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Re-ac-tor - Rassegna Stampa


Rieccolo con i Crazy Horse, il che significa nuovamente una parentesi elettrica, l'ultima in ordine cronologico. Forse questo disco può interessare gli amanti del filone rock, di quella linea musicale dura che ha influenzato le nuove generazioni. I Crazy Horse mantengono quel sound essenziale e scheletrico che ha dominato le precedenti collaborazioni tra la band e Young. Nonostante questo vi è anche un maggior calore e, forse, qualche effetto, qualche soluzione in più sul suono generale del disco. La base ritmica in particolare è più raffinata mentre i suoni distorti della chitarra riescono a fondersi con il resto della musica, limitandosi, casomai, a sottolineare certe frasi. In questo senso è abbastanza significativa “Southern Pacific” e “Motor City”. Nell'insieme l'album vuole essere una satira delle popstar (forse poco autocritico anche se il suo è un atteggiamento da non-divo). Nel suo futuro è previsto, oltre a un nuovo, imminente album, anche un ritorno al cinema. Il titolo della pellicola dovrebbe essere lo stesso di un brano contenuto in Comes A Time: Human Highway. “Sarà un film nel quale vi sarà una normale sceneggiatura, non una pellicola musicale come le altre esperienze cinematografiche passate”, ha affermato a questo proposito Young durante il recente tour italiano. Quindi di nuovo un futuro diverso, con delle sorprese, sempre alla ricerca di nuove emozioni: Neil Young non si smentisce mai. 
Elia Perboni, Music 1982


Novembre '81. Altro disco oscuro. Chitarristico sino al parossismo questo album, realizzato con i Crazy Horse, mostra un approccio strano all'elettronica, ed una rabbia di fondo poco celata. Young e i suoi fidi ci danno dentro di brutto e inanellano una serie di canzoni che, risentite oggi, acquistano in credibilità. "T-Bone", "Southern Pacific", "Rapid Transit" e "Motor City" i momenti migliori. Da riscoprire. 
Paolo Carù, Buscadero 1989


[…] La decade degli anni Ottanta si apre con la notizia di nuove incisioni e ritrovata energia, poi, verso la fine del 1981, esce Reactor, un disco elettrico, forte, pieno di immaginazione. Naturalmente i bei tempi sono passati e Young somiglia più ad un fantasma che a un rock 'n' roller, ma nonostante tutto la sua è ancora una musica che corrode. “Sono nato per il rock” canta Young in “Opera Star” e gli si deve credere per forza, in lui c'è un fondo di amarezza e le chitarre distorte, i cori sgangherati, la ritmica che macina senza sosta sottolineano storie di disperazione.
Il pubblico più giovane lo prende in simpatia; potrebbe essere un qualsiasi padre con un mucchio di errori alle spalle. I più arrabbiati, anche tra i giovani musicisti, lo vedono come un principe della notte, un arrabbiato senza sosta. […] Neil è di quelli che, completamente da parte, non riuscirà mai a mettersi. 
La grande enciclopedia del Rock


Il momento non è dei più felici, umanamente e artisticamente, ma, considerato quel che sarebbe successo per il resto del nuovo decennio, non si può certo reputare Re-ac-tor il disco più stravagante di Neil Young. Dopotutto, ci sono i Crazy Horse e non cambia il rodatissimo team produttivo, ma è proprio l'ispirazione a latitare, risolvendo il tutto – per una volta, registrato in un solo posto in soli sette giorni – in un malloppone hard-rock o hard-blues o hard-qualcosa senza capo né coda. Le canzoni suonano grosse ma scarsamente incisive, fragorose ma inanimate, come se per generare il rumore Young si fosse limitato ad alzare il volume anziché estrarlo “da dentro”. Spira un'aria di gelo, di immobilità, nonostante i ragazzi della band si sgolino per tenere il passo del cantante, che sembra girato da un'altra parte. In “T-Bone” riesce a ripetere per quasi dieci minuti “Got mashed potatoes/Ain't got no t-bone”, vale a dire “c'è il purè di patate, ma non c'è la bistecca”. Surreale, ma nient'affatto divertente.
Mucchio Selvaggio Extra 2004


