La scelta dell’album perfetto di Neil Young implica una
domanda di fondo: elettrico o acustico? Lunghe schitarrate e assoli o atmosfere
malinconiche e melodiche? Insomma, Everybody Knows This Is Nowhere o Harvest?
Il rocker canadese ha saputo trovare una via di mezzo tra le sue due opposte
anime, quel After The Gold Rush uscito nel 1970, giusto a metà tra i due
capolavori citati. Ma un punto a favore di questo Harvest, quarto disco solista
uscito nel 1972, rimane indiscutibile: è con la chitarra acustica in mano che
Young ha riscosso i maggiori successi di pubblico.
Quando pubblica questo disco, Young è ad una fase cruciale
della sua carriera. È un affermato artista, non solo solista ma anche con
CSN&Y, con i quali ha appena pubblicato il doppio live 4 Way Street, dopo
il capolavoro Dejà Vu. E arriva in cima alle classifiche dei singoli con “Heart
of gold”, singolo tratto da Harvest. Poco dopo, soffocato da tanto successo,
imboccherà una svolta discutibile con il progetto Journey Through The Past,
certamente più complesso di questo semplice e diretto disco di country-rock. In
seguito tornerà ai suoi massimi livelli, inanellando una serie di capolavori
per tutti gli anni ’70, per poi disperdersi nei primi anni ’80 con dischi
sperimentali e un po’ inconcludenti.
Harvest, con le sue ballate, rappresenta il vertice di un tipo di scrittura a
cui Young tornerà spesso. Canzoni imbevute nella tradizione folk e country
(“Harvest” e “Heart of gold”), blues (“Are you ready for the country”), ma
spesso rilavorate con arrangiamenti anche complessi, come dimostra l’orchestra
di “A man needs a maid” e “There’s a world”, entrambe prodotte da Jack
Nitzsche. Solo due episodi, “Alabama” e “Words” presentano chitarre elettriche.
Le canzoni, per lo più, parlano semplicemente d’amore, con
alcune vistose eccezioni, come il capolavoro assoluto di questo lavoro: “The
needle and the damage done”, straziante racconto di un amico che si sta
perdendo nella droga: “Ho visto l’ago e il danno subito, ce n’è una parte in
tutti noi, ma ogni drogato è come un sole al tramonto”.
Young tornerà spesso a queste atmosfere, si diceva: nel 1992, a 20 anni esatti
dall’uscita di Harvest esce il suo ideale seguito. L’ultimo lavoro di studio
del Nostro, Silver & Gold è un altro disco acustico. Certo è che, in questo
settore della produzione del cantante, le vette di Harvest non verranno mai più
raggiunte.
Gianni Sibilla
Chi non ha mai visto questa bucolica copertina in un negozio
di dischi? E chissà quanti ricordano Harvest solo come una copertina, quando
invece entra di diritto nelle pietre miliari della musica…
Nel 1972 Neil Young è ormai un cantautore amato e affermato
nel panorama musicale mondiale. Ha già regalato la sua prima perla "heavy
country" (Everybody Knows This Is Nowhere) con i Crazy Horse, e un disco
fondamentale per il country rock come After The Gold Rush. Inoltre, dal 1969
collabora con David Crosby, Graham Nash e Stephen Stills al progetto Crosby
Stills Nash & Young, che già ha dato al rock capolavori come Dejà Vu (1970)
e 4 Way Street (1971). Con Harvest il canadese solitario raggiunge il suo
massimo successo di vendite e, nonostante Jack Nietzsche si ostini a inserire
le pesanti orchestrazioni che caratterizzarono i primi album di Young, il disco
è una gemma. Nel 1972 (anno fertilissimo musicalmente parlando) le atmosfere
bucoliche (“harvest" vuol dire "raccolto") e tipicamente
"on the road", la dolcezza delle ballate acustiche, l'energia dei 2
pezzi elettrici contribuirono a vincere la gara sull'hard rock e sul
progressive. Harvest fu il disco più venduto del 1972, mettendo in riga lavori
come Thick as a Brick dei Jethro Tull e Machine Head dei Deep Purple. Venne
registrato a Nashville nel 1971, con gli Stray Gators (Ben Keith, Tim Drummond,
Kenny Buttrey, Linda Ronstadt e James Taylor), ma uscì solo nel 1972 perché
Young fu sottoposto nel frattempo a un intervento chirurgico alla schiena. Gli
ingredienti per un album spiccatamente country-rock ci sono tutti…
Il raccolto si apre con una splendida ballata acustica,
"Out on the weekend", che riprende il tema del "loner"
(“see the lonely boy out on the weekend"), il solitario, ovvero l'autore
stesso, oltre la malinconia amorosa. La title track "Harvest" è il
secondo pezzo, la cui linea non varia rispetto a "Out on the
weekend": dolce ballata country con argomento amore bucolico.

