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Mirror Ball - Gli articoli di Buscadero


NEIL AND THE JAM

Sicuramente questo è uno dei dischi più importanti dell’anno, la collaborazione fra vecchio e nuovo destinata a creare quell’evento epocale di cui tutti, vecchi fans e nuovi adepti, parleranno a lungo. Il vecchio bisonte e la nuova band più popolare d’America.
Young, non è un mistero, è un mito per le nuove generazioni, è venerato dai gruppi rock della nuova ondata e lui stesso ha mostrato, più di ogni altro rocker, rispetto e grande disperazione per la tragica dipartita di Kurt Cobain. I Pearl Jam sono, volenti o nolenti, la nuova band più importante d’oltreoceano: non sono molto creativi, ma questo è il mio parere, ma con una penna come quella di Young a scrivere le canzoni diventano una macchina sonora formidabile. Le chitarre di Stone Gossard e Mike McCready, il basso di Jeff Ament, la batteria di Jack Irons sono una furia, quel muro di suono che, ancora più dei Crazy Horse, serve in questo momento a Neil Young: il canadese ha costruito il suo disco più fiero e più duro da lungo tempo a questa parte. I Pearl Jam sono come i Crazy Horse, ma con i muscoli.
Con la produzione di Brendan O’Brian e la voce di Eddie Vedder che si affaccia dietro le quinte ogni tanto (non ho note precise in questo momento, ma mi sembra di Eddie quella che appare qui e là dietro a Neil, con la sola eccezione di “Peace and love” dove si prende la briga di fare parzialmente il solista). Onore ai Pearl Jam che, all’apice della propria popolarità, diventano la backing band di uno dei grandi della nostra musica: senza mezzi termini gli fanno da base, creano quell’alveo, duro e grintoso, di cui la sua musica sembra talvolta avere assolutamente bisogno.
Rispetto a Sleeps With Angels il disco mostra una diversità di fondo: è un lavoro totalmente rock, nel più puro senso del termine. Chitarre come mitraglie che sventrano l’aria con stilettate violente, la voce angelica del canadese che fa da controcanto, la sezione ritmica dura come l’acciaio che fa da base: è un disco che si ascolta tutto d’un fiato, dalla prima all’ultima nota, pieno di jam chitarristiche, con reminiscenza rollingstoniane e momenti di pura psichedelia, come nella incandescente “Scenery”. È l’incontro di due generazioni, così lontane, così diverse, ma accomunate dalla volontà di un discorso comune, dall’amore per la musica, la musica vera, l’essenza del rock.
Ho sempre accusato i Pearl Jam di non sapere scrivere canzoni: sono una grande band, ma hanno spesso una falla nel lato compositivo e questo disco conferma che, con una scrittura lucida, i ragazzi sanno mostrare di che pasta sono fatti. Il suono è poderoso, ancora meglio di quello dei Crazy Horse, e le canzoni del canadese acquistano ancora di più in forma epica grazie alla dirompente azione del quintetto di Seattle: onore quindi ai Pearl Jam che suonano come una vecchia band, adeguandosi totalmente a Neil Young.
L’album è stato inciso lo scorso gennaio negli studios Heart’s Bad Animals di Seattle, con O’Brien dietro alla consolle, ed è stato deciso da Young e dai Pearl Jam dopo aver suonato insieme ai Rock and Roll Hall of Fame.
“Song X” apre il disco. Brano cadenzato, dall’andamento epico, è già grande musica: le chitarre sferzano l’aria duramente mentre Young canta “Hey ho, away we go, we’re on the road to never / Where life’s a joy for girls and boys and oly will get better”. “Song X” è un brano di presa immediata, potente nella parte musicale e avvolgente in quella vocale, sembra una vecchia ballata di Neil Young, una di quelle dei Ssettanta, ma con una base musicale dura e molto attuale. Ancora più elettrica è la seguente “Act of love”, uno dei brani focali di Mirror Ball: è un rock di derivazione rollingstoniana, splendido nella parte strumentale, un vero muro di suono, cantato con voce acuta dal canadese, quasi sempre (ma è un fatto voluto) superato dal volume delle chitarre (a cui anche lui stesso dà un solido contributo). Sarebbe stato un brano perfetto per i Nirvana, se Cobain lo avesse scritto. Young lo ha fatto per lui e lo dedica alla sua generazione, ai giovani che masticano rock ma che ancora devono conoscere la grande musica. “Act of love” ha un suono corale, totale, merito del missaggio di O’Brien ed è uno dei migliori brani di hard rock mai scritti da Young, perfetto per essere suonato dal vivo dai Pearl Jam (che, questo tengo a sottolinearlo, on stage sono micidiali) come dallo stesso autore.
