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David Crosby: l'intervista di Massimo Cotto, 1989

di Massimo Cotto - Milano, 1989


C'è una strofa in "Compass" - "I have wasted ten years in a blind-fold, I have travelled beleved mirrors in a fly crowl losing the reflection of a fight" - che bene fotografa l'immobilità che ti ha incatenato per anni. In "Monkey And The Underdog" racconti di aver ritrovato la forza di lottare per sopravvivere: "It's not how much dog is in the fight, it's how much fight is in the dog". Quando hai avvertito che stava rinascendo la forza di combattere?
È stato un lentissimo processo. Ho cominciato a sentirmi meglio due anni fa, quando sono uscito di prigione. Più ti allontani dalla droga e più ti senti rinascere, fisicamente e soprattutto come volontà. Il problema principale, quando sei assuefatto a eroina e cocaina, è che non credi di poterne uscire, dai per scontata l'inutilità dei tuoi sforzi e delle relative sofferenze. Preferisci non tentare per non star male. Per questo rifiutai l'offerta di Jackson Browne, Paul Kantner, Grace Slick e Joel Bernstein nel 1981. Vennero a casa mia a Mill Valley per portarmi in ospedale. Accettai dopo molte insistenze, ma la mattina seguente avevo già deciso di tornarmene a casa. Sono passato attraverso sei inutili tentativi di disintossicazione. Sono stati il carcere e la paura a guarirmi, poco alla volta. Constatare che, se davvero volevo, potevo farcela è stato il miglior tonico. Così ho potuto riprendere a scrivere musica, a essere un padre per mia figlia, un marito per mia moglie, un amico per i miei amici, un essere umano per tutti. È bello ritrovare la musica dopo tanti anni.

Uno dei luoghi comuni sull'arte è che le droghe ne elevano il livello. Nel tuo caso non si può certo dire che abbiano migliorato il songwriting. In che modo le droghe influiscono sul processo compositivo dell'artista?
La prima reazione è davvero positiva. Pensi: "Oh, adesso sì che posso scrivere qualcosa veramente fuori dal comune". E non ti rendi conto che, almeno per quanto riguarda il mio caso, più ti lasci coinvolgere dalle droghe pesanti e meno movimento, cerebrale e fisico, riesci a fare. Negli ultimi tre anni da tossicodipendente non sono riuscito a scrivere un solo verso. Niente. Solo illusioni, accenni di canzoni ma nella testa. Solo nella testa. Come ho detto prima, è stato il carcere a ridarmi coraggio. Ho ripreso a scrivere immediatamente dopo l'ultimo arresto. Le droghe pesanti uccidono il tuo cervello e la tua creatività. Ti lasciano solo e paranoico, terrorizzato dal mondo e incapace di prendere una decisione, anche la più piccola e futile.

L'unica eccezione sembra essere "Delta", una grande canzone. 
Devo quel brano a Jackson Browne. Continuava a dirmi: "Avanti, finiscilo. È così dannatamente bello?". Ma lo sforzo fu quasi sovrumano, concentrarmi e aggiungere un altro verso? Per questo non la definirei un'eccezione, ma un combattimento, una lotta strenua tra l'apatia e l'arte. Ma se presti attenzione alle mie parole sentirai che il senso è: "Chi sta portando avanti questa cosa? Amo me stesso, ma non mi conosco e certamente non possiedo il controllo della mia persona. Chi decide le mie scelte e le mie possibilità?".

Cosa ti teneva in vita, in prigione? Leggere, scrivere, pensare, il desiderio di tornare a fare musica?
Le lettere di mia moglie. La prigione è un posto terribile per svegliarsi da un incubo, ma se già nel dormiveglia ti senti meglio pensi che non sarà poi tanto male.

Com'era la tua giornata?
Dura. La sveglia alle cinque del mattino. Mangiavo il disgustoso rancio della galera e poi andavo a lavorare in fabbrica. Tornavo per il pranzo, disgustoso come la colazione, e riprendevo il lavoro in fabbrica. La sera tornavo in cella. Questa routine era raramente interrotta dalla musica con la band.

