Antonio Lodetti
SOFFIA IL VENTO DI NEIL YOUNG: PRAIRIE WIND, UN ALBUM TRA RICORDI, DOLORE E FEDE
C'è una densità così vischiosa di strumenti e dinamiche diverse (archi, armonica a bocca, fiati) che riesce difficile comprendere (cioè racchiudere con la mente) anche le canzoni più semplici. Ogni singolo brano richiede più e più ascolti.
I musicisti coinvolti fanno parte della schiera dei fuoriclasse del soul/rock/country: Emmylou Harris, Spooner Oldham, i Memphis Horns e Ben Keith, produttore dell'intero disco insieme all'artista canadese.
”The painter” apre il disco ed è dedicata alla figlia di Neil, una pittrice. «Se segui ogni tuo sogno/ finisce che ti perdi», canta lui, ma lo fa senza rimproverare nessuno. Il perdersi in questo caso significa uscire dalle convenzioni e da valori dominanti ma non condivisi.
Riascoltando la voce di Neil si capisce da chi sono stati influenzati cantautori e gruppi americani come Ryan Adams, Elliott Smith, W.E. Whitmore e Mercury Rev. “No wonder” parte come una ballata scozzese ma poi si trasforma in un brano rock molto drammatico.
Difficile non emozionarsi quando canta «Me ne sto sotto la pioggia/ il mio cappotto è stracciato/ le tasche sono bucate/ e mi sto allontanando dal dolore».
A sostenere la sua voce di carta velina c'è un coro robusto ma Young potrebbe far saltare il tetto (come si dice dei potenti cantanti gospel) anche da solo. E lo fa in “Falling off the face of the earth”, un messaggio d'amore alla sua donna che culmina in strofe romantiche: «Può sembrare una frase semplice/ ma tu per me sei il mondo/ è una cosa così preziosa il tempo che passiamo insieme/ ti chiedo scusa per i momenti turbolenti».
”Far from home” è un ricordo dell'iniziazione alla musica, con suo padre che suonava la chitarra, lo zio Bob al piano e le cuginette ai cori. Neil, per celebrare la bellezza di quei momenti, costruisce su questo ricordo un brano r'n'b come neanche il miglior Bruce Springsteen potrebbe scrivere.
”It's a dream” si materializza in un mattino in cui ci si sveglia e si cerca di «ignorare quel che dicono i giornali», rifugiandosi nei ricordi. E poi le altre canzoni di un disco che cresce, ascolto dopo ascolto: “Prairie Wind”, “Here for you”, “This old guitar”, “He was the king”, dedicata ad Elvis, e “When God made me”, critica verso le religioni. Young chiude con una serie di domande: «Quando Dio mi ha fatto/ pensava alla mia nazione o la colore della mia pelle?/Ha fatto il mondo solo per i credenti?/ Le vede tutte le guerre che vengono combattute in suo nome?/ Mi ha dato la voce perché qualcuno potesse ridurmi al silenzio?».
