodes.
Nel caso specifico bastava solo voler leggere: le note di copertina della versione originale in vinile di On The Beach riportano la formazione di ciascun brano, e per quello in questione lo strumento indicato è un Wurlitzer; e lo stesso avviene con la versione in CD (e ne esiste una sola); mentre se si ha a disposizione solo un album "masterizzato" o sotto forma di file senza indicazioni (proprio un recensore!) basta cercare su Wikipedia e lì c'è tutto. Allora?
Beppe Colli, cloudsandclocks.net


Certe operazioni discografiche lasciano davvero a bocca aperta. Insomma, di live o best of buttati lì per aggiungere un capitolo nella discografia di chicchessia, magari dopo neanche un paio di album, ne hanno le palle piene (e le tasche vuote) anche i fan più ciechi. Ma ogni tanto gente preziosa come Dylan si inventa la Bootleg Series e uno vorrebbe che ne uscisse un volume alla settimana. C’è un’altra categoria di musicista, assai pericolosa: il prolifico-meticoloso, quello che raccoglie personalmente e cura con attenzione ognuna delle sue (innumerevoli) registrazioni. Neil Young, per fare un esempio, ha i cassetti pieni zeppi di chissà quali tesori accumulati con il passare del tempo. Le discussioni riguardanti la pubblicazione dei suoi famosi Archives si protraggono da qualche decade a questa parte, ma Young, perenne insicuro ma anche furbetto, ha sempre rinviato la fatidica data.
Live at Massey Hall è il secondo volume degli Archives, dopo il possente Live at the Fillmore East uscito alla fine dell’anno scorso. Lo segue anche in ordine cronologico: il primo documenta un’esibizione del 1970 con i Crazy Horse, il secondo la data del 19 gennaio 1971 del Journey Through The Past solo tour” del ’71, e si piazza tra After The Gold Rush e Harvest. Un’altra analogia tra Archives e Bootleg Series, ora che finalmente se ne possono fare, è che si tratta sì di grandi album, ma soprattutto di magnifiche istantanee che catturano un determinato periodo, un preciso momento nella carriera dell’artista in questione. È prevalentemente la rilevanza storica a farne dei documenti importantissimi, che celano dietro la musica una quantità innumerevole di spunti e di aneddoti.
Live at Massey Hall, oltretutto, ha ancora più storie da raccontare del già importantissimo Live at the Fillmore East.
Neil torna finalmente a casa, nel natio Canada, dopo aver già scritto, appena ventiseienne, alcune grandi pagine della bibbia del rock’n’roll: da solo, con i Crazy Horse, e con un’allegra (ma non troppo) combriccola a nome Crosby, Stills, Nash & Young. È a pezzi, stanchissimo. Sente il bisogno di salire da solo sul palco, di non dividere con nessuno la scena, di lasciare l’elettrica nella custodia e imbracciare l’acustica, o al limite sedersi al pianoforte. Rifiuta di seguire il consiglio del suo storico produttore David Briggs, al quale è legato da un rapporto di amore/odio: decide di non pubblicare questo album live, di qualità eccezionale secondo Briggs, che, infuriato, non lavorerà con il canadese per un bel po’. Neil, passando da Nashville pochi giorni dopo, radunerà un gruppo di musicisti locali e inciderà i nastri che diventeranno Harvest. Il concerto alla Massey Hall diventerà uno dei suoi bootleg più amati e diffusi. Riascoltandolo dopo tutto questo tempo, Young deve aver pensato che dopotutto (l’ormai defunto) Briggs poteva non essere poi così tanto dalla parte del torto.
Di cosa debba aver rappresentato assistere a un concerto del genere, dopo l’ascolto dell’album, se ne ha solamente un vago sentore. Sembra letteralmente inconcepibile che la gente seduta alla leggendaria Massey Hall di Toronto quella sera abbia potuto sentire per prima una pietra miliare come “The needle and the damage done”, o l’aspra, dolente “Old man”, o l’autobiografica “A man needs a maid” (“I was watching a movie with a friend, I fell in love with the actress”, ovvero Carrie Snodgress, sua compagna all’epoca) che sfuma in una spizzicata versione pianistica di “Heart of gold”, tutte composizioni che finiranno in Harvest. O pezzi che ricompariranno anni più tardi, come “Journey through the past” e “Love in mind” (in Time Fades Away), oppure “See the sky about to rain” (nell’incommensurabile On The Beach). Sono anche tante le novità discografiche assolute: la sbarazzina, incantevole “Dance dance dance” e una “Bad fog of loneliness” che affonda le radici nel country-folk più colto, non sono mai apparse prima. Così come le riletture acustiche di due grandi inni elettrici come “Cowgirl in the sand” e “Down by the river”, che di solito assommate occupavano 30 o più minuti mentre qui sfiorano gli 8, a dimostrare che sotto la spessa coltre intessuta dagli assoli Young nasconde molto spesso delle vere meraviglie. Perfino due successi di CSN&Y, come l’immortale “Helpless” e la politicissima “Ohio” (che però risente un po’ della mancanza dei tradizionali controcanti), non perdono in termini di freschezza e impatto anche se opportunamente spolpate. Già così si tratterebbe di una delizia assoluta, aggiungiamoci una manciata di pezzi tratti da After The Gold Rush, non esattamente il peggior disco del canadese, e il tutto entra nel regime dell’incredibile.
Sembrava veramente improbabile che il secondo capitolo degli Archives potesse superare il primo, e invece. Chiaramente si tratta di due artefatti completamente differenti, l’uno mastodontico l’altro essenziale, l’uno urticante l’altro sommesso. Sommesso, ma non malinconico: Young è distrutto dopo mesi e mesi diviso tra l’attività con due band diverse, Crazy Horse e Stray Gators, un supergruppo e un prezioso chitarrista caduto nel vortice dell’autodistruzione, ma si sente a casa sua, la sua situazione sentimentale è rosea (cosa assai rara) ed è prolifico come non mai. Live at Massey Hall ci parla di un Neil Young di cui finora sapevamo poco, che non avevamo ancora scoperto. Live at Massey Hall si dimostra grande come la storia che ci racconta. 
Michele Sarda