Quando è cominciata l'odissea?
Difficile dirlo. A Woodstock dicevamo che drogarsi era bello, ma parlavamo solo di fumo e spinelli, non di droghe pesanti. È arduo dire come e perché sono caduto. Le droghe sono come un serpente che striscia, si insinua dentro di te senza far rumore, sono come il ghiaccio. Tu sei una macchina che si trova improvvisamente a doverci correre sopra e prima che tu sia riuscito a pensare alle possibili contromosse, a come mantenere il controllo del mezzo, hai già sbandato. E dopo che sei fuori strada hai bisogno di un carro attrezzi davvero efficiente per rimetterti in cammino. E non sempre è sufficiente la paura, aver visto la morte in faccia per farti andar piano dopo che hai riacceso il motore. Una volta eravamo convinti che solo l'amore potesse spezzare il cuore, come cantava Neil Young ("Yes, only love can break your heart", n.d.a.) e il lavoro il corpo. Oggi è facile per me dire che la droga è l'unica cosa che ti può davvero spezzare tutto.

C'è qualche relazione tra la morte di Christine Hinton, la tua ragazza di allora perita in un incidente automobilistico nel 1969, e il desiderio crescente di trovare rifugio nelle droghe?
Sì, non sapevo come reagire. La morte di Christine mi lasciò spiazzato, incapace di prendere posizione. Non avevo la minima idea di cosa avrei potuto fare. Mi parve che le droghe potessero, se non lenire il dolore, almeno sospenderlo, collocarlo in un intervallo dove per un po' mi era possibile non pensare. La morte di Christine andava oltre le mie capacità di sopportazione.

Le tue canzoni più recenti - "My Country Tis Of Thee" ("Land where my fathers died"), "Tracks In The Dust" ("They're selling death in the streets"), "Monkey And The Underdog" ("I've been fighting just to stay alive"), "Lady Of The Harbor" ("How many good men died"), "Nightmare For The Generals" ("They shot blind Lady Liberty in the back of her head"), "Compass" ("I have seized deaths door handle") - contengono riferimenti, immagini, accenni alla morte, secondo accezioni diverse.
No, non c'è nessun riferimento o immagine di morte in quei brani. 

Il fatto che non lo ricordi potrebbe significare che quei riferimenti provenivano dal tuo subconscio. Hai paura della morte?
No. Non più, almeno. L'ho accarezzata così a lungo che ho smesso di temerla. A parte lo stato di immobilità che tu prima hai paragonato alla morte, ho rischiato almeno in un paio di occasioni: una prima volta per overdose di eroina e una seconda mentre mi trovavo sotto l'effetto della cocaina, in macchina, mentre guidavo. La mia unica paura di oggi è tornare a drogarmi. Lo stesso titolo del mio ultimo album è una sfida continua, è lì a ricordarmi il nemico, colei che devo tenere lontano dalla mia vita. Yes, I Can, sì io posso, posso ricostruire me stesso, essere ciò che voglio.

Sia in "Lady Of The Harbor" che in "Nightime For The Generals" ricorrono i simboli della libertà e della giustizia.
La Statua della Libertà è il simbolo di tutto ciò in cui noi crediamo: eguaglianza, giustizia, libertà, un governo giusto, i principi insomma su cui si basa ogni Costituzione, la mia, la tua, quella di ogni uomo. Evidenziare il simbolo per dire: "Ehi, non dimentichiamo com'erano le cose in origine, quali erano le idee, i valori in cui credevamo e che abbiamo perso per strada". In America la situazione politica è una farsa men che mediocre. Le ultime elezioni sono state un brutto scherzo: ci hanno costretti a scegliere tra due candidati di cui uno era stupido e l'altro evidentemente bugiardo, una persona per nulla affidabile.