“I’m the ocean” è un altro brano molto elettrico: lungo ed epico si adatta alla perfezione, anche lui, a diventare un centerpiece nelle esibizioni dal vivo. Come in un vecchio disco degli Stones la voce viene quasi oscurata dagli strumenti, ma le liriche sono forti e piene di significati reconditi come “Homeless heroes walk the streets of their hometown… the testimony of an expert witness…”, quindi intriganti ed addirittura epiche “I’m the ocean, I’m the giant undertow / I’m the ocea, I’m the giant undertow”. Come il precedente, anche “I’m the ocean” è un brano epocale, sono sicuro che sarà una delle colonne sonore della nostra estate.
Il suono poderoso dei Pearl Jam, lo ripeto anche a costo di nausearvi, è uno dei punti di forza del disco, un disco a senso unico, questo sì, ma forte e rigoglioso come una quercia millenaria. Abbiamo ascoltato solo tre canzoni e già ci troviamo di fronte a un album formidabile che ha la sua forza proprio nella sua unità di suoni: ascoltate il finale di “I’m the ocean”, con la voce di Neil che vibra, il piano di O’Brien che trilla in sottofondo e vi renderete conto che questo è un disco a tinte forti, uno di quelli che non si cancellano dalla memoria.
“Big green country” inizia con una distorsione di chitarra e quindi prende quota immediatamente: il brano è meno duro dei precedenti, Young sferza bene alla solista e i Jam mostrano di aver appreso la lezione dai maestri: fanno la band, solo quello, lo fanno con giudizio, mettendo al servizio del canadese un suono maschio, completo e molto equilibrato. Il brano, tipico del suo autore, scorre come un fiume in piena, trasportato nella corrente delle chitarre, forte e fiero.
“Truth be known” inizia col suono di una chitarra elettrica, la chitarra di Young. Il suo modo di suonare è unico e personale. “Saw your friend working in this hotel” canta Neil, “Say he used to know you when / in your dreams, lucky as they seem / they all turn their back to him, truth be known”. È una slow ballad, con una bella slide dietro le spalle (McCready), con un tempo molto cadenzato da una ritmica granitica: è una sorta di folk rock ante litteram, scritto per i vecchi fans, ma adattissimo anche per i neofiti. Nostalgica e piena di pathos, “Truth be known” è l’ennesima grande canzone del canadese.
La facciata due si apre con “Downtown”, un altro fiume in piena, che sfocia in una cascata di chitarre e prende corpo immediatamente. “There is a place called downtown / where the hippies all go” inizia a cantare Neil che descrive un posto dove gli hippies vanno a ballare il charleston: “Downtown” è un altro brano in cui si sente molto l’influenza dei Rolling Stones, in cui c’è l’essenza della musica rock, di quella vera ed unica, della grande musica. Potente e possente, “Dowtown” è un’altra canzone che dal vivo farà la parte del leone: è solida e piena di feeling, dura e grintosa, lascia spazio a lunghe jam chitarristiche ed ha un riff degno delle grandi rock songs dei sessanta, con la solista che ricama mentre le ritmiche continuano a ripetere il medesimo motivo. Il riff chitarristico, suonato di continuo da Neil e McCready, lascia spazio a liriche surreali in cui trovano posto persino i Led Zeppelin, “Jimmy’s playing in the back room, Led Zeppelin on stage, there’s a mirror ball twirling, and a note from Page”. Altro grande brano!