Giulio Brusati
Vento di vita nel nuovo Neil Young
A rivelargli che le cose non andavano fu un simpatico neurologo cinese, il dottor Sun. Neil Young si era allarmato perché, facendosi la barba, si era scoperto afflitto da una sorta di sinistro bagliore nel fondo dell'occhio. Il dottor Sun, con quel suo nome da film di serie B, gli disse la verità: «Lei ha un aneurisma al cervello, e dovrà essere operato». Così, nell'aprile scorso, il quasi sessantenne musicista canadese affrettò i tempi per la realizzazione del suo nuovo album: volò a Nashville per registrare tre canzoni, tornò a New York per gli esami clinici preliminari, poi di nuovo in studio, nella capitale della country music, per completare l'opera. Una volta in sala operatoria, tuttò sembro filare liscio. Salvo che due giorni dopo, alla prima passeggiata di prova attorno all'ospedale, Young cadde al suolo svenuto, in un lago di sangue, con l'arteria femorale saltata di colpo, e pochi minuti davanti per farsi rattoppare la pellaccia. Così, non è esagerato parlare di rinascita, letteralmente, per un uomo che, artisticamente, di vite ne ha avute molte. Pagando sempre con dignità il suo debito con la cattiva sorte (due dei suoi figli sono affetti da gravi patologie cerebrali, il più giovane tra loro è quadriplegico) e rifiutandosi di aderire - proprio lui che ne era stato l'autore - a quel comandamento suicida del rock che vuole che sia «meglio bruciare in fretta che declinare a poco a poco»: quel verso di “Hey hey my my” che Kurt Cobain aveva lasciato accanto a sé prima di spararsi in bocca. No, in un anno che è stato fra i più drammatici per lui (mentre era ancora in convalescenza ha visto morire l'adorato padre Scott, un ex grande giornalista sportivo, afflitto negli ultimi tempi da demenza senile) Neil Young recapita speranza e conforto a tutti i vecchi ragazzi della generazione hippie, che temono l'incanutimento come una maledizione. Perché questo suo nuovo Prairie Wind è un capolavoro assoluto, uno dei quattro o cinque dischi migliori della sua sua monumentale produzione, all'altezza del leggendario Harvest (o del più recente Harvest Moon) di cui pare l'ideale continuazione, a decenni di distanza. In Prairie Wind, che arriva dopo l'ambizioso progetto di Greendale (il magnifico disco-concept sulla vita di una immaginaria cittadina californiana, divenuto poi un film) c'è lo Young più amabile: quello che mette al bando sperimentazioni coraggiose - ma spesso discutibili - per tuffarsi a volo d'angelo nelle acque del suo purissimo talento folk-country-rock, quello che negli anni Settanta illuminò la scena della West Coast affollata di fragili utopie. Dieci canzoni dove Neil cita se stesso, ma senza scimmiottarsi: e l'armonica sembra tornata quella di “Heart of gold”, l'arpeggio di chitarra quello di “Old man” o “The needle and the damage done”. Con la voce - quel suo inimitabile lamento, che davvero entra nelle ossa come un vento delle pianure canadesi - a evocare con pochi tratti l'immensità del mistero americano, dove l'anima si perde tra l'illusione del Grande Sogno Occidentale e la pretesa di un'adesione ai segreti della natura - quelli che gli indiani, prima e meglio dei bianchi, avevano saputo decifrare. In Prairie Wind c'è tutto questo, oltre alla nostalgia (ma come purificata, mai velenosa) per i tempi dorati dell'innocenza, quando la famiglia era buona coperta contro ogni paura. C'è il consiglio alla figlia pittrice in “The Painter” («Se insegui ogni sogno, potresti perderti...», canta Neil), e la coscienza civile in “No Wonder”; le cartoline dall'infanzia in “It's a Dream” o nella title-track; l'amore offerto in “Here for you” e quello ricevuto in “Falling off the face of the Earth”: nata, quest'ultima, da un affettuoso messaggio telefonico che un suo amico gli aveva lasciato, prima dell'intervento chirurgico. E rapinoso è il tempo lento, sospeso di “This old guitar”, così come rabbioso il gospel per il Dio politicizzato dai governi in “When God Made Me”. Con arrangiamenti scheletriti come in una radiografia del suono, ma ancora spaziosi (e si sente la mano del vecchio sodale Ben Keith): con gli archi sobriamente piazzati qui e là, qualche rara spazzolata di fiati soul dei Memphis Horns, o la voce incantata di Emmylou Harris, per sostegno.
