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Freedom - Rassegna Stampa


Neil Young è tornato tra noi.
This Note's For You lo faceva presagire, ma era troppo presto per capire se il mutevole canadese non ci avrebbe propinato il solito bidone, dopo averci illuso con un disco di buona fattura. Freedom è un buon disco, anche se Neil qui e là vuole strafare, o, ancora meglio, non vuole accontentare più di tanto i suoi fans.
Mi spiego.
Young fa capire di essere quello di una volta, di sapere mettere assieme delle belle canzoni, delle liriche intelligenti, di fare un discorso gustoso, con pochi strumenti, senza particolari arzigogoli, ma nel contempo, ci dà dentro come un matto in almeno tre canzoni, alzando il distorsore a volume disumano, come per dire “state in campana, adesso suono così, domani...”, quindi arrangia un brano come “Someday”, una composizione indubbiamente accattivante, in modo bizzarro.
Già il fatto di avere cambiato il titolo giusto qualche giorno prima della sua uscita sul mercato è sintomo di confusione creata ad arte per lasciare l'ascoltatore perpetuamente insicuro sulle proprie future mosse.
Eppure Freedom è un buon disco, ha almeno tre canzoni di ottimo livello, una serie di ballate gradevoli, un paio di rock scatenati, ed un brano spagnoleggiante molto azzeccato.
“Eldorado”, vecchio titolo del disco, è il brano in questione, dove Neil riprende la sua ricerca del mito latino-americano (già sperimentata in “Cortez The Killer”, “Inca Queen” e “Like An Inca”) ed è una ballata di vago sapore latino, con echi di Messico, una melodia accattivante ed un fragoroso scoppio chitarristico finale. Grande canzone è la lunga “Crime In The City (Sixty To Zero part I)”, in cui chitarra acustica, steel guitar e sezione ritmica duettano in continuazione su un tema melodico indovinato: era da parecchio che Neil non ci dava un brano di questa sostanza (come d'altronde la stessa “Eldorado”).
Oltre a questo titolo anche l'apertura acustica di “Rockin' In The Free World”, la chiusura elettrica e roccata di “Keep On Rockin' In The Free World”, la cover di “On Broadway” (vecchio hit dei Drifters), reso in modo poco usuale, molto innovativo, con quel finale duro e furioso, “Someday”, ballata atipica, con arrangiamento a base di tastiere, archi e voci, ma molto coinvolgente, sono brani di qualità superiore.
Poi c'è il canadese che conosciamo di più: “Hangin'”, acustica, stile “Comes A Time”, con un bel controcanto femminile, “The Ways Of Love”, dolce, elettroacustica, sempre con doppia voce e splendida armonica finale, “Too Far Gone”, con chitarre acustiche e steel in evidenza, una ballatona che richiama Harvest, però molto piacevole.
Ma anche il resto del disco vale, dalla dura e distorta “Don't Cry” a “Wrecking Ball”, molto pianistica, alla lunga “No More”, con una bella chitarra in evidenza, una batteria granitica e un assolo finale penetrante, tipico brano destinato alle jam dal vivo.
Freedom è un disco intenso, lungo (quasi un'ora), chitarristico (ma non nel senso dei vecchi lavori con i Crazy Horse, in quanto la chitarra passa dalla cristallinità del suono acustico alla cupezza di una elettrica distorta al massimo) pieno di idee, innovazioni, egocentrismi, momenti esaltanti e attimi di confusione. Sembra proprio che Young sia tornato: con la sua musica geniale ma mutevole, con i suoi umori, ma, sopratutto, con le canzoni, perché Freedom è finalmente composto di canzoni, come da tempo Neil non ci dava.
Paolo Carù, Buscadero 1989

Esauriti gli argomenti di indagine sui generi musicali di cui è capace, Young si riallaccia finalmente alla sua matrice naturale. Freedom è il primo album senza forzature dai tempi di Rust Never Sleeps, ed è una gioia di disco, appassionato, persuasivo, spigliato. Ancora prodotto dai Volume Dealers, registrato in tre diverse occasioni con una quantità di musicisti, si apre con una versione solitaria di “Rockin' In The Free World”, ripresa in chiusura con la band al completo proprio come era successo con “Hey Hey, My My”, e prosegue alternando pezzi rauchi, altri acustici e altri ancora di rock-blues fiatistico, con qualche cedimento a livello di arrangiamenti (i campanellini svenevoli di “Someday”), ma pure una nuova, tangibile energia interna. C'è “Eldorado”, che avrebbe intitolato un ep giapponese, c'è la cover di “On Broadway”, classico di Mann&Weil/Lieber&Stoiler, e c'è la pianistica “Wreking Ball”, di una nudità disarmante. In tanta abbondanza, Freedom riesce a non smarrirsi, riportando Young a casa, pronto per ripartire da lì. 
Mucchio Selvaggio Extra 2004


