Sgombriamo il campo da un equivoco che, francamente, ci ha abbondantemente stufato: Crosby e Nash, anche se anagraficamente sono in un età piuttosto avanzata (Crosby ha compiuto settant’anni ad agosto, Nash li compirà il prossimo febbraio), non sono “vecchi”. Di “vecchio” nel loro show, nella loro musica, non c’è nulla. Non c’è niente che sia semplice memoria del passato, nulla che suoni stantio. Vecchio è quello che resta a prendere polvere sugli scaffali della memoria, la musica di Crosby e Nash (ma anche quella che i due hanno composto e inciso con Stephen Stills e Neil Young nel corso degli anni) è invece viva, forte, appassionata, rinvigorita da innumerevoli tour, concerti, manifestazioni, alle quali i due cantautori continuano costantemente a partecipare. Vecchio è chi pensa di non avere più nulla da dire, chi pensa di non avere più alcun futuro. Crosby e Nash hanno ancora molto da dire, utilizzando brani scritti dieci, venti, trenta o quaranta anni fa, e canzoni recentissime, mettendo insieme le loro spettacolari voci. Vecchio è chi, magari avendo solo venti o trent’anni, nella musica si limita a fare un mestiere invece di praticare l’arte, chi suona e canta senza passione, chi imita invece di inventare. Vecchio è chi pensa che il rock sia roba da museo. E può essere anche vero che gran parte del repertorio che i due presentano in concerto è “classica”, che gran parte del pubblico arrivi ad assistere al concerto proprio per riascoltare i “classici”, così come si va al Louvre o agli Uffizi, ma è altrettanto vero che l’esperienza di andare al Louvre o agli Uffizi non è certo fatta solo per chi ha passato la cinquantina, godere della bellezza o dell’arte è un esperienza che non ha limiti d’età, verso l’alto o il basso. E poi, per dirla tutta, la “gioventù” non è una garanzia di qualità, d’impegno o di passione, ed è altrettanto vero che gli artisti venuti dopo non eliminano quelli venuti prima: non è che l’arrivo di Picasso abbia cancellato Leonardo, insomma.
Si può parlare male del pubblico? Beh, forse sarebbe il caso di farlo. Al concerto romano, al Teatro Sistina, erano molti i posti vuoti. E l’età media dei presenti era abbastanza elevata. Ragazzi pochi, pochissimi. Ed è un peccato. Anzi, una follia. Perché è incredibile, francamente, che non ci siano almeno duemila persone (e stiamo parlando sempre di numeri assurdamente piccoli) in una città da cinque milioni e più di abitanti, disposte a pagare un biglietto, per quanto salato, per assistere a un concerto di David Crosby e Graham Nash. E’ il luogo comune a dominare nella nostra scena culturale, anzi la somma di più luoghi comuni. Il primo, il più forte e difficile da scuotere, è quello dell’età, troppo vecchi David e Graham, bolliti, ripetitivi, in grado di scuotere al massimo le stampelle, quindi da lasciar perdere. Il secondo è che il repertorio, rock in particolare, sia ormai adatto solo agli “over cinquanta” e che la “musica di oggi” sia per forza altra. Nessuno dei due è vero, ma basta passarsi la voce, darsi di gomito, dire sorridendo che chi va a vedere Crosby & Nash è al massimo un “vecchio fricchettone”, perché tutto sembri vero. Il pubblico diserta, i giovani preferiscono affollare la sala dove si “esibisce” Hardwell. Non c’è nulla di male, ovviamente, non c’è niente di sbagliato, nell’ascoltare, apprezzare, amare Hardwell, ma mentre quest’ultimo potrà al massimo offrire divertimento, magari anche arte, legata al rapido cambiare del vento, la musica di Crosby & Nash la ascolteremo ancora per qualche decina di anni, e su questo accetto scommesse (mi piace vincere facile, come recita un recente spot pubblicitario….).
Certo, il sottoscritto parte da un “preconcetto” positivo inalienabile. Che parte da una vicenda personale: era il febbraio del 1971, i miei genitori andarono a Londra e quando tornarono, per farmi un regalo in occasione del mio compleanno, mi portarono tra dischi, che si erano fatti consigliare dal commesso di un negozio della capitale inglese. Uno era John Lennon / Plastic Ono Band, il primo disco solista di Lennon, il secondo era Watt dei Ten Years After, il terzo era If i could only remember my name di David Crosby. I Ten Years After di Alvin Lee li ho amati moltissimo, l’album di Lennon l’ho consumato con infiniti ascolti sul mio giradischi mono, ma l’album di David Crosby ha fatto molto di più, mi ha letteralmente aperto la mente. Io, dopo aver ascoltato quel disco, averlo imparato a memoria, ogni più piccolo particolare, ogni singola nota, non sono stato più lo stesso. Dopo aver ascoltato quel disco mi è stato chiaro cosa volessi, come volevo vivere, chi volevo essere, dove volevo andare. Ancora oggi, quando ascolto quei brani, quell’album, le sensazioni che provo sono profonde, straordinarie, fortissime. E compatisco chi non ha avuto la gioia di provarle, chi non conosce e non ama quella musica. Compatisco chi non sa sognare, chi non immagina per se e per gli altri un mondo diverso e migliore, chi non si lascia cambiare da quello che ascolta, da quello che legge, da quello che vede. Compatisco chi non ha mai ascoltato If i could only remember my name e non ha capito che poteva vivere meglio. Io, ieri sera, mi sono commosso, divertito, entusiasmato, ho ricordato ancora una volta il motivo per cui mi piace essere al mondo, le cose che amo e che sogno per me e per gli altri, la passione per la musica, per l’arte, per la poesia, per l’immaginazione, per la libertà.