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Hawks & Doves - Rassegna Stampa


Neil Young aveva intitolato la sua ultima fatica di studio Rust Never Sleeps, cioè “la ruggine non dorme mai”. il suo nuovo album appare inciso con la stessa consapevole convinzione. Non bisogna mai fermarsi, farsi prendere dalla stanchezza, ma ci si deve continuamente rinnovare, pur rimanendo fedeli a sé stessi e alle proprie convinzioni. Così questo Hawks & Doves, che ha preso a girare sui nostri piatti nelle grigie giornate di un autunno inoltrato, ancora una volta propone uno Young diverso dall’ultimo ascoltato. E ciò oltre che segno della sua positiva irrequietezza è anche prova ulteriore della sua riaffermata genialità. L’elemento di novità non è al solito, drammatico né rivoluzionario, tuttavia chiaro e netto. Il disco infatti è diviso in due parti, ma accanto a una di folk acustico – e fin qui è ricalcato lo schema di Rust Never Sleeps – ne pone un’altra di country elettrico che si stacca nettamente dai ritmi aspri e duri della seconda facciata dell’LP appena ricordato. Neil ha voluto così riaffermare la sua vocazione solitaria ed intimista e ripercorrere al tempo stesso e in forma più ampia, le strade della country music, destinata secondo alcuni ad un prossimo rilancio.
La prima side, quella acustica, è anche la più vecchia, due dei quattro brani infatti risalgono rispettivamente al ’75 e al ’74. “Little wing”, lenta e breve lullaby aperta e chiusa da una gentile armonica e “The old homestead”, il più concettuale e complesso dei motivi qui raccolti (anche il più lungo con i suo quasi otto minuti di durata), una sorta di dialogo fra un cavaliere, la sua ombra e un gruppo di uccelli preistorici, sullo sfondo di una vecchia fattoria e di una luna non piena. Pur essendo difficilmente interpretabile – non per niente è stato composto a cavallo fra On The Beach e Tonight's The Night, due tra i più oscuri LP di Young – dal punto di vista dei testi è il più ricco ed interessante.
“Lost in space”, il primo dei brani recenti, ci riporta con la sua delicata andatura un tema caro alla poetica di Young, quello del mare e delle sue immense profondità. Tema rirpeso in “Captain Kennedy” triste e cruda ballata folk che racconta di un marinaio e della sua goletta di legno, frutto di una vita di sacrifici, esplosa tragicamente nell’acqua.
Ed eccoci alla seconda side, quella country. Non è la prima volta che Young si accosta a questo genere musicale, tutta la sua opera bene o male ne è stata influenzata (basti pensare al 2° LP, After The Gold Rush, al vendutissimo Harvest, allo stesso Zuma), nel ’77 inoltre in American Stars ‘n Bars vi sono i riferimenti più marcati. Qui lo sforzo è maggiore, specie dal punto di vista vocale (la sua voce è modellata sulle necessità dei brani), il materiale persino migliore. Entrano così in scena steel guitar (Ben Keith), basso /(Tennis Belfield), batteria (Greg Thomas fresco dall’esperienza con McGuinn, Clark & Hillman), piano (dello stesso Neil) e violino (Rufus Thibodedaux). “Stayin’ power” e “Coastline” sono due pezzi d’amore senza grosse pretese, scorrevoli e fluidi, rilassato il primo, più rock e nashvilliano il secondo, dove la sorpresa è costituita dagli interventi del fiddle che richiama sapori cajoun e atmosfere di square dances lontane. “Union man” è un’ironica rappresentazione di una riunione sindacale nella quale viene deciso – praticamente all’unanimità (fatto raro di questi tempi…) – di pubblicare etichette adesive con la scritta “la musica dal vivo è la migliore”. gli ultimi due pezzi sono dedicati agli States, un paese che sembra offrire opportunità illimitate ma nella realtà difficili da cogliere (“Cominì apart at every nail”), nel quale Young si sente comunque fiero di vivere in mezzo a gente che si inginocchia a pregare falchi e colombe che volano in cerchio tra la pioggia (“Hawks & Doves”). Sono le canzoni che ispirano la copertina, la bandiera americana con la stella davanti e le strisce dietro. Nel primo il titolo viene ripetuto dal coro, formato da Neil, Ben Keith e Ann Hillary, dopo ogni singolo verso, nel secondo la voce di Young molto nasale è quella che piace di più.
Non vi sono pezzi memorabili del tipo “Like a hurricane” o “Cortez the killer” per intenderci, né spunti chitarristici trascendentali, tuttavia il disco è sicuro e convincente, è destinato a raccogliere i consueti e meritati consensi. 
Raffaele Galli, Buscadero 1980