Stefano Mannucci
NEIL YOUNG, SOFFIA FORTE IL VENTO DELLA PRATERIA
Si dice che nell'arte la sofferenza riesca a tirar fuori la migliore ispirazione, che assieme alle lacrime sgorghino perle. Sarà anche un luogo comune, ma nel caso di Neil Young il dolore ha levigato l'ennesima gemma di un autore destinato all'eterno: Prairie Wind. Un album a cui Neil ha cominciato a lavorare nel ricordo del padre Scott, scomparso di recente, interrompendo poi la fattura delle canzoni per sottoporsi alla terapia con cui arginare lo spettro di un aneurisma cerebrale. Il vento della prateria soffia come uno spirito inquieto tra le dieci canzoni che il grande canadese ha cesellato a Nashville, circondato dall'affetto della figlia Pegi e di una famiglia allargata di musicisti: il chitarrista e coproduttore Ben Keith, il suonatore di hammond Spooner Oldham, Rick Rosas al basso, il "fiddler" Clinton Gregory, l'ospite Emmylou Harris, gli ottoni dei Memphis Horns... Un lunghissimo elenco di persone care a Neil ha contribuito a Prairie Wind. È questo il tema di The Painter, l'unica canzone che Young ha in valigia quando arriva ai vecchi Monument Studios, oggi ribattezzati Master Link, all'inizio delle session. La "pittrice" è Pegi, che "raccoglie i colori nell'aria", gli amici di sempre lasciano la loro traccia "nel suono, alcuni sono con me, altri non sono stati più trovati...", perché "se insegui ogni sogno puoi anche perderti...". L'atmosfera bucolica di “The Painter”, in cui centrale è l'acustico fingerpicking, mentre attorno echeggiano l'hammond di Spooner Oldham e la pedal steel di Keith, induce a un collegamento con quella lontana immersione di Neil Young nel country rock targata Harvest e Comes A Time. Anni Settanta, l'intimità di quei dischi rappresentava il ritiro di Neil dalla trincea del decennio precedente, durante il quale il "movement" aveva marciato anche sulle note di “For What Is Worth” dei Buffalo Springfield. Anche Prairie Wind racconta di un ritiro. Più che al precedente Greendale, il nuovo album si riaggancia al finale di Are You Passionate?, il disco post 11 Settembre di Neil Young, la quiete dopo la tempesta, racconto sonoro dell'innocenza perduta dell'America chiuso da una sorta di ritorno a casa. Il nuovo ritiro di Neil comincia dunque con la celebrazione del rassicurante nido affettivo e prosegue nei testi successivi in un fluire di immagini immerse in un pagano misticismo che riporta alla colonna sonora di Dead Man, quando Neil Young si ritrovò al cospetto del poeta William Blake. Particolarmente "cinematica" “No Wonder”, complesso incastro di chitarra acustica e slide, piano elettrico wurlitzer e cori solenni per tessere il mood drammatico che avvolge la ricorrente immagine di una chiesa, i rintocchi di una campana, la sposa che attende l'anello e la bara del soldato caduto, ricordi giovanili di una caccia leale e il senatore corrotto che autorizza scempi sull'ambiente e intasca i soldi. Nel mezzo, l'inno alternativo America The Beautiful e le parole di Rick Rock dopo la tragedia delle Torri: "Non mandate altre candele...Poi Willie smise di cantare e il vento della prateria soffiò...". La prateria, zona franca della memoria in cui il bufalo continua a correre libero e selvaggio. È lì che Neil incontra suo padre sulle note di un R&B in cui l'armonica del cantautore si scontra con i fiati dei Memphis Horns di Wayne Jackson. La canzone è “Far From Home”, Neil ricorda le parole di papà Scott quando, bambino, lo teneva sulle ginocchia: "Seppelliscimi nella prateria...non sarò troppo lontano da casa...". La prateria resta nel cuore del giovane Neil quando si spinge "lontano da casa", nella sua discesa dal Canada al Tennessee, verso la terra promessa del rock'n'roll. Finché il misticismo delle verdi distese trova la sua definitiva esaltazione in “Prairie Wind”, ipnosi di strofe cicliche intervallate da un ritornello strumentale, ancora fiati, cori femminili, armonica e chitarra acustica. "Cerco