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Neil Young - Firenze e Verona 2008


NEIL YOUNG, IMPERDIBILE SCORBUTICO


Ben Keith, Rick Rosas, Anthony Crawford, Neil Young, Ralph Molina a Firenze il 22 giugno 2008.
Foto di Matteo 'Painter' Barbieri

Orgoglioso come un vecchio e indomabile leone, Neil Young ha aperto l’altra sera al Nelson Mandela Forum di Firenze la parte estiva del Chrome Dreams II Tour. Chi lo conosce un poco sa che il cantautore canadese ama spiazzare anche i suoi fedelissimi. Niente spazio per la moglie Pegi, questa volta (grazie al cielo!), e niente separazione tra set acustico e set elettrico. Va comunque segnalata la buona prova degli Esterina, cui è toccato il compito non facile di cominciare la lunga e calda serata fiorentina. Rock band molto interessante, con uno stile personale e strumenti insoliti come il vibrafono e il theremin. Di loro, toscani di Massarosa e titolari di un cd intitolato Di ferro e di botte , sentiremo di sicuro riparlare. Per non smentire la sua leggendaria imprevedibilità, Young - accompagnato da Ben Keith (pedal steel, organo, chitarra), Chad Cromwell (batteria), Rick Rosas (basso), Anthony Crawford (chitarra, piano) - attacca con la lunga ed elettrica, “Love And Only Love”, una di quelle canzoni che gli permettono di improvvisare assoli interminabili e devastanti. C’è chi lo accusa da sempre di essere un chitarrista mediocre, ma si sa che Young vuole che i suoi strumenti, affidati al bravissimo e fedele tecnico Larry Cragg, siano perfettamente accordati. Ci trascina fin dalle prime battute in quel marasma di distorsione e feedback che è diventato il marchio di fabbrica inconfondibile del suo stile. Ogni volta che il grande cantautore e rocker nordamericano è uscito dai binari del suono acustico/elettrico ha creato dischi a dir poco discutibili. Questa volta abbiamo avuto fortunatamente a che fare con un Neil Young classico. Si spegne “Love And Only Love” e partono “Dirty Old Man” e “Spirit Road”, tratte proprio da Chrome Dreams II, il suo album più recente. “Powderfinger” e “Hey Hey My My (Into The Black)” ci riportano indietro di quasi trent’anni: c’era chi lo dava per archiviato tra i dinosauri degli anni 60 e 70, ma con Rust Never Sleeps, il capolavoro da cui vengono queste due canzoni, Neil Young dimostrò di essere vivo e vegeto. «Meglio bruciare in una fiammata che svanire lentamente», canta Young e il ricordo corre a Kurt Cobain, che prese purtroppo alla lettera questi versi maledetti e li citò nel suo messaggio di addio.
Ed è arrivato il momento di stemperare la tensione con la parte più acustica del concerto: “Too Far Gone”, “Oh Lonesome Me” - una delle poche cose non originali da lui incise, è uno standard country di Don Gibson, autore anche di “I Can’t Stop Loving You” di Ray Charles - “Mother Earth” (con Neil all’organo), “Needle And Damage Done” e “Old Man” (con Larry Cragg «promosso» al banjo) andavano a comporre una splendida sequenza folk rock, conclusa con “Winterlong”. Quest’ultima - un brano «minore» nella sterminata produzione younghiana - viene dedicata da Neil a Danny Whitten, amico fraterno e leader del «gruppo per eccellenza» di Young, i Crazy Horse, scomparso per un’overdose di eroina nel 1972. Ultime battute? Neanche per idea. “No Hidden Path” è un’altra scheggia di Chrome Dreams II e Young ha deciso di eseguirla senza risparmio di energie. Dura una buona mezz’ora, con assoli lancinanti e ipnotici, ma non è all’altezza di altri titoli simili. Meglio “Down By The River” o “Cowgirl In The Sand”, ma bisogna sempre tener presente che abbiamo di fronte un artista veramente selvaggio. Un terremoto di sonorità assordanti. Secondo lui la sigla della serata. Richiamato a gran voce dal pubblico - pantere grigie e ragazzi insieme senza problemi - Young suona il riff subito riconosciuto da tutti di “All Along The Watchtower”, ma smette subito. Restituisce la chitarra elettrica a Larry Cragg, che provvede a riaccordarla. Riparte “All Along The Watchtower”, una delle canzoni più visionarie di Bob Dylan, ripresa da Neil con risultati più che brillanti. La sua chitarra si infiamma, ma non è ancora arrivato il momento di chiudere i battenti. Tocca ad una scatenata e travolgente “Rockin’ In The Free World” l’ingrato compito di rimandarci tutti a casa. L’episodio della chitarra scordata - a Larry Cragg vogliamo bene e ha tutta la nostra solidarietà - e un violento gesto di disprezzo nei confronti di un tecnico di palco di qualche istante prima mettono comunque Neil Young in una luce abbastanza negativa. Nessuno può dire che non sia un artista straordinario, ma il suo egocentrismo - che passa per i trenta minuti un po’ tediosi e ripetitivi di No Hidden Path per arrivare alla sua insofferenza nei confronti del suo team - non è uno degli aspetti migliori di un carattere a dir poco spigoloso. Sarà che ha legato una parte consistente della sua leggenda personale alla «Summer of love» del 1967 e al Festival di Woodstock, ma avremmo preferito vederlo più calmo e disponibile. Si vede proprio che i vecchi leoni vogliono invecchiare a modo loro.

