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Hawks & Doves - Gli articoli di Ciao 2001


Profumo di West Coast, nonostante tutto. Young è uno dei pochi, si contano sulle dita delle mani, dei vecchi eroi del rock country dei primi Settanta ad aver resistito all’usura del tempo e delle mode: e questo Hawks & Doves, pur mantenendosi nelle linee risapute del sound californiano acustico-elettrico, lo conferma. Il canadese non inventa nulla di nuovo, questo no, ma quello che canta e suona è un delicato, brillante ripescaggio di atmosfere che oggi, nell’imperversare del nuovo hard rock e della new wave e nel riflusso canzonettaro, credevamo proprio di aver perso per sempre. Neil invece sopravvive anche al pericolo del mito ripetuto ed i dolcissimi gorgheggi, i delicati accordi delle chitarre western, il ritmo soffuso e pacato, non sembrano tenere il confronto con le accelerazioni speed dell’ultima ondata o con gli esotismi reggae, pur se il rischio esiste soprattutto nel lato 1 dell’album dove i climi malinconici e rarefatti risultano forse un po’ troppo datati (“Little wing”).
Il tono è nettamente più vivo sulla facciata 2, cinque tracks, anche se chi si aspetta il Neil Young elettrico, quasi rock ‘n roll di Zuma o Rust Never Sleeps resterà ancora deluso. Qui, per esempio, “Coastline” e “Union man” si muovono in atmosfere nettamente più country, meno intimiste, con tanto di violini quasi bluegrass e cori robusti: qui e là compaiono anche chitarre più sostenute e la batteria rulla pesantemente. Niente rock come lo intendono in questo momento, chiariamo l’equivoco, anche per l’ampio uso di ritmica quasi sempre western tranne forse in “Hawks & Doves”, il brano che intitola il long-playing, dove la componente più classica ci riporta addirittura ad un folk californiano tipico dell’era CSNY, del flower power, del “grande sogno” di una generazione cibata ad “amore e musica”.
I testi sono naturalmente quelli della frontiera, dei lunghi viaggi da una costa all’altra, del r&r e della country music più ortodossa. I fedelissimi ci ritroveranno tutte le storie a stellestrisce di un decennio che oggi si tende a minimizzare e bollare come utopista, i giovanissimi che ballano Marley o i Police o Live Wire non si aspettino cose strabilianti da questo chitarrista e cantante pure american sound. Forse si annoierebbero. 
Ciao 2001, 1980

