After The Gold Rush - Rassegna Stampa (pt.2)
Quando
penso alla melodia, al suono eufonico nella sua forma più pura,
all’essenza, al succo dell’armonia, penso a questo disco. Ciò
che mi ha sempre enormemente sorpreso in quest’opera dell’orso
solitario, non è come in altre la voce di sale, sono i tempi. Questo
vinile è di canzoni corte, composizioni brevi che raramente superano
i tre minuti, ma che sanno dischiudere momenti eterni, aprire minuti
che sembrano intere stagioni, estati e inverni, e non solo
dell’anima. Quanti colori, quali algide sensazioni e profumi si
rivelano a noi in quei brevi istanti, fluttuano nel vapore grigio e
atemporale, nell’umidità incantata di questo disco. Visioni
oniriche e idilliache, ambientali, naturalistiche, il sogno del
riscatto umano dopo la corsa all’oro, dopo la ferina conquista
della frontiera. Condivisione di esperienze, idillio nella natura,
boschi verdissimi e cieli argentei e splendenti, corsi d’acqua di
fluente cristallo. Quanta purissima illusione e fiducia in questa
pagina del giovane Young, parole sole e tremule di un periodo strano
e violento, quanta dovizia di utopia, ubriaca e irrispettosa. Una
frontiera si avviava al tramonto ma l’orizzonte ancora copriva
altri e forse peggiori presagi.
L’ideale
perseguito dal canadese si esprime a pieno in questo disco fragile,
ma allo stesso tempo corale e partecipato da quel senso di comunione
che amalgamava le vite degli anni ’60. Un lavoro che prende
distanza dagli inizi di carriera e delinea meglio l’autonoma figura
di Neil Young come cantautore sottile e melanconico, accompagnato in
questo momento dai Crazy Horse, di cui ancora non compare il nome, e
da alcuni amici fidati come Steve Stills e Nils Lofgren.
Non
importa affatto se a rapirvi sarà la bella armonia estiva di
“Cripple Creek Ferry” o il fascino notturno di “Only Love Can
Break Your Heart”, la filastrocca di “Till The Morning Comes” o
l’invettiva elettrica di “Southern Man”, rimarrete comunque
imbarazzati per come questi accordi, smaschereranno i vostri cuori,
lasceranno le vostre anime nude, eliminando ogni filtro. Non importa
se il canadese sbagliò previsione, quella testimonianza rimane
impiantata come spina nel fianco del genere umano e come critica
appare ancora più appropriata oggi, dianzi a un mondo che ha smesso
di pensarsi per alternative.
La
musica di Neil Young desta fastidio alle nostre vite impure,
ritornano a fluire i sentimenti dei quali oggi abbiamo smarrito
l’abitudine, ci si riscopre sensibili tra un respiro e un fremito,
sorpresi da una goccia d’acqua che scivola via. La musica di Neil
Young è una dolce malattia che sfiora l’anima, un’affezione che
può far perdere la sicura strada del ritorno.
Non
posso dire molto di più, per ragioni di timidezza; trattare un pezzo
di vita in poche parole non viene facile, lavorare una pagina sola
intrisa di così ampie emozioni è addirittura avverso. La vita
quando si mischia a emozioni, note e colori è materia delicata e
facilmente suggestionabile.