Giancarlo Susanna, L'Unità 24 giugno 2008


ARENA DI VERONA - 23 GIUGNO 2008
Brani elettrici interminabili, fra momenti di grande energia e passaggi strumentali ossessivamente ripetitivi
Si fa attendere a lungo e ci sono oltre 30 gradi. Senza mancargli di rispetto nutro qualche dubbio sulla sua tenuta fisica. Quando si decide a salire sul palco sfodera una tiratissima Love And Only Love di 17 minuti. Va beh, come non detto: Neil Young c’è. Circondato dagli amici di sempre (Rick Rosas al basso, Ben Keith alle chitarre e al pianoforte, Ralph Molina alla batteria) e sostenuto dalla voce della consorte Pegi, si diverte come spesso accade a mischiare emozioni acustiche e scorribande elettriche. Non c’è il pienone ma l’Arena si fa sentire battendo il tempo nella giovanile Everybody Knows This Is Nowhere: il tiro della sua Les Paul è sempre micidiale. Il torrente elettrico prosegue con Dirty Old Man e Spirit Road (da Chrome Dreams II), due brani che dal vivo suonano forse un po’ statici, soprattutto se schiacciati tra autentici classici. L’attacco della successiva Powderfinger, graffiante e seducente, fa scattare in piedi l’intero catino. Il fascino strumentale e narrativo del brano è uno dei picchi compositivi di Mr.Young e il pubblico apprezza cantando, insieme a lui, l’epopea del vecchio West vista dagli occhi dei nativi. L’abrasiva semplicità del riff di My My, Hey Hey è la summa del repertorio younghiano: la violenza cieca del suono accompagna quegli slogan, semplici quanto efficaci, declamati a gran voce dal pubblico. Non è un brano qualsiasi, è pura energia, ancora oggi la quintessenza del rock’n’roll. Young imbraccia la Martin, è il momento di tirare il fiato. Too Far Gone, con la lap steel di Ben Keith a miagolare in sottofondo, e l’elettroacustica Oh Lonesome Me sono quanto di più elegantemente malinconico ci possa essere. Si cimenta poi da solo all’organo con Mother Earth e il lato intimista si tinge per un istante del verde dell’impegno ambientale. L’arpeggio di The Needle And The Damage Done fa letteralmente esplodere la folla che, sciaguratamente, si lascia andare a un ritmato battito di mani che riesce a spezzare la magia di un brano tanto sofferto. Con Old Man e Mr. Soul il finale è un crescendo esaltante che però viene soffocato, inspiegabilmente, da una lunghissima No Hidden Path, brano che convince parte del pubblico a lasciare l’anfiteatro. Nell’unico bis Young si affida ad una potente All Along The Watchtower che purtroppo deraglia anch’essa nel finale in una ossessiva ripetizione del riff. Sempre più distorto. Ma sempre più noioso. Tirando troppo la corda, mezz’ora da dimenticare. Peccato.

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