“What happened yesterday” è brevissima, solo trenta secondi, Neil ed un organo a pompa, un frammento di canzone, triste ed intenso.
“Peace and love” è un rock malinconico, sempre molto elettrico, che rammenta certe vecchie composizioni del canadese, “Peace and love, too young to die” inizia Neil, e gli fa eco una chitarra suonata sulle corde più basse, alla Duane Eddy per intenderci e, giusto nel mezzo, tastiere e la voce di Vedder che declama “I had it all once I gave it back, I gave it back”. È un inno contro il razzismo, contro l’odio di classe, contro l’idiozia generalizzata che sta condizionando sempre più questi anni novanta. Grandi riff chitarristici ed un motivo ricorrente fanno crescere di continuo la canzone e le danno quello spessore che solo una grande composizione si può vantare di avere.
“Throw you hatred down” (che in origine si intitolava “Throw your weapon down”) ricorda la furia con cui Young ha regalato nuova linfa a canzoni come “All along the watchover” di dylaniana memoria (e questo brano mi ricorda abbastanza quela immensa cavalcata chitarristica): scivola via sulle corde delle chitarre elettriche e si perde nei meandri di uno script sempre lucido e di una esecuzione da manuale, con un motivo centrale dove viene ripetuto più volte il titolo, immediatamente memorizzabile.
“Scenery” inizia con un assolo molto elegante e si sviluppa come un vecchio brano dei Drifters, una di quelle canzoni scritte da binomio Pomus-Shuman. Un cenno al piano, quasi fosse Nicky Hopkins (un altro punto di contatto con gli Stones) di O’Brien che ricama sul fondo. “Look at the grey, at the scenery around you / home of the brave, sometimes they leave you like they found you / sometimes they worship you / sometimes they tear you houses down”. In apparenza la canzone descrive il prezzo che bisogna pagare per avere fama e fortuna, ma, come tutte le canzoni di Young, c’è un forte fondo emozionale che traspare pesantemente sia dalla musica che nelle liriche.
“Fallen angel”, ancora Young solo con l’organo a pompa, è un brano breve e intenso, probabilmente dedicato allo scomparso Cobain, che richiama alla memoria un’altra canzone con lo stesso titolo che Robbie Robertson aveva dedicato alla memoria di Richard Manuel sul suo disco d’esordio.
Un disco di puro rock, esaltante e coinvolgente: un altro grande disco dell’intramontabile canadese. E con i Pearl Jam come bonus. 
Paolo Carù, Buscadero 1995


Qui da noi l'immagine di Neil Young ancora saldamente radicata nella mente di molti è quella del cantautore triste e solitario di Harvest (1972), del cantautore pacato e “nashvilliano” di Comes A Time (1978) o del vecchio bisonte che combatte la ruggine di Rust Never Sleeps (1979). tuttavia già nel corso degli anni '70 Young aveva ripetutamente cercato di ridefinire il proprio ruolo e la propria statura umana e artistica attraverso scelte radicali ed estreme, a volte tutt'altro che popolari (non dimentichiamoci che all'epoca della loro pubblicazione l'uscita di dischi ora osannati come Time Fades Away, On The Beach e Tonight's The Night furono salutati dal pubblico come dei funerali artistici del canadese). Poi per tutti gli anni '80, disco dopo disco, ha cercato di demolire riuscendoci tutta quella popolarità che gli derivava da un passato ormai così glorioso.
Quei pochi che ancora non si sono accorti che da quasi 7 anni a questa parte (un disco completo vario come Freedom merità di essere considerato uno dei suoi migliori di sempre) Neil Young non sbaglia un colpo, non hanno ancora capito che il canadese non è un personaggio facile, e che i dejà vu di Weld (1991, sulla falsariga di Live Rust di 12 anni prima) e, ancor più, di Harvest Moon (1992) altro non erano ce debiti nei confronti del passato nonché sfide personali irrinunciabili («ogni sette anni circa sento il bisogno di fare un disco 'perfetto', solo per dimostrare a me stesso che sono ancora in grado di farlo»).