È un'altra stranezza di Young. I brani contenuti in questo lavoro sono stati registrati in epoche diverse e in studi diversi. Il risultato è un insieme di canzoni che hanno ben pochi legami tra loro: emerge forse di più, in taluni momenti, l'animo country, pur non essendo una regola perché in altre situazioni è il rock a essere messo in evidenza. Nella prima facciata atmosfere cupe e pesanti dominano i vari brani. Forse non ci sarebbe motivo di stupore, conoscendo l'artista, nel vederlo così diverso e sempre staccato dalle esperienze precedenti. Soltanto che tutto questo crea momenti nella sua discografia veramente difficili da capire. Hawks & Doves è un disco più per se stesso che per gli altri: siamo di nuovo di fronte a una crisi creativa che non si risolverà molto presto. 
Elia Perboni, Music 1982


Neil, illogicamente, dopo il grande successo torna ancora nell'ombra ed infila una serie di dischi strani, atipici, discutibili.
Hawks & Doves è il primo: è un disco country, ma è freddo e distaccato, poco amato dai suoi fans, privo di canzoni memorabili (le migliori sono "Union Man" e "The Old Homestead") e molto impegnato dal punto di vista politico.
Risentito oggi il disco non è male, anzi, ha delle idee, anche se talvolta inespresse, molta amarezza ed un voluto desiderio di restare anonimo. Pubblicato nel novembre 1980.
Paolo Carù, Buscadero 1989


Dopo il ritorno, un'altra partenza. Ribadita per la seconda o terza volta la sua statura tra i classici del rock, invece di sfruttare la scia dei rinnovati consensi Young mette a riposo i Crazy Horse, si ritira nelle proprie stanze e fa un disco scontroso e maldisposto. La negazione delle strategie del successo. Hawks & Doves si apre con […] una prima facciata acustica e depressa, con timbriche tanto scarne da sembrare inscatolate pure nella lunga “The Old Homestead”, un'altra “Last Trip To Tulsa”, ugualmente visionaria e impenetrabile, dodici anni dopo (anche se il copyright del brano indica la data del 1974). La b-side esibisce un honky tonk vivace ma senza luce, sottolineato dal fiddle di Rufus Thibodeaux. Pochi musicisti assortiti, alcuni occasionali (dalla steel di Ben Keith alla batteria di Levon Helm, dalla sega a nastro di Tom Scribner al basso di Tim Drummond), i soliti Briggs e Mulligan al banco mixer, e uno Young distratto, sbrigativo. 
Mucchio Selvaggio Extra 2004


Dopo il successo strameritato dell’album precedente, Rust Never Sleeps, Neil Young si ritrova nuovamente inseguito dai suoi fantasmi. Nasce il secondo figlio, anch’egli afflitto da gravi problemi cerebrali e la moglie Pegi viene operata al cervello per un tumore maligno da cui fortunatamente si salverà.
Young preferisce non sbandierare i suoi guai e getta lì in pochi giorni un album molto breve e poco interessante. Hawks & Doves viene registrato di (ri)getto e consta di un primo lato acustico e di uno country-rock. Il primo, quello delle colombe (Doves nel titolo) è migliore, il secondo è sconcertante più per le tematiche smaccatamente conservatrici e redneck che per la musica, se vogliamo anche gradevole. Le idee sono poche e per arrivare a trenta minuti di musica, Young è costretto a recuperare due buone outtakes del passato.
La prima di esse apre l’album ed è sin dal titolo una dedica a Hendrix. “Little Wing” proviene da Homegrown, un progetto abortito nel 1975 da cui poi nacque l’album Tonight’s The Night. Ballata acustica e breve, tra le poche da salvare. Il secondo ripescaggio dal passato è la successiva “The Old Homestead”, che vede alle percussioni (fastidiose, secondo me) Levon Helm, ex-The Band, proveniente dalle sessioni di On The Beach (1974). Il testo misterioso e la lunghezza di quasi otto minuti in un disco brevissimo ne fanno il fulcro dell’album, anche se in futuro del brano rimarranno poche tracce. Il lato acustico si chiude con “Lost In Space”, una bella canzone penalizzata da un finto e insulso coro infantile e “Captain Kennedy” il cui testo rimanda a un periodo della storia americana sicuramente più dignitoso.
Il lato b, quello dei falchi (Hawkes nel titolo), è come detto infarcito da un inspiegabile e allucinante patriottismo. “Coastline” ricorda vagamente le square dances, ma con testi aggressivi e musica banalotta. “Union Man” ha un patriottismo smaccato e il canto di Neil Young può ricordare alcuni brani del Lennon solista. Gradevole.
Chiudono “Comin’ Apart At Every Nail” che non si può negare sia effettivamente gradevole, anche se il testo in bilico tra ironia e conservatorismo stona. Chiude la title track che annichilisce per l’assurdità delle tematiche e che musicalmente non aggiunge nulla.
Dopo questo album, Young farà incredibilmente anche di peggio per ben 8 anni! Come si dice in questi casi? Solo per fans, ecco. 
Fabrizio Demari