Alfio
Sironi, storiadellamusica.it
Per
Neil Young sono quattro gli anni decisivi che anticipano la
pubblicazione di After The Gold Rush. È il ’66 quando suona e
canta coi Buffalo Springfield ricamando degli importanti lavori
folk-rock e segnando, così, il suo debutto assoluto. Nel ’69 poi
la sua prolificità è impressionante: sigla i suoi due primi
solo-album (Everybody Knows This Is Nowhere e Neil Young) con la
collaborazione dei Crazy Horse, inserisce la sua ‘Y’ nella
premiata ditta CSN&Y (Crosby, Still, Nash & Young) per il
lavoro Dejà Vu e calpesta il palco del concerto più importante
della storia: Woodstock. Quando giunge, dunque, il 1970 ed è il
momento di buttar giù il suo terzo album da solista, Neil è un
artista navigato. Ha esperienza da vendere e un talento riconosciuto
un po’ dappertutto in America. Quello che gli frulla per la mente è
un lavoro che facesse crescere tutti quei semi piantati nelle
importanti stagioni degli esordi. E così saranno proprio i vecchi
amici Crazy Horse ad occuparsi di coprirgli le spalle. Billy Talbot
al basso, Ralph Molina alla batteria e Danny Whitten tra chitarre e
voci sono i suoi angeli custodi sempre pronti a leggerne lo spunto ed
interpretarne l’idea musicale. After The Gold Rush è un album
superbo. Sarebbe davvero complicato scovare una qualsiasi sbavatura o
lato minore, e la sua caratteristica a “presa immediata” riesce a
proiettare l’ascoltatore dentro al disco con una facilità
impressionante. Bastano, infatti, tre accordi e la magia di “Tell
Me Why” raggiunge ogni angolo, colora ogni spazio rincuora ogni
umore. La dolcissima ballata d’apertura, consacra Neil Young come
uno dei più delicati folk singer del mondo. L’ascoltatore è
condotto in un volo attraverso mondi, strade, luoghi differenti,
riuniti in un unico soffio di speranze e tristezze da incorniciare.
Il pianoforte della title-track, poi, conferma la delicatezza di Neil
che con la sua voce acuta e a falsetto crea drammaticità e poesia.
“After The Gold Rush” è un libro di sentimenti e foto un po’
sbiadite. I cori, le fantastiche altalene ritmiche, la strumentazione
trattata coi guanti ne segna l’anima entusiasta da polmoni aperti.
Un disco fatto di piani e forti a mescolare le due anime di Young: il
rocker e il folk singer. Il country di “Oh, Lonesome Me”
(splendida l’armonica western), la drammatica title track, e la
struggente (piano e voce) “Birds” rappresentano la sfera emotiva
e lirica dell’autore. L’aggressività di “When You Dance I Can
Really Love”, il rock n roll ritmico di “Don’t Let It Bring You
Down” e la splendida “Southern Man”, invece, sono le frecce
veloci ed elettriche del disco. “Southern Man”, in particolar
modo, è un po’ il manifesto artistico del singer canadese:
denuncia della chiusura mentale, delle intolleranze e dell’ottusità
dei coltivatori del Sud. La bella arrangiatura vede una grande prova
della band che sta dietro ed un intramezzo chitarristico tutta farina
di Neil dall’appassionante acido andamento. Gold Rush è il primo
capitolo di quella fantastica carriera che Neil Young condurrà per
oltre trent’anni. Carriera fatta di genio e poesia, di amarezza e
attese e di quella passione musicale che impregnerà generazioni di
musicisti folk.
Riccardo
Marra, ilcibicida.com
Non
sono mai stato troppo concorde con riviste specializzate (es. Rolling
Stone) e sulle loro recensioni. Molte volte, è vero, sottopongono il
giudizio a persone che oggettivamente se ne intendono perché
lavorano fianco a fianco con gli artisti, li conoscono, li seguono e
intuiscono il perché di determinate scelte artistiche: è ad esempio
il caso del grande critico (ma anche produttore) Jon Landau.
Tuttavia
spesso il critico musicale ragiona più da giornalista che non da
musicista, usa la logica, ragiona secondo le regole… e sbaglia.
Come già ho avuto modo di dire in passato, il rocker non segue le
regole, le fa. L’occasione per questa piccola “bordata” è il
ricordo di un articolo pubblicato dalla suddetta rivista alcuni anni
fa. After The Gold Rush veniva dipinto come un album irregolare,
claudicante, dove ogni strumento andava un po’ per gli affaracci
suoi e Neil Young cercava di rimettere tutto a tacere cantando almeno
una mezza ottava al di sopra delle proprie possibilità, soprattutto
nella title-track, con esiti, a lor dire, disastrosi. Altra critica
rivolta all’album era che, sebbene le idee fossero parecchio buone,
la maggior parte delle canzoni non era pronta per essere incisa ai
tempi delle sessioni di registrazione, e andavano suonate ancora per
un bel po’.