Il nuovo disco di Neil Young è il lavoro più compatto e unitario che abbia mai fatto, una nuova sferzata elettrica, potente e adrenalinica, ma non coi fidi Crazy Horse, bensì con uno dei gruppi più in auge del momento: i Pearl Jam.
Occorrerà forse fare ordine: Neil Young & Crazy Horse, fin dai tempi di Everybody Knows This Is Nowhere (1969), di Zuma (1976), di Rust Never Sleeps (lato B), di Life (1987, il primo disco che dava segni di un riemergere dagli anni '80, segnati da terribili tragedie personali e da un sempre imprevedibile e discutibile trasformismo artistico), fino ad arrivare alla definitiva resurrezione di Ragged Glory (1991) e del tour seguente (da cui nascerà Weld), hanno messo a punto un marchio sonoro inconfondibile ed entusiasmante, basato su lunghe cavalcate chitarristiche e infuocate e sanguigne jam session di puro rock 'n' roll. Un discorso a parte lo merita Sleeps With Angels, il disco dell'anno scorso coi Crazy Horse, composto (in gran parte) da canzoni nate dall'onda emotiva derivante dalla tragica morte di Kurt Cobain (che Neil ha pubblicamente ringraziato nel discorso alla cerimonia della Rock 'n' Roll Hall of Fame di qust'anno, «per aver rinnovato la mia ispirazione»), e caratterizzato (come del resto tutti i capolavori di Young) da una fortissima impronta personale e intima. Il suono sano e sofferto di quel lavoro così poco “commerciale” eppure così intriso di disarmante sincerità lo configura come il corrispettivo anni '90 di Tonight's The Night.
Significativo il fatto che proprio questi anni '90 abbiano definitivamente sancito il suo riconoscimento da parte di gruppi che si erano posti in una posizione di rottura nei confronti del passato: non deve stupire più di tanto che Young venga osannato da gruppi cardine della scena del rock (ormai-non-più) alternativo di questi anni come Sonic Youth, Pearl Jam, Soundgarden, Therapy?, Social Distortion, Dinosaur Jr., Grant Lee Buffalo e altri, se si pensa che già nel 1978 Neil Young improvvisava jam session coi Devo (l'evento è documentato su Human Highway, il film la cui pubblicazione è stata rinviata a fine anno, ma ricordiamoci che è stato girato tra il 1978 e il 1982). nel 1989 in uno dei più significativi (e dei primi) album-tributo, The Bridge, molti esponenti del cosiddetto “nuovo rock” si cimentavano col repertorio del canadese, attribuendogli un riconoscimento fino a quel momento impensabile. Non dimentichiamoci che oggi Neil Young ha 50 anni. Quest'uomo era a Woodstock (anche se in effetti non si è mai riconosciuto molto nella filosofia hippie e in tutto ciò che quel festival ha rappresentato), ne ha passate di ogni (malattie, droghe, disastri sentimentali, tragedie familiari), ma suonava il cosiddetto “grunge” ben 20 anni prima della moda inventata dai media (col loro bisogno di catalogare e triturare ogni espressione, anche la più sfuggente e meno inquadrabile).
Sinceramente non mi ha stupito più di tanto sentire che il suo nuovo album sarebbe stato in compagnia dei Pearl Jam, una delle più grandi e coerenti band degli anni '90, coi quali c'erano già state delle precedenti frequentazioni (i Pearl Jam hanno avuto per anni in repertorio “Rockin' In The Free World” e hanno fatto diverse tournée col “nonno”).
Ascoltando Mirror Ball (bella anche la grafica in stile “psichedelico”) ci si rende conto che c'è ben poco da ironizzare sul gap anagrafico-generazionale, Neil Young & Pearl Jam sono da sempre in sintonia e si incastrano perfettamente l'uno nell'altro, come se da sempre la band di Seattle fosse il gruppo di Young.
Gli undici brani di Mirror Ball (tutti scritti da Young, prodotti da Brendan O'Brien o suonati dal vivo in studio) sono i diretti discendenti del Neil Young di Times Square (la parte elettrica di Freedom) e Ragged Glory, ma hanno in più il fatto di essere, dal punto di vista compositivo, anche superiori a questi.