Non temi di essere frainteso, com'è accaduto a Springsteen con "Born In The U.S.A."?
Mi auguro di no. Ribadisco che credo nella Costituzione degli Stati Uniti d'America, ma non nei soprusi che i nostri politici commettono in suo nome. Nei Sixties sono stato contro l'intervento in Vietnam, così come oggi sono contro l'energia nucleare, la distruzione dell'ambiente, lo strapotere della C.I.A. nel mondo. Sono ancora un fuorilegge, un ribelle contro ciò che non mi piace.


Gli ingredienti di una canzone d'amore sono sempre gli stessi. È l'ispirazione a fare la differenza?
Non saprei. È vero però che molti si gettano sulle canzoni d'amore perché pensano siano facili: "Qual è il nome di una ragazza che potrebbe andar bene?". Le canzoni d'amore sono come l'amore: lo puoi avvertire, non fabbricare. Il difficile semmai è saper comunicare le tue emozioni agli altri.

"Drive My Car" e "Melody" fanno parte del famoso disco che la Capitol rifiutò di dare alle stampe nel 1981?
Sì, capirono subito che non ero affidabile come persona. Il dirigente che ascoltò le canzoni disse che non gli piacevano, ma non era questo il problema. Il suo era solo un punto di vista, l'album era in realtà abbastanza buono. Il problema vero ero io. Mi trovavo nel mio periodo peggiore. Dipendevo in modo totale dalla droga. Credimi: in modo totale. Come biasimarli perché avevano paura a fidarsi di me?

Grace Slick disse una volta che Woodstock fu il vostro show, tuo e di Stills, Nash e Young, o meglio forse non proprio il vostro show, ma il vostro momento: più di ogni altro gruppo rappresentavate il suono, l'atmosfera, la filosofia della generazione di Woodstock. Cosa rappresentarono per te quei tre giorni del 17, 18 e 19 agosto 1969?
Woodstock rappresentò il luogo per far nascere una nuova etica, nuovi ideali che singolarmente ognuno provava, ma che non erano stati confrontati e vissuti con altri. Woodstock fece capire che solo l'incontro, il numero poteva darti la forza. È facile essere cinici verso quelle tre parole - "Peace Love Music" - è facile perché solo chi c'era poteva capire. Chi cercava e cerca di interpretare non riusciva e non riesce a evitare retorica o cinismo.

Abbie Hoffman, leader del movimento giovanile, è ancora oggi convinto che Woodstock sia l'avvenimento culturale più importante del XX° Secolo.
Se non il più importante, certamente uno dei più significativi. Fu una visibile, chiara manifestazione di disponibilità verso gli altri a dispetto, o meglio indipendentemente, dal sistema dominante. Fu una spontanea, comune dichiarazione d'intenti: "Non sono né sarò violento, non sono né sarò scorretto, sono e sarò un essere umano decente e rispettabile e mi impegno a essere utile agli altri esseri umani". L'aspetto nuovo, rivoluzionario di Woodstock stava proprio nel fatto che quell'impegno verso gli altri era sentito, non era imposto o condizionato dalla vecchia etica, in base cioè a un'astratta democrazia. Quella generazione voleva essere d'aiuto agli altri, era davvero idealista perché credeva fermamente nei suoi ideali. L'unico aspetto sul quale sbagliammo di grosso furono le droghe. Non tardammo molto a rendercene conto.

