Crosby & Nash in concerto: Cortemaggiore 2005
Locale
gremito in ogni ordine di posti per questo atteso concerto di due
autentiche leggende della musica americana. E, contrariamente a qualche
timore personale, si è trattato di un grande show. Non credo serva
alcuna presentazione per queste due icone del rock recentemente tornati a
pubblicare un doppio cd di buon valore (Crosby & Nash ndr.) che ha
riscosso buone critiche e un discreto riscontro commerciale. Un concerto
molto classico musicalmente, con una tracks list che ha pescato tra
vecchi classici (una Wooden Ships da sballo), Teach your children,
Almost cut my hair, Our house, Just a song before I go (uno dei miei
pezzi preferiti di sempre), Cathedral, e pezzi tratti dal recente album
del duo come Lay me down (molto bella anche live), Jesus of Rio
(leggermente tediosa), Puppeteer (very easy, o meglio dire very Nash), o
la potente Dig it Here. Spettacolosa la band al seguito dei nostri
composta da Dean Parks alle chitarre (il chitarrista di Aja degli Steely
Dan come ricorda Crosby nella presentazione di un pezzo), Andrew Ford
al basso, Steve Di Stanislao alla batteria, James Raymond al pianoforte.
Ottima la resa complessiva dello spettacolo che si è protratto per
quasi tre ore. Unico neo il bar del locale pieno di gente che non si
capisce bene cosa vada a fare ai concerti se non per rompere le scatole a
chi vuole godersi la musica. Una pessima usanza che andrebbe bandita
una volta per tutte. Ma a parte questo aspetto è stato uno show che non
ha assolutamente deluso il pubblico fatto in buona parte da fedelissimi,
e per una parte minore da curiosi che non volevano perdersi questa
esibizione. E, a conti fatti, hanno avuto ragione.
Marcello Matranga, Marabel (MBFC Edition)
Sostiene
David Crosby che ad un musicista occorrano almeno quindici anni per
poter dire di conoscere in tutto e per tutto il proprio mestiere. Se vi
sembra troppo tempo, fate una cosa: prendete armi e bagagli, e a costo
di macinare qualche chilometro in più di quanto imposto dalla pigrizia e
di sacrificare qualche ora di sonno, andate ad un concerto di Crosby
& Nash. Se non quest’anno, la prossima volta che torneranno in
Italia, magari con un paio di date anche al sud, come al solito
trascurato dagli artisti internazionali. Se farete ciò, avrete il
privilegio di trovarvi faccia a faccia con una delle più perfette
incarnazioni della Professionalità e del Mestiere, per plasmare la quale
ci sono voluti suppergiù trentacinque anni. La seconda data italiana
del tour europeo 2005 (dopo Trento e prima di Torino, Milano e Roma), ha
offerto l’occasione per assaggiare dal vivo alcuni brani del nuovo,
inaspettato lavoro del duo statunitense, pubblicato lo scorso anno in
due cd con il semplice titolo di “Crosby Nash”: un album, il primo in
studio dai tempi di “Whistle Down The Wire” del 1976, dalle trame sonore
antiche ma dai contenuti aggiornati all’oggi. Un album nel quale, come
di prammatica per i due ex (?) figli dei fiori, convivono ballate
robuste come “Lay Me Down” e “Puppeteer” e dolciumi di classe come
“Jesus Of Rio”, pacifismo e polemica politica, le mai sopite doti
compositive di Crosby e la delicata vena hippie di Nash.