La
mia scuola di pensiero è decisamente diversa: è vero che l’album
in alcuni punti stenta a livello di amalgama, ma il fatto che il
songwriting sia di alta classe, già da solo vale la metà della
grandiosità di un disco. Dovreste altrimenti spiegarmi il successo
di critica ottenuto da alcuni album di Dylan dove, a fronte di un
songwriting sontuoso, si ha una scarnissima base musicale con
arrangiamenti pari a zero. Ritengo dunque che il cantautore vada
prima di tutto valutato come autore, poi come interprete, e in questo
album il cantautore Young dimostra di essere un “Signor Autore”.
Lo
stesso Neil Young in un’intervista del ’75 dichiarò di ritenere
After The Gold Rush il momento della svolta, un album molto incisivo
con un’immagine ben definita.
Nel
1970 Young è impegnato nelle registrazioni di Dejà Vu con Crosby,
Stills e Nash. Convoca però i Crazy Horse perché ha in mente un
nuovo disco solista. Vuole un lavoro vivace, spregiudicato ma anche
molto sporco con delle registrazioni di qualità simile a quella dei
dischi di fine anni ’50.Da sempre restio ad ogni forma di
sovraincisione, Young vuole un disco registrato in presa diretta in
cui il cantante si trova proprio dentro la musica. Il tema dell’album
doveva essere legato alla sceneggiatura del film After The Gold Rush
di Dean Stockwell (che non venne mai girato).
Tuttavia
la tossicodipendenza del chitarrista Danny Whitten rendeva
impossibile una registrazione veloce, e vennero chiamati vari altri
turnisti ad affiancare il canadese e i suoi Crazy Horse.
Ciò
che ne risulta è il primo album-collage di Young, una sorta di
patchwork, proprio come quello operato sui logori jeans del
cantautore, immortalati nel retrocopertina, ottenuto accorpando
elementi di progetti inizialmente differenti e addirittura fondendo
band diverse.
Il
disco parte con “Tell Me Why” in cui immagini di desolazione e
abbandono si sciolgono poi in un sublime coro vocale in cui si invoca
una risposta che non verrà mai: è infatti tipico della poetica
younghiana porre quesiti senza risposta, ma soprattutto utilizzare
immagini che evocano significati diversi o cadono nel più candido
dei nonsense a seconda della predisposizione di chi ascolta.
Si
passa poi alla title-track: la scelta del cantato in una tonalità al
di sopra delle proprie possibilità, e il dolce accompagnamento di
pianoforte rendono la canzone una ballata dolente e allo stesso tempo
psichedelica; lo stesso testo crea un’atmosfera onirica e irreale
in cui Neil Young dà voce a quel senso di stordimento generazionale
di chi è appena uscito dagli anni ’60 eppure si ritrova ancora in
un evidente stato confusionale.
Con
“Southern Man” si apre un’altra pagina di storia del rock: qui
l’apertura è su un break chitarristico sferragliante, elettrico,
intensamente drammatico che subito si schiude in un’invettiva tanto
cruda quanto insolitamente diretta per i canoni espressivi del
canadese. Young va a toccare i nervi scoperti di un’America che
ancora evidentemente non ha fatto i conti col proprio passato; è un
attacco (a mio avviso anche esagerato e stereotipato) al Sud
statunitense razzista e violento, un attacco a cui non mancheranno
critiche (da ricordare quella contenuta nella celebre “Sweet Home
Alabama” dei “sudisti” Lynyrd Skynyrd.
Altri
brani da ricordare sono “Don’t Let It Bring You Down”, in cui a
una totale disperazione viene contrapposta una speranza che però,
chissà come, non suona affatto come tale, e “When You Dance I Can
Really Love”, rock roccioso e sporco tipico del sound dei Crazy
Horse con un finale psichedelico stupendo sulle note del piano di
Jack Nitzche.