Neil Young ha scritto in "Hippie Dream" che le "wooden ships were just an hippie dream", le navi di legno erano solo un sogno hippie. Tu hai detto in "Tracks In The Dust" che "all that hippie hopefulness is just a crutch but if thinking that way helps you to make it through the night then who am I to say what's wrong and right", che le speranze hippie erano una stampella, ma che se a qualcuno serviva per passare la notte, chi sei tu per decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Quanto vicino a te e alla tua generazione si è soffermato il sogno di Woodstock?
Molto vicino. Almeno dentro di noi, se non come movimento. Non ci sono più guerre da far cessare, ma altre cose per impegnarsi e lottare. Scegliamo ancora noi le nostre strade. Forse, rispetto ad allora, non siamo più in tanti sulla stessa strada, o siamo ancora sulla stessa strada, ma camminiamo separatamente. Forse però i tempi stanno nuovamente cambiando. Neil scrisse "Hippie Dream" esclusivamente per me, per darmi la forza di uscire dalla voragine in cui ero precipitato, per dirmi che teneva a me, che voleva ne venissi fuori. E' stato lui il primo a dire che sarebbe stato felicissimo di incidere un altro disco di C.S.N.Y. se mi fossi disintossicato. Il suo discorso quindi non riguardava specificamente le wooden ships; le navi di legno erano solo un mezzo per tentare di scuotermi, di svegliarmi. In "Tracks In The Dust" ho voluto far parlare le due parti di me: quella che è come allora e quell'altra che è stanca di sperare in un domani migliore, che a volte vede quella speranza hippie come una gruccia a cui non ci si può appoggiare più di tanto. In quel brano è come se mi fossi seduto ai due opposti lati del tavolo per vedere tutti i punti di vista.

Riascoltando i tuoi vecchi dischi - da solo, coi Byrds e con Stills Nash e Young - in attesa di questa intervista, mi sono accorto che "Laughing" è molto simile a "For Everyman" di Jackson Browne.
Sì. E forse non sai che Jackson scrisse "For Everyman" come risposta a "Wooden Ships". "Wooden Ships" diceva più o meno: "Sta andando tutto in rovina, saliamo sulla nostra barca e via? Lasciamo tutto quanto e partiamo". E Jackson disse: "Okay, e cosa possono fare quelli che non hanno la barca? O i bambini? Ciò che dite non è giusto. Dobbiamo rimanere qui e cercare di migliorare le cose. Non servono navi di legno". Aveva ragione lui.

I musicisti dei primi anni Settanta, molti dei quali erano nati o vivevano in California, raccontavano l'attesa per qualcuno che, citando i versi di "For Everyman", potesse finalmente mostrare la via, dare risposte e guidare verso quel posto nel calore del sole. Cos'è cambiato da allora? 
Oggi non penso possa apparire un leader all'orizzonte, qualcuno che sappia le risposte. La speranza si è scolorita. Al massimo riesci a trovare un manuale che ti insegna come rimanere lontano dai guai. Ogni tanto il genere umano produce uomini nati per essere delle guide. Ma non troppo spesso. L'ultimo è stato Ghandi.

Neil Young ha detto che tu eri la guida spirituale di C.S.N.Y. Quanto difficile era mantenere tutt'e quattro all'incrocio della vostra four way street, della vostra strada a quattro direzioni?
Non sono la persona adatta a dirti queste cose: Neil è stato davvero molto gentile, ma? Non so? Tutti ci hanno sempre definito un supergruppo. In realtà non eravamo neanche un gruppo. Eravamo quattro persone diverse, molto diverse. Quattro caratteri per certi versi opposti uno all'altro. La stessa decisione di chiamarci con i nostri cognomi, di non dare alla band nessun nome astratto era stata presa per evidenziare le nostre individualità. Quattro musicisti bravi anche singolarmente che univano le forze per rendere la loro musica ancora più grande. Ma non la pensavamo mai allo stesso modo. Mai. Su qualsiasi cosa. Solo su un punto ci trovavamo d'accordo: Crosby, Stills, Nash e Young nella stessa stanza, in buona salute fisica e mentale, sotto l'effetto di nessuna droga, erano in grado di produrre grande musica.

La primissima volta che vi trovaste a suonare - tu, Nash e Stills - dove fu? A casa di John Sebastian, di Joni Mitchell o di Cass Elliott?
Capisco la domanda. Da ogni parte è scritto un posto diverso. Ma nessuno di noi tre lo ricorda con esattezza. Sicuramente non era da John Sebastian. Personalmente credo che ci trovassimo a casa di Joni. 

Il primissimo brano fu "You Don't Have To Cry" o "Helplessly Hoping"?
"You Don't Have To Cry". 