Hawks & Doves, uscito nel 1980, è anch’esso figlio di un’idea unitaria poi non realizzata compiutamente e realizzato ricorrendo a composizioni rimaste inedite e ripescate negli immensi archivi del cantautore. Doveva essere un disco dai contenuti fortemente politici e di critica verso la politica reaganiana nei confronti della quale lo stesso Young aveva assunto posizioni ambivalenti e non sempre chiare. Musicalmente e stilisticamente doveva essere un disco di country-rock influenzato dalle musiche del Sud degli States per tracciare uno sguardo sull’ America che si affacciava agli anni Ottanta. Alla fine il successore del capolavoro Rust Never Sleeps (1979) sarà un disco un po’ disomogeneo ma non privo di fascino: infatti la seconda facciata (oggi dobbiamo dire la seconda parte) conteneva le canzoni figlie dell’idea ispiratrice del progetto originario, mentre la prima parte sono brani prevalentemente acustici scelti dagli archivi e risalenti a diversi anni precedenti. E qui Young infila un capolavoro dietro l’altro tanto che più volte a molti fan è venuta la curiosità di sapere cosa ci sia nei nutriti cassetti del nostro poiché ogni volta pare lasciare nei cassetti canzoni di una bellezza rara… 
Marco Re


“Credo nella reincarnazione. Penso di essere già stato sulla Terra e penso che ci ritornerò”. La ciclicità, i corsi e ricorsi storici della vita artistica di Young sono fenomeni improvvisi ma a carte scoperte sembrano addirittura facili da interpretare: dopo tanta irruente musicalità, ecco un episodio più pensoso, addomesticato, quasi da imborghesimento senile. Hawks & Doves, soprattutto per il dato squisitamente musicale, è un disco rilassato, che si riallaccia alle melodiose canzoncine del folk americano, pochi accordi e un sentimento di sollevato perbenismo, da riposo del guerriero. In effetti i falchi e le colombe di Young volano basse, il disco mette d’accordo anche i più severi, proprio per la capacità dell’autore di depistare gli aficionados, di seminarli e ricomparire ogni volta con un vestito diverso: il suo non è qualunquismo né fatua ricerca del consenso e a questo servano i testi delle canzoni. È significativo che Hawks & Doves esca nell’ottobre ’80, a pochi giorni di distanza dal primo turno delle elezioni presidenziali americane che incoroneranno Ronald Reagan, il cowboy, a nuovo imperatore del West. Young è un progressista anti-establishment, non nemico ma neppure supporto solidale delle istituzioni, e in quelle placide ballate scorrono fiele e acrimonia, ben temperate dalla musica, che fa da geniale contrappunto. “The last american hero” lo ha definito un giornalista americano, Cameron Crowe, ed ecco quindi che l’eroe dedica fin troppo chiaramente il disco all’America: “La gente è inginocchiata e prega, falchi e colombe volano in cerchio sotto la pioggia” e poco ci si affligge pensando ai ricordi di Young rockista spietato, perché tutti sanno che, testardamente, anche quella figura tornerà.
Due brani del disco (“Little Wing” e “The Old Homestead”) sono fondi di magazzino, del periodo di piena turbolenza emotiva ma piace anche ricordare “Union Man”, quadretto ironico di un sindacato che all’ordine del giorno pone la richiesta di stampare adesivi dove c’è scritto: “la musica dal vivo è la migliore”. 
da Enzo Gentile, introduzione a “Neil Young” (Arcana 1982)

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