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Everybody Knows This Is Nowhere - Rassegna Stampa


 
di Paolo Carù da Buscadero n.93 Giugno 1989 (clicca per ingrandire)


È questo un album che ha cambiato l'indirizzo musicale di Neil Young in maniera notevole. Questo non perché il cantautore abbia scelto altri itinerari o si sia lasciato influenzare da nuovi stili, ma soprattutto grazie all'incontro con il gruppo che sino a poco tempo fa lo ha accompagnato sia in sala d'incisione che nei concerti. Tre musicisti della West Coast che portano il nome di Rockets si affiancano a Neil Young diventando i Crazy Horse. Con Danny Whitten alle chitarre, Billy Talbot a basso e Ralph Molina alla batteria Young colora le proprie composizioni con una carica elettrica ancora maggiore: la sua aggressività riesce a trovare sfogo in un rock di forte impatto unito a un ottimo lavoro vocale. Neil Young e i Crazy Horse si ritrovano con gli stessi gusti, le stesse idee al punto che lo stesso cantautore in questo disco mostra già di essere un Crazy Horse, si inserisce perfettamente in quegli spazi musicali prolungati con la sua chitarra che intreccia dialoghi con lo strumento di Danny Whitten. Riascoltato oggi Everybody Knows This Is Nowhere risulta ancora uno dei lavori più piacevoli e, nonostante l'energia, anche dei più delicati di Young. Il livello dei brani contenuti nel disco è di omogeneità, di una linea che non presenta alcun calo: forse una canzone resta particolarmente significativa nella carriera di Young: “Cowgirl In The Sand”. Tra gli altri brani si ricordano volentieri anche “Running Dry” che porta il sottotitolo di “Requiem For The Rockets”, un omaggio ai Crazy Horse e al loro passato. I temi dominanti di questo lavoro sono spesso rappresentati dalle angosce della metropoli e dalle paure che non si sono mai allontanate dall'artista.
Elia Perboni, Music 1982


[…] Neil li conosce di vista [i Crazy Horse], e li apprezza sufficientemente per invitare tre dei suoi membri – Whitten, Talbot e Molina – a passare un pomeriggio con lui nella sua casa fuori città. Ha appena scritto tre brani, e vuole sentire l'effetto che fanno suonati con una band alle spalle. Quei brani si chiamano “Down By The River”, “Cinnamon Girl” e “Cowgirl In The Sand”. Basta la prova di riscaldamento perché Neil capisca di aver trovato il gruppo della vita. L'interplay tra i quattro – in particolare tra Young e Whitten, splendido chitarrista ritmico – è formidabile, come se fossero nati per suonare insieme. La settimana successiva sono in studio a registrare.
Everybody Knows This Is Nowhere, nel settembre del '69, cristallizza il colpo di fulmine tra Young e i nuovi compagni. Dei sette brani che lo compongono sono soprattutto due a fungere da paradigma per il rock. Non solo di Young, ma anche per il rock chitarristico a venire (Tom Verlaine, Steve Wynn, tanto per citare i primi che vengono in mente). Cavalcate elettriche in una sorta di – passateci l'espressione – spontanesimo rock, dove quasi tutto è buona la prima e ogni nota sulle chitarre ha senso perché è semplicemente una particella in più di sofferenza e di gioia, un lancinante desiderio e allo stesso tempo l'implorazione di un'impossibile normalità. L'approccio di Young nelle session di Everybody Knows This Is Nowhere è “free” nella metodologia, ma anche assolutamente realistico nei risultati. […] Una regola alla quale Young cercherà di rimanere sempre fedele […]. Nessun trucco di studio potrebbe riprodurre la quasi insostenibile realtà di quattro persone che suonano insieme. Parlando della prima incisione di “Down By The River”, Neil utilizza un'espressione bellissima: “in quei nastri c'era qualcosa di speciale, qualcosa che rappresenta noi che ci stavamo ascoltando a vicenda”. […]
Il riff metallico di “Cinnamon Girl” apre le danze e la title-track le smuove ulteriormente con una cantabilità tutt'altro che scontata. Poi, alle morbide tinte acustiche di “Round & Round”, “The Losing End” e “Running Dry” (quest'ultima invero assai pschedelica), rispondono in chiusura delle rispettive facciate le chilometriche “Down By The River” e “Cowgirl In The Sand”, archetipiche del modo younghiano di condurre allo strumento un tema musicale con dieci minuti di chitarre intrecciate […].
Mucchio Selvaggio Extra 2004