Ma ovviamente non è tutto. Snocciolati lungo una scaletta davvero impeccabile, si sono riascoltati brani ormai patrimonio indelebile della memoria collettiva del rock: una “Guinnevere” bella da mozzare il respiro, “Teach Your Children”, “Déjà Vu”, “Wooden Ships”, “Long Time Gone”, “Our House”, “Marrakesh Express”, “Cathedral” e altre chicche della West Coast. È immutata la perfezione vocale di questi due ultrasessantenni con il vizio dei cori, dei controcanti e degli intrecci raffinati, splendidamente supportati da una band diligente nel semplice accompagnamento, talentuosa negli assoli: Stevie Distanislao alla batteria e alle percussioni, Andrew Ford al basso, un impeccabile James Raymond (figlio di Crosby e membro dei CPR) alle tastiere (piano elettrico, sint e organetto a pompa), un mirabolante Dean Parks (ex Steely Dan, nell’album “Aja” del ‘77), all’apice della sensibilità musicale sia alla lead guitar che alla pedal steel. Quando Crosby attiva la sua classica voce soul-blues lo show non può più salire: un suono dalla perfezione imbarazzante, nel quale tutti gli strumenti sono perfettamente distinguibili nel rispettivo ruolo e correttamente amplificati, nessuna distorsione nemmeno a due metri dai diffusori: Professionalità, dicevamo, che si tocca quasi con mano. Basterebbe solo provare ad allungare un braccio verso quell’uomo con la pancia, i capelli e i baffi bianchi: uno che dopo tante traversie sanitarie e giudiziarie fa ancora spettacolo e grande musica standosene immobile, lì sul palco, con le mani in tasca.
Ma ovviamente non è tutto. Snocciolati lungo una scaletta davvero impeccabile, si sono riascoltati brani ormai patrimonio indelebile della memoria collettiva del rock: una “Guinnevere” bella da mozzare il respiro, “Teach Your Children”, “Déjà Vu”, “Wooden Ships”, “Long Time Gone”, “Our House”, “Marrakesh Express”, “Cathedral” e altre chicche della West Coast. È immutata la perfezione vocale di questi due ultrasessantenni con il vizio dei cori, dei controcanti e degli intrecci raffinati, splendidamente supportati da una band diligente nel semplice accompagnamento, talentuosa negli assoli: Stevie Distanislao alla batteria e alle percussioni, Andrew Ford al basso, un impeccabile James Raymond (figlio di Crosby e membro dei CPR) alle tastiere (piano elettrico, sint e organetto a pompa), un mirabolante Dean Parks (ex Steely Dan, nell’album “Aja” del ‘77), all’apice della sensibilità musicale sia alla lead guitar che alla pedal steel. Quando Crosby attiva la sua classica voce soul-blues lo show non può più salire: un suono dalla perfezione imbarazzante, nel quale tutti gli strumenti sono perfettamente distinguibili nel rispettivo ruolo e correttamente amplificati, nessuna distorsione nemmeno a due metri dai diffusori: Professionalità, dicevamo, che si tocca quasi con mano. Basterebbe solo provare ad allungare un braccio verso quell’uomo con la pancia, i capelli e i baffi bianchi: uno che dopo tante traversie sanitarie e giudiziarie fa ancora spettacolo e grande musica standosene immobile, lì sul palco, con le mani in tasca.
Federico Olmi, Kalporz
Dici
Fillmore e inevitabilmente pensi allo storico locale di Bill Graham,
palcoscenico prediletto di una generazione di musicisti che, nel volgere
di una breve stagione, hanno cambiato per sempre le sorti del rock
americano. Dici Fillmore e pensi a San Francisco (ma anche al Fillmore
east di New York), al flower power, ad un'epoca di speranze, utopie e
forse illusioni. Non era certo una platea di hippie incanutiti quella
che ha gremito il Fillmore di Cortemaggiore sabato 5 marzo, bensì un
pubblico multigenerazionale di intenditori del rock. Chi si attendeva
una fiacca reunion per nostalgici sarà rimasto piacevolmente sorpreso
dalla performance dei due signori di cui andremo a parlare. Graham Nash,
all'anagrafe 63 anni, e David Crosby, classe 1941, si sono prodigati in
un'intensa performance di 2 ore e 30, equamente divisa tra i brani del
recente disco omonimo ed i capolavori del periodo '69 - '77.