Freedom rappresenta l'album con cui Neil Young, storico e solitario rocker canadese, si è ripreso dopo un momento di grande trsitezza, di solitudine interiore e di mancanza di album. Libertà, Neil Young e la libertà, Neil Young è la libertà che in questo album sembra completamente dissolversi e unirsi con enfasi alle note della sua chitarra acustica. Nonostante questo il disco contiene diverse canzoni più miranti a mettere in luce la disastrosa situazione sociale del Nord America come è da esempio la seconda traccia “Crime In The City”, caratterizzata da suoni più aspri e non più da quella voce che Neil Young utilizzava per trascinare le folle attraverso sentieri illuminanti.
Lo stesso vale per la successiva “Don't Cry” che si apre con suoni parecchio pacati tra i quali spicca l'acuta voce del cantautore canadese che a sua volta viene travolta da dall'aggressiva entrata delle chitarre, le quali rendono al meglio l'effetto di bombe che scoppiano, come se ci fosse una guerra sul palcoscenico. Oltrepassando la quasi insignificante “Hangin On a Limb”, passiamo direttamente ad una canzone dove Neil Young dimostra perfettamente di riuscire a riportare nelle sue composizioni influenze esterne al suo mondo e alla sua visione musicale: “Eldorado”, fantastica canzone, emotiva, curata e particolare; un passaggio meraviglioso attraverso idee e suoni inesplorati. Dopo la parentesi aperta con “Eldorado”, Neil Young preferisce ritornare ai suoi schemi compositivi più classici, sullo stile delle precedenti, con “The Ways Of Love”, “Someday” e “Wrecking Ball”, song che non eccedono per stile ed emozioni ma grazie a lyrics studiate e perfettamente abbinate alla canzone, il risultato sembra completamente un altro. Diversa ancora “On Brodway”, su uno stile più bluesettaro e gettonato, a significare che Neil Young cerchi nel suo album una varietà che renda l'album più ascoltabile, cosa che mancò al precedente Life del 1987, disco poco considerato sia da critica che da pubblico.
Neil Young riesce ad accrescere l'album immettendo in esso altri due canzoni fantastiche come “Too Far Gone”, ma in particolare l'omonima “Freedom”, caratterizzata da sonorità particolari ed emotive, a tratti strazianti, a tratti enfatiche. La vena più rockeggiante del cantautore canadese si fa sentire, le composizioni sono più accattivanti e curate, più trasgressive e attiranti. Un attimo di respiro prima di arrivare alla nota finale e conclusiva di quest'album. Non è stata ancora citata l'introduzione dell'album e senza di essa nemmeno la conclusione verrà mai considerata.
Mancano il capoverso e l'ultimo capitolo di un libro di storie ed emozioni. Si tratta della stessa canzone, che con toni pacati scrive le prime lettere del libro, e che poi, ruggendo, urlando e straziando, mette fine ad una storia infinita. Abbiamo di fronte un caposaldo del rock, la canzone che incarna al meglio lo spirito di questo genere: “Rock in In The Free World” ripresentata come opener in versione unplugged e come perfetta e azzeccatissima conclusione (in versione originale) di un album che in questo modo viene racchiuso in un cerchio magico. Impossibile non cantare ad alta voce le note e le parole di questa canzone, un inno alla vita, alla ribellione, una denuncia allo stato Americano, una denuncia a tutti coloro che vivono sulle spese degli altri, un attacco morale ai potenti che del mondo stanno facendo una prigione. E allora tutti insieme cantiamola e urliamola, un ideale morale immerso in note musicali che rendono questa canzone una delle più belle mai scritte nella storia della musica. Un'idea geniale quella di concludere un album con la stessa canzone in due versioni diverse, un idea che rende quest'opera nettamente superiore a molte delle precedenti, forse prive di quella carica, non solo musicale, bensì morale che ha caratterizzato questo album in particolare, rendendolo una perla del rock, un disco del quale non ci si può dimenticare. 
Paolo Bellipanni, rockline.it

Neil Young ha cento vite e mille risorse musicali, si sa, e quella messa a fuoco da Freedom lo fa riemergere definitivamente da un certo divagare un po' troppo fine a se stesso, per fare parlare, ancora una volta, una delle migliori voci del cantautorato rock. Canzoni baciate da Dio, che spianano la strada alle abrasioni di Ragged Glory (ed alla consacrazione come "maestro del grunge") tenendosi però ancora ben strette una cantabilità forte, che riannoda i suoi fili col passato e mostra il suo eclettismo. Da pezzi pianeggianti quasi folk (“The Ways Of Love”) alle svisate elettriche inattese di “Don't Cry”, fino a qualche arrangiamento più raffinato e d'atmosfera , legato al soul/blues di This Note's For You (1988). Un capolavoro, che porterà ad un decennio pieno di belle composizioni e di una identità felicemente riconquistata.
100 album fondamentali, Mucchio Selvaggio


Al culmine di questa crisi di identità [degli anni ‘80] escono invece Life (Geffen, 1987) e Freedom (Reprise, 1989), due album che, per quanto frammentari ed eterogenei, recuperano il furore rock di un tempo e lo collocano in un comune tema di fondo: la decadenza urbana in un'America sempre più afflitta dal collasso dei valori sociali, morali e spirituali. Nella sua voce e più ancora nella sua chitarra Young condensa un misto di terrore, di malinconica rassegnazione e di compassione. Sul primo domina l'arringa sociale di “Long Way Home” e “Mideast Vacation”, accentuata sul secondo da “Rockin' In The Free World” (acustica e dal vivo), l'anthem "dal dito puntato", cinico e sarcastico come si conviene, che fa coppia con “Crime In The City”, amaro affresco dei quartieri poveri.
La sua schizofrenia è ormai senza freni su Freedom, che affianca i fendenti rabbiosi e ipnotici di “Don't Cry”, cupa storia passionale, a “Hangin' On A Limb” una delle sue più tenere ballate d'amore, il riff trascinante di “No More” all'amara nostalgia di “Too Far Gone”.
“Inca Queen” (sul primo) e “Eldorado” (sul secondo) sono le ennesime puntate della sua saga mitologica. 
Piero Scaruffi

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