di ricordare cosa disse mio padre...c'è un luogo nella prateria dove il male gioca con il bene, papà mi disse tutto di quel luogo ma non ricordo una parola...potrebbe essere al pomeriggio oppure alla fine della notte, ma capirai di esserci arrivato perché sarà una visione d'inferno...". Lo sguardo torna all'oggi e si cambia atmosfera con Here For You, solare ballata country tutta armonica, pedal steel e arpeggio acustico, che Neil dedica alla figlia Pegi. Come dolcissima è “Falling Off The Face Of The Earth” è ispirata da un messaggio lasciato sulla segreteria telefonica di Neil. "Vorrei solo ringraziarti per quanto hai fatto, ho pensato molto a te e volevo farti arrivare il mio amore...". Devozione e amore. "Il resto del testo è l'altro lato del messaggio - dice Neil - un punto di vista differente. Le ho messe insieme e il risultato è più di un messaggio telefonico. È un messaggio...". Il valzer “It's A Dream”, sussurrato da Neil con celestiale tremolo su pianoforte e pedal steel sottesi da un arrangiamento d'archi, ricorda la struggente “Philadelphia” ed affronta la labile linea di demarcazione tra incubo e realtà. Le news possono essere un brutto sogno, ma è "solo" un sogno il fiume rosso che "attraversa la mia città...dove un ragazzo pesca il giorno, la bici poggiata contro un albero...solo un ricordo che non sa più dove appigliarsi...". “This Old Guitar”, immortalata nel libretto dalla foto della chitarra acustica "Hank", è un country folk crepuscolare che Neil canta con registro insolitamente basso e atteggiamento dimesso. La precarietà della condizione umana, la coscienza del tempo che scorre verso l'inevitabile fine, si esprime nella missione di "Hank": accompagnare lo storyteller nei suoi viaggi lungo le strade polverose, entrando e uscendo dalla sua custodia, finché un giorno la chitarra non passerà in altre mani, "messaggera di paura o speranza...". Prairie Wind finisce idealmente a questo punto, con una dichiarazione di resa individuale e allo stesso tempo di speranza nelle generazioni a venire, che dovranno imbracciare quella chitarra e tenere gli occhi bene aperti sul mondo. A loro Neil indirizza due brani in "appendice". “He Was The King” è un tributo a Elvis. Accordi scorticati dal plettro si fondono con la sezione fiati, mentre un coro gospel soul enfatizza le gesta del Re: "L'ultima volta che l'ho visto...". Elvis, sintesi vivente di bianco e nero, country e blues, folk e R&B, frutto del peccato originale del rock'n'roll, rivive in una sequenza di flash che lo descrivono nei suoi momenti di gloria. Un mito non muore finché qualcuno è in grado di ricordarlo così. Come il bufalo, che in quella zona franca del cuore continua a galoppare nella prateria. Reso omaggio al Re, Neil chiude Prairie Wind mettendo a confronto l'operato di Dio e il fondamentalismo religioso, ovunque esso si annidi. “When God Made Me” è una preghiera scandita dalle note liturgiche di un pianoforte. Neil canta una strofa, il coro lo segue nel ritornello: "Quando Dio mi ha fatto...pensava al mio Paese o al colore della mia pelle?...Ha creato solo me a sua immagine o anche ogni altra cosa vivente?...Mi ha dato il dono della voce perché qualcuno possa indurmi al silenzio?...". Il riferimento all'integralismo cattolico "domestico" è più che evidente. "Una delle cose che mi infastidiscono oggi - ha dichiarato Neil a proposito del brano - è come la religione sembri essere manipolata e politicizzata dai governi. E quella che più mi dà fastidio è come un partito politico possa affermare che un altro partito non si basi sulla fede. Come si fa a dirlo? Penso che non rappresenti l'America, ma solo una parte di essa. Credo che la fede abbia più a che fare con la famiglia e con l'amore verso Dio. Non importa se leggi il Corano o se sei buddista...L'importante è cercare di entrare in contatto con ciò che ci ha creato, cercare di capire chi siamo...Il grande spirito...". Il vento soffia ancora nella prateria...