Definitivamente superati i problemi di salute che ne hanno compromesso la carriera, Crosby negli ultimi anni, sembra aver ritrovato l'ispirazione e la forma di un tempo anche grazie al trio formato insieme a Jeff Pevar ed al figlio James Raymond, eccelente tastierista e parte integrante della line-up della backing band dell'attuale tour europeo insieme a Dean Parks alla chitarra solista, Andrew Ford al basso e Steve Distanislao alla batteria. Non è da meno Graham Nash, che durante il concerto si è dimostrato il più loquace dei due con un Crosby più sobrio e defilato rispetto ai siparietti comici che caratterizzavano le sue performance nei '70. A 30 anni di distanza dal conflitto vietnamita il messaggio dei due artisti è sempre lo stesso come ben sintetizza l'incipit del concerto: military madness is killing my country. Inutile dire che nel corso della serata i due non risparmieranno critiche a Bush and company, paragonati dall'incorreggibile Crosby a degli scimpanzè...
Definitivamente superati i problemi di salute che ne hanno compromesso la carriera, Crosby negli ultimi anni, sembra aver ritrovato l'ispirazione e la forma di un tempo anche grazie al trio formato insieme a Jeff Pevar ed al figlio James Raymond, eccelente tastierista e parte integrante della line-up della backing band dell'attuale tour europeo insieme a Dean Parks alla chitarra solista, Andrew Ford al basso e Steve Distanislao alla batteria. Non è da meno Graham Nash, che durante il concerto si è dimostrato il più loquace dei due con un Crosby più sobrio e defilato rispetto ai siparietti comici che caratterizzavano le sue performance nei '70. A 30 anni di distanza dal conflitto vietnamita il messaggio dei due artisti è sempre lo stesso come ben sintetizza l'incipit del concerto: military madness is killing my country. Inutile dire che nel corso della serata i due non risparmieranno critiche a Bush and company, paragonati dall'incorreggibile Crosby a degli scimpanzè...
Nella prima parte del concerto prevalgono le sonorità acustiche e
raffinate della countreggiante Southbound train con Nash all'armonica e
di In my dreams, lampante esempio della genialità musicale di David
Crosby. Tra i brani nuovi emerge una Lay me down che rasenta la
perfezione mentre la "leccata" Jesus of Rio non lascia il segno. Accolta
dall'entusiasmo del pubblico, Long time gone incrementa il tasso di
elettricità sul palco ed esalta tutta la potenza vocale di Crosby . Ad
impressionare nel corso del concerto è la perfezione delle armonie del
duo , coadiuvato nelle parti vocali anche dall'ottimo James Raymond.
All'esperto Dean Parks, alla chitarra ed alla steel guitar, spetta
l'ingrato compito di supplire alla mancanza delle due chitarre soliste
del celebre quartetto e, pur non avvicinando minimamente la personalità e
la genialità
di Stills e Young, accompagna i brani acustici con discrezione e
dimostra un'eccellente tecnica in quelli elettrici. I capolavori
proseguono con una Cathedral da brividi con Nash al piano e
l'imprevedibile sinfonia psichedelica di Deja vu introdotta dalla dodici
corde acustica di Crosby. Tralasciando una prescindibile They want it
all, la sfuriata elettrica quasi "pettyana" Don't dig here si dimostra
come uno dei brani dalla miglior resa live del recente disco. Tra i
brani nuovi resta da dire di una struggente Milky way tonight con
Raymond all'accordion, uno dei momenti più roots del concerto. Il
capolavoro Wind on the water, dall'omonimo disco del '75, dimostra, se
ce ne fosse bisogno, la perfezione cristallina delle armonie del duo.
D'accordo siamo nella bassa padana, la bay area è lontana, siamo reduci da una nevicata e la temperatura è costantemente sotto lo zero ma quando Crosby e Nash, stavolta soli sul palco, attaccano Guinnevere è impossibile non vagare altrove con la mente... magia della miglior musica psichedelica. Il viaggio prosegue a bordo di una Wooden ships che salpa per lidi inarrivabili. Il brano esalta tutta la potenza della band, forse trattenuta per tutto il concerto, con l'eccellente Crosby alla ritmica e con Dean Parks e James Raymond che sciorinano assoli rispettivamente di elettrica e di Hammond (anche se di organi Hammond sul palco non vi fosse neanche l'ombra...). Sempre più coinvolto il pubblico si "esibisce", su invito di Nash, in una Our house altro gioiello pop da quel capolavoro che fu Deja Vu. Mai sazio, il pubblico chiede a gran voce The Lee shore ma il momento più emozionante del concerto arriva con il brano che Neil Young considera come il punto più alto raggiunto da CSN&Y in studio, Almost cut my hair. Crosby si esibisce in una performace vocale che ha dell'incredibile se consideriamo il vissuto personale di questo artista.