[…] Neil Young può essere incluso in quell'elenco di nomi che tra i giovani di tutto il mondo significano rock che va oltre la bella canzone, il disco da consumare in breve tempo prima di gettarsi su quello nuovo, in un consumo frenetico e sempre più inutile. Il cantautore di Winnipeg, Canada, attraverso una carriera ormai quasi ventennale, ha sempre reagito, quasi come una cartina al tornasole, agli stimoli che arrivavano dal mondo giovanile, di cui egli stesso faceva parte. Dopo la splendida avventura musicale con i Buffalo Springfield insieme a Steve Stills e Richie Furay, Neil Young inizia una carriera musicale da solista interrotta solo dal periodo passato con Crosby, Stills e Nash in uno dei supergruppi più grandi della storia del rock americano. Ma in tutte queste fasi artistiche, nel continuo passaggio da una esperienza all'altra, Neil Young si mantiene straordinariamente in contatto con l'ambiente da cui proveniva. E la sua partecipazione, sia come uomo che come musicista, ai fermenti e alle lotte politiche della fine degli anni sessanta, il suo continuo polemizzare con la parte più conservatrice americana, il suo sentirsi parte del mondo studentesco e giovanile insieme, e nello stesso tempo il suo amore per la terra americana, per quella grande fusione di genti che la rendono unica e viva, tutto questo non fa altro che rendere sfaccettata e a volte anche discontinua e contraddittoria la sua opera, ma senza dubbio mai morta e senza senso.
Le sue canzoni politiche sono ultrafamose e ormai veri e propri inni: da “Ohio”, antimilitarista, a “Southern Man” antirazzista, fino alle parabole di “Cortez The Killer” e di “After The Gold Rush”, per non citare che gli episodi più noti, Neil Young ha sempre espresso i sentimenti dell'ala democratica della gioventù americana.
Naturalmente, esiste anche un'altra faccia di Neil Young, ed è quella interiore, esistenzialistica, profetica, anche quest'ultima non meno importante per capire il fascino che questo musicista ormai trentacinquenne continua ad esercitare anche sulle generazioni di ascoltatori più giovani. Fortemente sensibile a quanto gli accade intorno, ha attraversato, dopo lo scioglimento di Crosby, Stills, Nash and Young un forte periodo di depressione morale e fisica ed ha subito anche un calo della sua popolarità. Ma da Zuma del 1975 il musicista ha iniziato una continua risalita accompagnata da un ritrovato equilibrio interiore e una maggiore positività nei confronti della vita. Così, abbandonati o perlomeno sfumati certi pessimismi cosmici e recuperato molta vitalità e fiducia nel suo lavoro di musicista, Neil Young tra il 1978 e il 1979 ha sfornato tre album, di cui uno doppio dal vivo, impegnandosi in un breve tour americano e traendone il film Rust Never Sleeps attualmente nei circuiti italiani. Sia Rust Never Sleeps che Live Rust costituiscono un'opera unica, interessante per comprendere l'attuale movimento del cantautore. Il suo “Hey Hey, My My” ha fatto il giro del mondo per il verso “rock 'n' roll is here to stay, rock 'n' roll can never die” e il suo avvicinamento immaginario alla figura dell'ultimo ribelle, Johnny Rotten, che come tutti i ribelli si infiamma e brucia in breve tempo ma non muore nel ricordo della gente. E Neil Young tra i musicisti della vecchia generazione è l'unico che rimane ancora una volta vicino ai ragazzi che costituiscono l'essenza stessa del rock 'n' roll. Lontano quindi dalle paranoie divistiche di tanti altri big.
Falchi e colombe.
Oggi che Bob Dylan si è ripiegato su se stesso, alla ricerca attraverso la religione del senso della vita, Neil Young rimane pressoché isolato a cantare le trasformazioni e gli ideali della gioventù americana, e forse proprio per questo ascoltarlo è ancora più significativo. Specie in un momento così particolare per la nazione americana, alla ricerca di nuovi ideali, in preda a una crisi di fiducia come da anni non si verificava. Le recenti elezioni presidenziali hanno evidenziato molti di questi problemi, particolarmente sentiti dall'americano medio, in genere amante della continuità, della tradizione, dei principi ispirati dai Padri Fondatori, e comunque desideroso di vedere l'America potente nel mondo. È inevitabile che questo clima si rifletta nel rock 'n' roll come in altre espressioni artistiche, per esempio il cinema e la letteratura. I prossimi mesi confermeranno queste supposizioni.
Intanto Neil Young esce con Hawks & Doves, Falchi e Colombe, già nel titolo significativo dell'aria di tensione e incertezza che si respira nel mondo, con il vento della guerra, per ora fredda, che sembra ricominci a soffiare. Ma non è l'unico elemento che rende interessante il disco. Musicalmente l'album è un perfetto esempio di country-music moderna, in parte acustica e in parte elettrica, secondo le direzioni che ora prevalgono a Nashville, Tennessee. Neil si separa dai fidi Crazy Horse, con cui ha girato il film e inciso Rust Never Sleeps per affidarsi ad una serie di noti musicisti americani tra cui spicca il nome di Levon Helm, guida e batterista della Band, il gruppo che ha accompagnato Dylan per anni e che si sciolse qualche anno fa lasciandone testimonianza nel film di Martin Scorsese The Last Waltz.
Neil Young sembra recuperare, insieme al country, anche quel clima di “back to the roots” verso la semplicità della vita dei Padri, verso una visione mitica e favolistica della storia, pur così breve, dell'America che non vuole smettere gli abiti del pioniere perché sa che nonostante tutto lì c'è ancora molta verità. Da qui il lungo, splendido episodio acustico “The Old Homestead”, storia fantastica che si svolge sull'aia dove ballavano i cowboys e in cui c'è senz'altro la speranza che affidandosi di nuovo all'intelligenza e all'intraprendenza del singolo si riesca a uscire dalla nebbia. E in chiusura di prima facciata due brani dalle movenze arcaiche ma straordinariamente attuali nei contenuti, la ballata di un giovane marine mandato alla guerra, “Marine Munchkin” inserita in “Lost In Space” e seguita da “Captain Kennedy”, canzoni che ancora una volta parlano del Mito americano, dei ragazzi spediti in tutto il mondo che solo vagamente sanno i motivi per cui sono là, e pensano alla casa, alle famiglie, alle ragazze. E la storia di Captain Kennedy, già emblematica nella scelta del nome, acquista ancora più significato se si pensa all'attuale momento americano. La seconda parte, quella dei Falchi, è divisa tra la caricatura del nazionalista in “Union Man” al mormorio dell'americano medio in “Comin' Apart At Every Nail” in cui si dice “sì, mi piace questo Paese, ma stanno mettendo steccati ogni due pollici di terra” richiamando le polemiche tra allevatori e proprietari terrieri nel periodo della colonizzazione americana e che si inserisce in quel recupero della tradizione di cui parlavamo prima.
Un disco, come si può capire, piuttosto pensato e ricco di spunti. Neil Young non ha assolutamente smentito se stesso, continua ad essere una voce americana cosciente, un musicista che sa alzare la testa oltre la chitarra per guardare con attenzione il mondo che gli gira intorno. Parla di passato e di presente, di pace e di guerra, di tradizione e di cambiamenti.
Federico Ballanti, Ciao 2001, 1980

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