Paolo Gallori
La prima notizia da segnarsi è questa: battendo ogni record, Neil Young ha deciso di rinnovare il suo contratto discografico con la Reprise, la label con cui incise il suo debutto nel 1969 e che lo sostenuto nella creazione di capolavori come Harvest e After The Gold Rush. Non è un particolare da poco: Neil era alla ricerca dell'ennesima rinascita. Nella sua carriera, a filotti prodigiosi di vere e proprie pietre miliari succedono immancabilmente opere meno brillanti. Dopo uno strepitoso ritorno di fiamma all'inizio degli anni Novanta, culminato con il nostalgico Harvest Moon nel 1992, la stella del nostro sembrava di nuovo - al giro di boa del terzo millennio - in via di appannamento. Il problema di Neil è questo: dopo trentacinque anni di songwriting non c'è più nulla da inventare e il rischio del deja-vu è altissimo. Lui l'ha capito benissimo e ha deciso di giocare a carte scoperte. Invece di mascherare i rimandi alla sua monumentale opera omnia, puntualmente se ne esce con un album che è costruito dichiaratamente alla maniera di uno dei suoi tanti masterpiece. Così è anche per Prairie Wind, che va a completare un'ideale trilogia realizzata nella bellezza di trentatrè anni, partendo da Harvest (1972) e passando per Harvest Moon (1992). Sono i lavori più bucolici e acustici del grizzly canadese, creati con team aperti di musicisti che travalicano la consueta logica della rock band. Neil si è circondato di alcuni straordinari session man come il pedal-steel guitarist Ben Keith, il drummer Chad Cromwell e una delle vocalist più raffinate della scena country, Emmylou Harris. L'opening track "The Painter" è una ballata West Coast, che stordisce per i sorprendenti impasti vocali che riaccendono addirittura la leggenda di CSN&Y: mai Neil si era spinto sino alle origini del suo mito come stavolta. In "No Wonder" le chitarre hanno una profondità nuova, desertica, mentre viene esplorata una complessità ritmica inedita, fatta di ritmi spezzati, riprese, tempi jazzati. E la chiusa è affidata a un trio mozzafiato di acustic & electric guitar più un violino dai densi umori country."Falling Off The Face Of The Earth" è un episodio quasi spoken, in cui Neil si avventura sulle tonalità spericolate e scricchiolanti dei blues lacerati di "On The Beach". La titletrack viaggia su di un mood più urbano che pastorale, con svisate di fiati e note blu scarnificate. Il pezzo più accessibile è "Here For You", la classica hit drivin' hard che spopolerà sulle country station di mezza America. La sorpresa invece è costituita dall'arrangiamento quasi da big band di "Far From Home", in cui la crooning armonica del Signor Young giganteggia da par suo. Un saggio formidabile di canzone americana, di quelli da studiare nei libri di testo.
mtv.it
Antonio Orlando, Musica e dischi
Non gli perdoneremo mai d'aver fatto dischi tanto belli che ci hanno cambiato così tanto la vita. È forse per questo che “It’s A Dream” - toccante ballata a base di piano e voce con sfondo d’archi e slide - ci sembra solo una canzone malinconica come tante? In parte, sì. D’altra parte, però, c’è un senso d’inevitabile nella lunga vicenda artistica di Neil Young, da oltre quaranta anni alle prese con un folk-rock che s’immischia di blues e psichedelia, di tradizione e delirio. C’è che quel giovanotto di tanto tempo fa aveva lo sguardo ficcato nell’orizzonte senza quiete dei sixties, era schiacciato da una visione assieme apollinea ed apocalittica della Natura, dal modo in cui vedeva la passione manifestarsi negli uomini (insensata, febbrile, cieca). Quel ragazzo, con tutto il suo essere epilettico e allucinato (e intossicato), con la sua folle sensibilità, era capace di creare quadretti magici e terribili, appesi ad uno smarrimento senza requie, indifesi - sì, indifesi - nella stretta tra cuore e Storia, tra cuore e Destino, tra cuore e Uomini. Poi il ragazzo è cresciuto, ed è stato altro: il cugino campagnolo tra fienili e falò, il fratello maggiore con la ruggine che gli divora l’anima, lo zio saggio del punk-rock… Ok, è stato molte cose, il vecchio Neil. Il quale non ha saputo - nessuno può fargliene una colpa - scampare alla condanna della maturazione prima e della senilità poi. E neppure - ahilui - evitare l’oltraggio di un pericoloso aneurisma, nel marzo scorso. Oggi, con la chioma incanutita e senza governo, le spalle più curve e larghe, lo sguardo aguzzo e nero, deve fare i conti con un orizzonte - se non più chiaro - più breve, e in ogni caso meno spaventoso, perché si finisce per