Le promesse vanno mantenute e in un certo senso, vista la mole del materiale in questione, anche le minacce. Infatti, questo secondo live che segue di pochi mesi la pubblicazione di quello del ‘70 al Fillmore East, porta con sè un foglietto che annuncia ufficialmente la pubblicazione degli archivi (volume 1, attenzione) di Neil Young periodo 1963-1972 in un box con 8 cd e due 2 dvd.
Con un filo di preoccupazione, se non altro per il portafoglio che verrà messo a dura prova, possiamo ora tuffarci nel passato, nell’incanto di un concerto che i fan del canadese ben conoscono. Il bootleg del live alla Massey Hall del 1971 era infatti uno dei più noti in circolazione, anche per la qualità del suono. Qualità che in questo cd ufficiale diventa addirittura eccellente, di una pulizia incredibile.
D’altra parte in questo glorioso ritorno in patria, a due passi da casa, peraltro evocato con Journey Through The Past, uno dei brani più belli di questo disco, il concerto venne registrato perchè di lì a breve diventasse un lucente padellone in vinile.
Invece fu sacrificato in favore di Harvest, di quel disco pubblicato nel 1972 che, obtorto collo, divenne il suo disco più famoso, e di cui in questo concerto vennero anticipati diversi brani, compresa “The Needle And The Damage Done”, disperata supplica (eseguita dal vivo anche su Harvest) all’amico Danny Whitten, poi morto per overdose.
Young, senza scavare negli anni ’60, arrivava da un disco strepitoso come After The Gold Rush, dall’epocale doppio live 4 Way Street con gli amici alterni Crosby, Still e Nash, era insomma in uno stato di grazie incredibile. Ed il punto apicale è proprio questa esibizione acustica. Se nel concerto dell’anno precedente al Fillmore, “Cowgirl in the Sand” era un proverbiale cavalcata elettrica di sedici minuti, qui torna alla forma essenziale, una “semplice” canzone di Young.
Insomma questo è un concerto perfetto, dove tutto scorre leggero e indispensabile, che regala passaggi intensi e commoventi come solo la musica di Neil Young, in certi momenti, ha potuto.
”A Man Needs a Maid” con “Heart of Gold”, “Don’t Let It Bring You Down”, “Ohio”, “Dance Dance Dance”, oltre ai brani già citati, rendono il live di Toronto un’opera indispensabile: questo è il Neil Young che ci ha fatto innamorare per sempre, quello che ci ha strappato il cuore con la sua voce, imbracciando una chitarra acustica per strapazzarne le corde con impareggiabile stile o chinandosi sul piano per picchiare quei tasti con altrettanta personalità.
Obbligatoria la versione deluxe che include il dvd dell’intero concerto e altre meraviglie. Benedetto quel registratore a nastro, appoggiato su una sedia, altri tempi. Immagini antiche per una musica giovane. Forever Young, come canterebbe l’unico songwriter che, forse, gli sta sopra di un solo gradino. 
Maurizio Pratelli

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