Re-ac-tor, uscito nel 1981, è universalmente considerato come uno dei dischi meno riusciti di Neil Young e apre (già le avvisaglie c’erano con il disco precedente) un altro dei periodi bui per il cantautore: ma il motivo è quanto di più triste si possa immaginare e in parte aveva influito negativamente anche sul progetto parzialmente riuscito di Hawks & Doves. Sul finire degli anni settanta Young aveva infatti sposato Pegi dalla quale aveva avuto un figlio nato con una grave cerebropatia e l’arrivo di un secondo figlio anch’esso afflitto dalla stessa patologia, getteranno Young nella disperazione più nera che sfocerà nella rabbia di Re-ac-tor. Richiamati i suoi fidi Crazy Horse (il gruppo che lo accompagna da una vita) in pochi giorni scrive e incide un disco elettrico, sporco, duro e al limite dell’hard rock in cui pare riversare tutta la sua rabbia e il suo furore. Testi quasi minimali e tutto pare impostato su una sorta di coazione a ripetere sia per quanto riguarda le strofe (in un brano di quasi 10 minuti ripete come un mantra le stesse parole ossessivamente) che spesso sono pronunciate balbettando e in maniera sillabata sia per quanto riguarda le note che si ripetono quasi in un loop di feedback elettrici. Metafora della difficoltà a comunicare con i propri figli, tema che poi esplorerà in maniera ancora più provocatoria e disperata in un successivo album, ed esplorazione della rabbia, Re-ac-tor trova un senso compiuto nella frase latina che Young appone sul retro della copertina “Deus, dona mihi serenitatem accipere res quae non possum mutare, fortitudinem mutare quae possum atque sapientiam differentia cognoscere” come a dire che di fronte al dolore e alle prove della vita non rimane altro, in fondo, che rivolgere una preghiera all’Altissimo, che ci aiuti ad “accettare ciò che non è possibile cambiare” ma senza perdere la forza di adoperarsi ai cambiamenti laddove è possibile nella umile accettazione del limite umano.
E allora se i dischi sono fatti anche di dettagli come le cover e tutto ciò che vi è scritto sopra, anche Re-ac-tor acquista un senso nuovo se lo si legge partendo proprio da questa preghiera.
Marco Re


Il 1981 […] porta l’ennesima sferzata di stupore, mista a irritazione, fastidio, con la schiera di youngofili disposta nuovamente a dividersi e fronteggiarsi davanti alla mutazione del  mito. Il nuovo album si chiama Reactor, in copertina un tratto secco, dove nel cuore di una figura nera si staglia un triangolo rosso vivo.
Reactor, è bene dirlo, è l’esaltazione della maschera younghiana, uno scroscio incontrastato e forse incomprensibile di rock in decomposizione, con i Crazy Horse impegnati a condurre il gioco con i muscoli in piena azione e Neil pronto a ricordarsi del suo amore per Hendrix e infilare una serie di distorsioni, di suoni ineducati tra i solchi di quel vinile incandescente. Pezzi come “T-Bone” e, sopra a tutti, “Shots”, che chiude la seconda facciata, sono pugni nello stomaco, dalla forza d’urto impressionante che sprigiona insidie e sventagliate di decibel tiranni in rapida sequenza. Sul retro di copertina, dove risultano pochissime note, campeggia una scritta in anacronistico latino: “Dio, dammi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, la forza di cambiare quelle che posso e la saggezza di saperle distinguere tra loro”, secondo un’etica struggente che si scontra pesantemente con il sapore di musica al napalm che si diffonde tutta intorno.
“Bisogna cambiare sempre: magliette, vecchie amanti, qualsiasi cosa”: così aveva detto un giorno lontano Neil Young e questo sembra essere diventato il suo insegnamento. D’altronde l’inutilità dell’attesa, l’ineluttabilità del destino Young le aveva già cantate ai tempi di Tonight’s The Night: “Sono stato giù per la strada e quando sono tornato, fischiettando con un po’ di tristezza lungo la ferrovia, non ho ritrovato nessuno di quei sentimenti che avevo” – un segnale sufficientemente disincantato e disilluso.
[…] Reactor, a dispetto di quegli avvoltoi che ne hanno scritto volteggiando lugubremente, è una miccia rimasta accesa, non gli ultimi bagliori di un crepuscolo ma piuttosto un avamposto degli uomini perduti. 
da Enzo Gentile, introduzione a “Neil Young” (Arcana 1982)

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