accettare ogni insidia, per digerire i lutti (il padre Scott è morto nel giugno scorso) e i misteri. Questo è il punto: Neil Young, oggi, accetta che le proprie emozioni si compiano, si esauriscano, si esaudiscano. Non le lascia sospese su sfondi indecifrabili - incubi di meraviglie minacciose - come accadeva in After The Goldrush (Reprise / Warner, agosto 1970) e On The Beach (Reprise / Warner, luglio 1974). Ci mette il punto, con mestiere quasi compiaciuto, come farebbe un folk-rocker qualsiasi. Magari è ancora capace di belle intuizioni, ma ce le consegna potabili, e quindi banalizzate. Ecco, la recensione di questo disco potrebbe finire qui, cogliendo ad emblema la sola “It’s A Dream”, che è una bella canzone e nient’altro, dove un rimpianto tremulo - appunto - si compie fino in fondo. Si compie troppo. Aggiungiamo qualche riga per inerzia, per sottolineare che: nel complesso si avverte il tentativo di puntare la barra tra l’errebì-soul di This Note’s For You (Reprise / Warner, aprile 1988) - la nostalgia inorgoglita di “Far From Home”, la title track che giochicchia con una tensione un po’ sgonfia - ed il country patinato di Harvest Moon (Warner, novembre 1992) - del quale ricicla spudoratamente riff e frasi d’armonica, come in “Here For You” e “This Old Guitar”; il ricamo degli arpeggi sulla slide cremosa è un piacere per le orecchie, ma non c’è da aspettarsi di meno dal sodalizio Young-Keith; la voce appare in forma, anche più tagliente rispetto agli ultimi lavori; “He Was The King” è uno dei più scontati omaggi al mito di Elvis che si siano mai uditi, tanto che un folk tenerello come “Falling Off The Face Of The Earth” è dieci, cento, mille volte meglio. È insomma il caso di volare - anzi di sognare - basso, come del resto ci avverte un amaro passaggio nella traccia d’apertura: "If you follow every dream/You might get lost". Tuttavia Neil non rinuncia a bazzicare i massimi sistemi e chiude la scaletta col gospel imbalsamato di “When God Made Me”, già sentita al Live 8, dove in qualche modo sembra opporre la propria religiosità "compassionevole" al neo-fondamentalismo dell'Impero: che dire, chapeau. Di questo disco, l’avrete capito, si può fare a meno. Tuttavia non si può detestare. O, almeno, non troppo.
Stefano Solventi, SentireAscoltare
Il rock ci insegna che dalla tragedia e dal dolore spesso nascono i miracoli: questa volta il triste giro nella giostra delle anime perdute è toccato a Neil Young. L'accoppiata di disastri accaduti al cantautore canadese avrebbe potuto stendere chiunque: in primavera gli viene diagnosticato un aneurisma al cervello che lo costringe a un'operazione d'urgenza; a giugno scompare l'amato padre Scott, gettando ulteriormente Neil in uno stato di prostrazione emotiva. Tutto sembra nero e inutile, senza senso. Neil passa ore e ore a riflettere sulla fragilità della vita, sulla famiglia e i suoi figli, la casa e le radici, la morte. Poi, come sempre, arriva la Musica e salva la situazione. Neil inizia a comporre, lentamente, prima, durante e dopo il ricovero all'ospedale di New York.
L'album che ha in mente ha bisogno della tranquillità della campagna, la rilassatezza dei cieli delle praterie di Nashville. Dovrà sussurrare, far riflettere e commuovere, ma senza il feedback e la potenza delle chitarre elettriche.
Lascia di conseguenza "nella stalla" i Crazy Horse e coinvolge un pugno di ottimi strumentisti, fra cui l'amico fraterno Ben Keith (dobro, slide e uno strepitoso lavoro alla pedal steel guitar) e il mitico tastierista Linden "Spooner" Oldham, sessionman di lungo corso. Tra le coriste, oltre alla moglie Pegi, svetta anche la bellissima sorpresa di Emmylou Harris.
Sono dieci le canzoni che compongono Prairie Wind, ventottesimo album in carriera, registrato interamente nella capitale del Tennessee: l'autore non lo ammette pubblicamente, ma quasi tutti ne parlano come del terzo anello mancante della trilogia country/folk/rock iniziata con Harvest (1972) e proseguita con Harvest Moon vent'anni più tardi. Il paragone è azzeccato, anche le circostanze: a pensarci pare macabro, ma a Neil capitarono disgrazie simili proprio durante quel primo capolavoro degli anni Settanta. Slittamento di un disco della colonna vertebrale e mesi di busto ortopedico per diverse ore al giorno. Neil che non riesce a sostenere il peso della chitarra elettrica: registra acustico a Nashville prima dell'intervento parecchio materiale che poi finirà su Harvest. Malinconia e solitudine bucolica dritte al numero uno delle classifiche americane.