D'accordo siamo nella bassa padana, la bay area è lontana, siamo reduci da una nevicata e la temperatura è costantemente sotto lo zero ma quando Crosby e Nash, stavolta soli sul palco, attaccano Guinnevere è impossibile non vagare altrove con la mente... magia della miglior musica psichedelica. Il viaggio prosegue a bordo di una Wooden ships che salpa per lidi inarrivabili. Il brano esalta tutta la potenza della band, forse trattenuta per tutto il concerto, con l'eccellente Crosby alla ritmica e con Dean Parks e James Raymond che sciorinano assoli rispettivamente di elettrica e di Hammond (anche se di organi Hammond sul palco non vi fosse neanche l'ombra...). Sempre più coinvolto il pubblico si "esibisce", su invito di Nash, in una Our house altro gioiello pop da quel capolavoro che fu Deja Vu. Mai sazio, il pubblico chiede a gran voce The Lee shore ma il momento più emozionante del concerto arriva con il brano che Neil Young considera come il punto più alto raggiunto da CSN&Y in studio, Almost cut my hair. Crosby si esibisce in una performace vocale che ha dell'incredibile se consideriamo il vissuto personale di questo artista.
Eppure,
sul palco, l'uomo che una volta faticava a ricordare il proprio nome ci
regala questa specie di blues drogato urlando nel microfono il
definitivo inno hippie. Uno straordinario (non è il caso di lesinare
complimenti) Dean Parks imita alla perfezione lo stile nervoso di Young ,
essenziale nel brano originale, ed i virtuosismi di Stills in
un'esecuzione che si conferma come il brano migliore della serata. , scherzano Crosby e Nash richiamati a gran voce sul palco per
concludere un concerto memorabile con la classica Teach your children
(mentre Crosby accorda l'acustica suonando le prime note di Mr
Tambourine man prontamente riconosciute da gran parte del pubblico)
cantata a gran voce da tutto il pubblico.
Volendo
esprimere un giudizio conclusivo non è possibile nascondere la
perplessità per alcune esecuzioni di maniera, forse poco adatte ad una
dimensione live. Tuttavia l'intensità delle voci del duo, rimaste
sorprendentemente intatte dopo 40 anni di carriera, e soprattutto
l'elevata qualità dei brani nuovi dimostrano che David Crosby e Graham
Nash stanno vivendo una seconda giovinezza. Le recenti vicissitudini di
Crosby con la giustizia pregiudicano forse l'autenticità del messaggio
che i due artisti hanno voluto trasmettere dal palco. Esprimere
considerazioni su una personalità da sempre complessa come quella di
Crosby sarebbe comunque un azzardo. Chi sono dunque oggi Crosby and Nash
? Due navigati mestieranti perfettamente integrati nel music business ?
Oppure due eterni sognatori dell'utopia del peace and love ? Forse la
verità sta nel mezzo. Personalmente mi piace pensarli come due cowboy of
dreams che non hanno mai smesso di sognare. Citando (e storpiando) un
titolo di Neil Young: a dream that still last.
recensione di Andrea Aiolfi
Le
atmosfere di una West Coast idealizzata e romanticizzata hanno avvolto
l'altra sera un Fillmore di Cortemaggiore prevedibilmente esaurito da
giorni. Colpo d'occhio d'altri tempi: la band sul palco marcia per 2 ore
e 40 minuti (!); la platea devota segue tutto con affascinata
attenzione. Illusione collettiva o trionfo reale? Entrambe le cose.