E
c’è ancora chi osa non considerarlo un’opera d’arte…
Samuel
Torresani
Verso
la fine degli anni 60 il giovane cantautore canadese Neil Young,
reduce dal successo di Everybody Knows This Is Nowhere, si unisce al
trio Crosby, Stills e Nash per formare un supergruppo entrato diritto
nella storia della musica. Il risultato è il celebratissimo Dejà
Vu. Questa esperienza porta Neil ad una sorta di maturazione
artistica definitiva da cui scaturisce quello che personalmente
reputo il suo capolavoro assoluto: After The Gold Rush è un disco
perfetto, in esso sono racchiuse tutte le anime del leone canadese.
Accantonati i Crazy Horse egli si affida ad un manipolo di ottimi
musicisti per recuperare il suo lato più interiore. Il disco si apre
con la splendida “Tell Me Why” una road song acustica sognante e
leggiadra. In questo lavoro troviamo il suo lato più poetico in
“Only Love Can Break Your Heart”, quello più politico e
intransigente di “Southern Man” una vera invettiva contro un
certo modo di pensare tipico del Sud di quegli anni. Una canzone dura
nei contenuti e nelle liriche con la chitarra elettrica di Neil che
sforna assoli lancinanti quasi dei lamenti a contorno del testo, una
grande canzone di rock duro e crudo. C’è poi il suo amore per il
country riscontrabile in “Oh, Lonesome Me”. Neil canta in modo
splendido in questa ballata dal sapore antico imperniata sul suono
della sua armonica e su quello del piano del giovane e sconosciuto
Nils Lofgren (uno che poi si farà conoscere come chitarrista sia da
solista che con la E Street Band dove prende il posto di Little
Steven, grande fiuto di Neil che lo pesca solo diciassettenne).
Impossibile poi dimenticare la title track, una delle ballate più
belle mai composte dal nostro, voce e piano che compongono una
canzone dalla classe e dalla delicatezza uniche. Proprio la
delicatezza contornata da un alone di malinconia sono i punti di
forza di questo disco. Ne è uno splendido esempio “Don’t Let It
Bring You Down” altra grande ballatona in puro stile Neil Young,
una di quelle canzoni per cui il nostro è celebre con il piano
sempre protagonista. Stesso discorso per “Birds” ma qui i toni si
fanno ancora più cupi . Una canzone questa da assaporare con gli
occhi chiusi lasciandoci trasportare dal bellissimo coro e dalle
magiche note del pianoforte. Il ritmo poi si alza con “I Believe In
You” cantata in coro dove la chitarra torna ad urlare ma sempre
attenta a non far troppo rumore, la delicatezza è sempre sovrana in
questo disco. After The Gold Rush è un caposaldo non solo della
discografia di Neil Young ma di tutto quello che una volta veniva
definito country rock. Un disco struggente, emozionante da gustare in
silenzio per non perdere nulla della sua magia.
Marco
Redaelli, rocklab.it
After
The Gold Rush (1970) è invece diametralmente opposto [a Everybody
Knows…]: registrato con un complesso d'accompagnamento folk invece
che rock, è un ciclo di canzoni più concise, melodiche e tenere.
Gli arrangiamenti sono scarni, lenti e delicati. Le ballate sono
marchiate dal registro struggente, spigoloso e quasi agonizzante del
suo canto. Al posto delle fitte acute della chitarra si fa largo un
marziale pianoforte d'atmosfera, capace di redimere anche depressioni
spettrali ed arcaiche come “After The Gold Rush”. Le nevrosi
free-form dell'album precedente si placano in ritornelli orecchiabili
come “Only Love Can Break Your Heart” o in armonie vocali ariose
come quelle di “Tell Me Why”, con l'unico riff boogie in “When
You Dance”. L'album tradisce ancora una fondamentale incertezza del
giovane Young, ma sembra rinnegare le nevrosi di This Is Nowhere a
favore di una ballata più semplice e lineare.
Piero
Scaruffi