Ma torniamo a noi, perché se quelle erano le insicurezze di un ventiseienne bruciato troppo presto da donne e fama, queste sono le riflessioni di un uomo maturo e adulto, un capo tribù ormai prossimo ai sessant'anni. Prairie Wind indugia sul tema del tempo che fugge via ed è dedicato, non a caso, al padre e ad alcuni amici musicisti perduti per strada. I brani, contraddistinti dall'infantile, cristallino songwriting dell'autore, sono proposti in rigoroso ordine cronologico: si parte in sordina, con il pigro andamento del singolo "The Painter", ricco di armonie vocali alla maniera di Crosby Stills Nash & Young, chitarre acustiche e svolazzi di pedal steel. Si sale pian piano, con l'apocalittica "No Wonder" e i cori femminili che si librano verso il cielo con il violino e la chitarra ad attorcigliarsi come serpenti. La tenera, leggerissima "Falling Off The Face Of The Earth" è un ringraziamento ma anche una lettera da condannato a morte, suonata con svagato piglio pop-country.
Si prosegue nel viaggio ed ecco i pezzi migliori: "Far From Home", un up-tempo country rock con sezione fiati, a metà strada fra i Lynyrd Skynyrd e il soul della Stax (non a caso vi suona Wayne Jackson, leader dei veterani Memphis Horns). Young si abbandona alle memorie del natìo Canada, del padre e della volontà di essere sepolto "dove vaga il bufalo".
"It's A Dream" è il culmine del pessimismo onirico del disco, un sortilegio fatto di archi, piano, organo e pedal steel. Il tempo pare sospeso, le atmosfere rimandano alle cose migliori registrate in coppia al genio di Jack Nitzsche, altro amico prematuramente scomparso. Il cuore del progetto è tutto in questa composizione eterea, in cui anche il quotidiano con le sue piccole storie viene messo in discussione: "It's only a dream and it's fading now/ fading away/ just a memory/ without anywhere to stay".
La title-track è invece l'altra faccia della medaglia: un numero di infernale western fuorilegge, tutto polvere e fango: sette minuti di ritornelli ossessivamente ripetuti dalle voci femminili, l'armonia e la chitarra acustica decisa e circolare, tutta tesa a distribuire rasoiate degne di Rust Never Sleeps. Fortunatamente torna il sereno e le nuvole scompaiono assieme a "Here For You", dolcissima dedica di un padre ai suoi figli, ormai indipendenti e lontani. C'è persino uno spazio per le dediche: "This Old Guitar" è un ode alla vecchia sei corde di Hank Williams, suonata e raccontata da Neil con tutto il doveroso rispetto reverenziale. La voce si arrochisce e si abbassa di tonalità, mentre la chitarra tratteggia mini citazioni dal riff base di "Harvest Moon".
Il secondo omaggio, "He Was The King", è ovviamente per Elvis Presley, figura mitologica e metafora di innocenza rock perduta. "When God Made Me" chiude le pagine del disco con un'inaspettata virata verso il soul-gospel: pianoforte e organo hammond, donne e uomini insieme per un canto corale che è un invocazione a Dio e insieme messa in discussione di alcuni capisaldi religiosi fondamentali. Il pathos raggiunge l'apice proprio quando il disco è finito, lasciando ancora col fiato sospeso.
Neil Young è lontano come sempre, lontano più che mai: dalle mode, dalla politica dei giochi di potere, dall'industria e dal business. Quando le cose della vita si complicano, ama allontanarsi dalla pazza folla, rifugiarsi là dove nessuno può trovarlo, per poi raccontare tutto con la chitarra e le canzoni. E noi lì ad ascoltarlo, adesso come trent'anni fa: di nuovo abbracciato alla campagna, tra bufali, ricordi e cieli nella prateria.
Ariel Bertoldo