Seppure in un paio di episodi i Pearl Jam (Jeff Ament al basso, Stone Gossard e Mike McCready alla chitarra e il nuovo batterista Jack Irons) abbiano quell'andamento “storto” e bislacco proprio dei Crazy Horse (come nell'iniziale valzer sgangherato tipicamente younghiano di “Song X” e nei magici otto minuti e trenta di “Scenery”), per tutto il resto del disco la band ha quel tiro, quella potenza e quella freschezza che i Crazy Horse non hanno mai potuto e voluto avere. “Act Of Love” è un magma sonoro incandescente che termina con quell'esasperata ricerca del feedback finale che già aveva contraddistinto Ragged Glory. Per tutto l'album (registrato a Seattle in soli quattro giorni a fine gennaio) la voce di Young è spesso in secondo piano e le tre chitarre elettriche impazziscono inseguendosi e ridisegnando un rock 'n' roll sporco e ruvido sempre condotto dal solismo viscerale e lirico del canadese.
“I'm The Ocean” e “Throw Your Hatred Down” sono lunghi, impetuosi e galoppanti coi Pearl Jam lanciati come una locomotiva a tutta velocità: sono due brani che riportano alla mitica “Like A Hurricane” e che, a tutti gli effetti, sono dei manifesti sonori di grandissima intensità. Brendan O'Brien ci aggiunge ance una pianola impazzita nel background e, specialmente in “Throw Your Hatred Down”, la chitarra di Young, in assolo, sembra posseduta, disegnando grandiosi scenari sonori. Quintessenza del rock. Capolavori.
Stesso discorso per “Big Green Country”, un grande brano che scorre con impeto e che presenta una melodia del cantato leggermente più complessa e meno immediata. Dopo diversi ascolti decolla.
“Truth Be Known” è lenta, lirica e maestosa, con la chitarra a condurre e il timbro vocale di Young sotto registro, mentre “Downtown” (sarà anche il singolo) è un brano molto stonesiano, con un riff alla Keith Richards (Young è sempre stato un fan degli Stones) che lo rende un po' banale e ripetitivo, ma comunque molto divertente. “What Happened Yesterday” è solo voce e organo a canne (lo stesso con cui aveva rifatto “Like A Hurricane” in Unplugged) e dura meno di un minuto. La voce è rotta, esile, altissima e la melodia cita “Big Green Country”. Poi arriva il diluvio sonoro di “Peace And Love”. Un medio tempo su cui si innesta anche la voce di Eddie Vedder (finora relegato ai cori, scrive anche un pezzo del testo). Anche qui Neil si accanisce sulla chitarra e fa finire il brano con un esasperato feedback di quasi un minuto. La coesione tra lui e il gruppo è totale, e anche questo brano finisce per farci sognare la versione che potrebbero proporre insieme dal vivo (attenzione: è annunciato un concerto con i Soundgarden al Reading Festival il 26 agosto: chissà che anche qui da noi...).
Su “Scenery” le tre chitarre si rincorrono e si incrociano mentre sullo sfondo il piano di O'Brien (molto hopkinsiano) ricama intrecci impossibili. Poi la tenue e sofferta conclusione di “Fallen Angel”. Ancora un minuto e mezzo di organo a canne e voce che richiama la melodia di “I'm The Ocean”.
Mirror Ball finisce così, con una lunga nota desolata, dopo quasi 55 minuti di rock allo spasimo. Tutto è perfetto: Neil Young è al massimo (o meglio, a uno dei suoi massimi) livelli di forma e creatività e i Pearl Jam si confermano come una tra le migliori rock band in circolazione. Il risultato di questa combinazione esplosiva è un disco strepitoso, mentre già si vocifera di un probabile album (questa volta dal vivo) testimonianza dei concerti che dovrebbero fare insieme questa estate.
The “kids” are alright.
Rock 'n' roll can never die. 
Marco Grompi, Buscadero 1995

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