Una volta cessati i bagliori folk-psichedelici dei Buffalo Springfield, Neil Young aveva debuttato in proprio con l’omonimo album del 1968. Un disco splendido e variegato, benché sottostimato e trascurato dalla critica, che lo aveva riconfermato come esponente di punta della scena westcoastiana. Il sound di quell’album però era stato in alcuni frangenti un po’ appesantito dalla produzione spectoriana di Jack Nietzche, memore delle celestiali derive lisergiche di “Broken Arrow” e “Expecting To Fly” sperimentate coi Buffalo e lo stesso Young ne era insoddisfatto.
Neil decise quindi di dare una sterzata decisa alla sua musica, cooptando la garage band californiana Crazy Horse, per abbracciare quella cupa e ruvida elettricità che avrebbe costituito uno dei poli della sua intera produzione successiva. Il risultato fu Everybody Knows This Is Nowhere: un album prodigioso, certamente seminale e registrato in appena due settimane, che reinventò completamente il marchio di fabbrica del loner Canadese. Affiancato dalla duttile sezione ritmica composta dal batterista Ralph Molina e dal bassista Billy Talbot, e dal talentuoso chitarrista ritmico Danny Whitten, Neil mise in primo piano la sua chitarra elettrica. Non eccezionale in teoria, ma nei fatti strepitosa. Dolente, scorata, infuocata, libera di sfociare nel feedback e nell’improvvisazione e in grado di forgiare quel suono distorto e cacofonico quintessenziale per diversi generi dei decenni successivi, a partire dal noise e dal grunge.
A cominciare dallo splendido titolo (tutti sanno che qui è nessun luogo: “younghiano” fino al midollo), i risultati suonano ancora oggi eccellenti: sia quando Neil si mantiene dentro la grammatica pop-rock con melodie assassine appena vivacizzate da abrasive partiture fuzz (“Cinnamon Girl”, “Everybody Knows This Is Nowhere”), sia quando dilata le scorribande del “cavallo pazzo” in odissee lancinanti e visionarie. “Down By The River” e “Cowgirl In The Sand” sono in tal senso due apici insuperabili, e trascinano in un vortice chitarristico impetuoso, solcato dalla voce di Young, sempre più sicuro nell’alternare il suo celebre falsetto a rauchi sfoghi (“I shot my baby!”). Se la prima sarà per sempre un cavallo di battaglia per lunghe ed estenuanti jam dal vivo, della seconda emerge chiaramente anche il gusto melodico e un testo tra i più ispirati e toccanti di Neil, tanto che verrà spesso proposta come sofferta ballad in versione acustica, ad esempio nei tour con Crosby, Stills & Nash.
Forse meno memorabili, ma altrettanto felici sono gli altri tre episodi dell’album. “Round And Round” è una classica ballata younghiana, avvolta dal solito immarcescibile falsetto del suo autore e da una morbida, circolare psichedelia che riporta ai fasti dei Buffalo Springfield. “The Losing End (When You’re On)” è un allegro country-rock che testimonia della meravigliosa alchimia esistente tra i Crazy Horse e Neil, mentre “Running Dry (Requiem For The Rockets)” spiazza tutti con atmosfere western e dissonanti da murder ballad, solcate da un divino violino.
Un album dunque fondamentale e ancora fresco, frutto dell’irripetibile atmosfera di fine anni Sessanta. La magia non sarebbe sopravvissuta al grande freddo dei Seventies, e Danny Whitten sarebbe stato uno dei caduti illustri, rapito dall’ago e dal danno compiuto. Ma Neil Young andò avanti anche per lui.
Junio C. Murgia, storiadellamusica.it