Ahmet Ertegun, presidente della Atlantic Records per cui incidevate, disse che partecipare alla lavorazione di Crosby Stills And Nash fu splendido perché l'atmosfera era serena e cordiale. Bill Halvevson, ingegnere del suono, dichiarò che durante Déjà Vu l'atmosfera era totalmente diversa, forse già irrimediabilmente deteriorata. Viene spontaneo pensare che l'arrivo di una quarta forte personalità possa aver causato ulteriori dissidi.
Ma la colpa non era di Neil. La colpa era? [lunga pausa] Non voglio dirlo. In parte era certamente anche colpa mia, molto scosso dalla morte di Christine, in parte? Non andavamo d'accordo. Ma non fu Neil a portare dei problemi tra di noi. Gli chiedemmo di unirsi a noi perché era un eccellente cantante, un incredibile songwriter, un grande musicista. 

È vero che ti spinsero a lasciare i Byrds perché il tuo impegno crescente verso i problemi sociali e la politica mal si conciliavano con i temi preferiti da Roger McGuinn e dagli altri membri del gruppo?
Più che interessarmi di politica cominciai a manifestare sempre più apertamente il mio dissenso verso le cose che non reputavo giuste nella società di allora, a parlare cioè non solo di musica, ma anche di ciò che accadeva intorno a me. Ma non credo fu quello il vero motivo per cui mi separai dai Byrds. La vera ragione è che ero troppo giovane, volevo più spazio e attenzioni, le reclamavo anche se sapevo che non le avrei mai ottenute con loro. Roger McGuinn è stato e sempre sarà il cuore e l'anima dei Byrds. Oggi riesco ad accettarlo. Mi sta benissimo. Non allora. Non in quegli anni. Recentemente ho ritrovato McGuinn e Hillman e con loro ho suonato alcune date nella California del Sud. È andato tutto benissimo perché ho accettato di buon grado un ruolo di secondo piano. Ho fatto il sideman. Allora ero geloso di Roger. Volevo essere il frontman, volevo più luce degli altri. Questo è il vero motivo per cui le strade mie e dei Byrds si separarono: il mio ego mi spingeva verso ruoli di protagonista che Roger McGuinn non voleva concedermi e mai mi avrebbe concesso.

Quindi la decisione di non includere "Triad" tra le canzoni del gruppo non fu la classica goccia che fece traboccare il celeberrimo vaso?
"Triad" fu registrata e non inclusa in alcun album, è vero. Ma questi sono dettagli. I veri motivi erano altri.

Risolviamo una volta per tutte il dubbio: David Crosby ha o non ha suonato su The Notorius Byrd Brothers?
Sì, ho suonato. Fu l'ultimo album dei Byrds cui partecipai.

Long Time Gone, l'autobiografia che hai scritto con Carl Gottlieb, si sofferma particolarmente sugli anni bui della tossicodipendenza e del dolore, molto meno sulla musica. Solitamente accade l'opposto, si preferisce tralasciare i momenti difficili, quasi si volesse rimuoverli dalla propria coscienza.
È sbagliato. Il passato è utile per capire, avvolgerlo di silenzio è da codardi. In Long Time Gone c'è tutta la mia vita, compresi gli ultimi tragici anni. Scriverla è stato come liberarmi ulteriormente dalla dipendenza della droga. È servita come catarsi. 

La tua paura più grande durante e dopo Yes, I Can?
Temevo di avere dei problemi alle corde vocali, avevo paura che le droghe mi avessero rovinato la voce, uno dei beni più preziosi che possiedo. Invece credo che in questo disco la mia voce sia migliore rispetto ad altre produzioni passate. Mi confortano i pareri di Jackson e di altri amici, sempre molto critici verso di me. Ero molto più preoccupato per Yes, I Can che per American Dream di C.S.N.Y. perché erano passati diciotto anni da If I Could Only Remember My Name ed erano stati diciotto anni duri. Non sapevo come avrebbero potuto riflettersi nella mia musica. Ma il buio è finito. La cosa più importante è poter dire: Yes, I Can, io posso, posso dire che sono ancora vivo. La cosa più importante è poterlo urlare.

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