Perché Graham Nash e David Crosby, due delle figure che più hanno
scolpito le forme del "West Coast mood", hanno suonato pezzi storici, ma
fino ad un certo punto. La coppia non ha mai consegnato alla Storia il
suo "Deja Vu" o il suo "Sweetheart The Rodeo", accontentandosi spesso di
proporre una musica lieve, ben costruita e pacatamente contestatrice.
Senza Neil Young e Stephen Stills, abbiamo frequentemente ascoltato
dischi "parziali", privi di quel guizzo che li potesse far volare oltre
il recinto "traditional" entro il quale erano nati. Crosby e Nash, a
trentatrè anni dal loro disco d'esordio (1972), hanno esibito al
Fillmore le foto di gioventù più edulcorate e concilianti. David Crosby,
uno che negli ultimi 40 anni ha contribuito a ridefinire più volte la
parola "perdizione", somigliava ad un nonno pacioso che strimpellava
sulla soglia del "front porch". Graham Nash, volto più maturo e meno
percorso dagli eccessi, era lì a sorreggere il compagno di tante
battaglie. Armato di chitarra, armonica e piano. Il concerto-fiume
cresce pian piano, ma entra presto nel vivo con il trittico "Immigration
man"-"In my dreams"-"Southbound train" e raggiunge il primo
indiscutibile picco con la splendida "Cathedral", che di fatto chiude
sontuosamente la prima parte della serata. Il breve intervallo non
sopisce, purtroppo, gli ardori
di un manipolo di "disturbatori molesti" che hanno costantemente
sabotato la serata con una serie di urla assolutamente fuori luogo (solo
l'enorme pazienza delle ultime quattro file ha evitato le proverbiali
risse da pub che "Trainspotting" descrisse così bene). La seconda parte
inizia con le gloriose "Deja Vu" e "Guinnevere" (è qui l'essenza
ipnotica del canto a due voci) per poi adagiarsi notevolmente quando in
cattedra salgono i brani dell'ultimo album. "Milky way tonight",
"Puppeteer" (dedicato a quello "scimpanzè" che abita alla Casa Bianca) e
"Don't dig here" soffrono enormemente il paragone con le gemme del
passato che hanno costituito l'ossatura dello show. Se Crosby e Nash
"edizione Woodstock" rappresentavano al meglio una polemica epocale che
si serviva di ottime canzoni, i brani più recenti sono un manifesto
vuoto: la polemica è rimasta (Nash su "Don't dig here": "Questo pezzo è
sulla grande stupidità degli americani"), ma le melodie azzeccate sono
svanite, coperte da un pub-rock anonimo degno di chi
il mito lo scimmiotta. Ma Crosby e Nash sono troppo furbi e navigati
per permettere che le immagini di questo concerto siano fotografate
dalla mediocrità del materiale più recente. "Delta" (impreziosita da un
grande assolo di Dean Parks, il chitarrista che suonò su "Aja" degli
Steely Dan) e "Wind on the water" rimettono tutto a posto, con le loro
armonie, i controcanti, le voci cristalline che cercano di arrivare
anche dove l'età teoricamente non lo consentirebbe. Restano solo gli
apprezzatissimi bis: prima la festosa "Our house", poi la ringhiosa
"Almost cut my hair" e infine "Teach your children", preghiera laica per
un futuro migliore. Tutto (o quasi) secondo menù, con un pubblico già
contento di riconoscere in Crosby e Nash i ragazzi di un tempo.
Coadiuvati da un'ottima band, due dei "Signori di Woodstock" hanno
ripercorso la loro stramba carriera fatta di lunghe pause e ribellione.
Consci di aver raggiunto l'eccellenza con altri compagni di viaggio,
hanno dato in pasto qualche piccolo classico e qualche bozzetto
interlocutorio ad un pubblico che era lì, soprattutto, per tastare il
loro polso. E per vedere se era ancora possibile, almeno per una sera,
chiudere gli occhi e sognare la California.
Emiliano Raffo, Libertà