Una sera del 1968 Neil Young decide di andare a bersi una birra al Whisky A Go Go per ascoltare il concerto di un gruppo che ha da poco pubblicato il primo disco. C’è una gran ressa ed in pochi sembrano riconoscerlo. L’attenzione è focalizzata piuttosto su quella band malmessa e assolutamente fuori moda che, nel frastuono più completo, improvvisa rock’n’roll sul piccolo palco. Si chiamano Rockets e ci danno dentro di brutto. Alla fine del concerto Neil Young decide d'incontrarli e di portarseli alla tenuta di Topanga Canyon per suonare un paio di canzoni che ha scritto, tutte d'un fiato, in una notte di febbre alta. La ricostruzione storica di quel primo, memorabile incontro è piuttosto controversa; qualcuno dice che siano state spente le luci e, sul primo dei due tremolanti accordi di “Down By The River”, si sia liberata una tale dose d'alchimia da trasformare i Rockets in un cavallo impazzito e schiumante. Una volta riaccese le luci, probabilmente dopo aver suonato ininterrottamente per tutta la notte, i Rockets hanno già cambiato nome in Crazy Horse ed accettato la proposta di Young di registrare un disco, tutti assieme e ed esclusivamente dal vivo, allo studio Wally Heider di Los Angeles.
Con Everybody Knows This Is Nowhere si apre così uno dei capitoli più affascinanti della storia del rock.
Neil Young si rivela come un musicista eclettico capace di sentirsi a proprio agio nel ruolo di folksinger (“Round And Round”) così come in quello di un chitarrista sul rock più spinto (“Cinnamon Girl” e “Cowgirl in The Sand”) dimostrando anche di essere un precursore raggiungendo sonorità (“Running Dry (Requiem For The Rockets)”), che Bob Dylan, con qualche anno di ritardo, andrà ad esplorare più attentamente nel suo Desire. Questa doppia personalità (o tripla se ci aggiungiamo anche l'indomito sussulto country) trasforma Everybody Knows This Is Nowhere nel lavore più godibile, se preso nella sua completezza, dell'intera discografia di Neil Young. Non il più bello forse (per Harvest bisognerà aspettare ancora qualche anno) ma certamente il più facile da ascoltare tutto d'un fiato.
Questa sindrome da dottor Jackill and mister Hide (non riuscirei a descriverla altrimenti) rischierà di rovinare i lavori futuri a partire dall'immediatamente successivo After The Gold Rush. In Everybody Knows This Is Nowhere invece si sente ancora un "fil rouge" tra i brani in scaletta e l'atmosfera che viene a crearsi con un brano non va mai a spegnersi con l'inizio dell'altro. Questo collante, molto probabilmente, è dato dall'entusiasmo dei Crazy Horse.
John Robbiani, universomusica.com

 
Everybody Knows This Is Nowhere (1969), il primo album prodotto da David Briggs, annuncia invece una personalità più complessa, e, soprattutto, un chitarrista di primo piano. L'album contiene infatti lunghe omelie dal sound pesante, sostenute dal ritmo e dagli intrecci strumentali di un complesso rock (Crazy Horse) e trafitte dalle stigmate lancinanti della sua chitarra. Il brano più rock è un boogie marziale, “Cinnamon Girl”; il più impegnato è “Losing End”; i due affreschi più estesi sono “Cowgirl In The Sand”, dieci minuti di sincopi graffianti che si sublimano in un soave ritornello folk, e “Down By The River”, jam onirica all'insegna di un folk-rock rarefatto. Il chitarrismo violento e nevrastenico trasferisce nell'alienazione urbana le sue storie ancora da menestrello bucolico, e lascia intravedere dietro gli scenari stereotipi dei grandi spazi liberi le dolorose convulsioni della sua generazione, dilaniata dalla droga, dai disordini, dalla paura. Young fa oscillare le sue ballate fra i due estremi del folk scarno, solenne, arcaico, e del rock grintoso, elettrico ed arrangiato. Il tono della sua voce, una specie di tenore in falsetto, si piega ora al pathos più sublime ora al vigore più maschio.
Piero Scaruffi


[…] Neil ricorda di alcuni ragazzi incontrati a Los Angeles quando, appena arrivato dal Canada, frequentava le sale discografiche alla ricerca di un futuro plausibile […]. Si chiamano Rockets, lui li ribattezzerà Crazy Horse e lo scalpitio, i fremiti di irreversibile splendore e acidità del cavallo pazzo lo accompagneranno ovunque fino ai giorni nostri.
Dopo appena sei mesi è pronto il secondo capitolo: si chiama Everybody Knows This Is Nowhere e mostra per intero le fervide potenzialità di Young, finalmente alle prese con una musica asciutta, energetica, forte di una sintesi accorta e intelligente. I Crazy Horse non sprecano una nota, Young dimostra di avere un’anima da vero cocker dietro la corteccia del cantautore. Rimossa la patina di interprete opaco del disco precedente, qui Young morde e lascia tracce che si ricorderanno, a confermare che nella sua lunga carriera non sempre riuscirà a fare dischi belli e buoni, ma comunque importanti. “Running Dry”, per esempio, è una canzone dolorosa e grave, un lamento sottolineato dal violino spettrale di Bobby Notkoff (“Sto vivendo solo con me stesso, ho bisogno di qualcuno che mi conforti…”); “Cinnamon Girl” è una ballata lieve e orecchiabile; “Cowgirl In The Sand”, insieme a “Down By The River”, il manifesto musicale, uno dei punti più alti raggiunti su vinile (“Salve donna dei miei sogni…” e già una raffica vivissima di colori e flashes in punta di chitarra). Everybody Knows This Is Nowhere ebbe un ottimo riscontro commerciale (disco d’oro, permanenza di quasi due anni nella Top 200). Ma il vero business per Young inizia nell’estate di quel 1969: accetta di entrare nel supergruppo più amano della storia. Crosby, Stills e Nash lo vogliono al loro fianco […].
da Enzo Gentile, introduzione a “Neil Young” (Arcana 1982)

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