Con "A man needs a maid" il discorso si fa più
autobiografico. Young canta la sua infatuazione per Carrie Snodgrass, l'attrice
di Diario di una casalinga inquieta (da qui il titolo). Il romantico pensiero
del cantautore e la sua inimitabile vocina mantengono a galla un pezzo
fortemente appesantito dal superfluo apporto dell'orchestra. La paura di
ascoltare timpani e violoncelli anche negli altri pezzi svanisce subito con la
meravigliosa "Heart of gold", in testa alle classifiche di mezzo
mondo per tutto l'anno. Forse la più bella ballata dall'inizio della sua
carriera, "Heart of gold" è una pietra preziosa della musica, il
classico pezzo da ascoltare da soli o con una persona speciale, magari
guardando fuori dal finestrino di un treno o guidando verso un tramonto estivo.
La pedal steel di Ben Keith, l'armonica, la chitarra acustica, e la magica voce
di Young si fondono in qualcosa di incredibilmente musicale e melodioso, una
sensazione di pace interiore, qualcosa di profondamente catartico.
E dopo questa valanga di emozioni, il classico momento
scherzoso che ha caratterizzato anche After The Gold Rush: "Are you ready
for the country?", un breve pezzo di chiusura di facciata A (si parla
sempre in termini di 33 giri).
La facciata B si apre con un altro brano memorabile (la cosa
fantastica di Harvest è che su 10 canzoni 7 sono storia), "Old man",
altra ballata acustica che coinvolge anche il banjo (strumento principe del
country classico). Fino a "Old man" abbiamo ascoltato testi molto
easy, canzoni d'amore, solo leggermente introspettive. Ma ciò che ha
contribuito a questo grande successo culturale e commerciale è stata anche la
tematica "impegnata", trattata dal canadese da sempre con grande
umanità, evidenziandone i tratti della vita quotidiana. Young ce ne dà un
assaggio con "There's a world", forse il pezzo meno riuscito
dell'album, probabilmente a causa dei soliti arrangiamenti per orchestra di
Jack Nietzsche. Il testo è di difficile interpretazione, ma sembra aprire uno
spaccato più serio nel disco. Infatti il pezzo che segue è "Alabama",
inno antirazzista che va a fare coppia con "Southern man" (da After
The Gold Rush) sul tema delle colpe dei sudisti in materia di schiavitù. Per
il canadese l'Alabama si macchiò di crimini indelebili ("Alabama, you've got a weight on the shoulder
that's breaking your back, your cadillac has got a wheel in the ditch and a
wheel on the track"). Il pezzo fu motivo di litigio con i Lynyrd Skynyrd, che successivamente
difesero l'Alabama e i sudisti in "Sweet Home Alabama".
La sfilata di storia della musica ancora non è finita, anche
perché il pezzo seguente è la famosissima "The needle and the damage
done". Al tema del razzismo, sempre caro a Young, segue quello della
droga, ancora più importante per l'autore. L'umanità e la disperazione con cui
egli parla all'amico chitarrista Danny Whitten (che poi morirà) è a dir poco
commovente. "I sing the song beacause I love the man, I know
that some of you don't understand... A little part of it in everyone", è proprio questo il
dramma della canzone: l'amore per l'amico in quanto uomo e la comprensione per
la terribile situazione. Il tutto interpretato dalla sua vocina straziante, con
la sola chitarra acustica ad accompagnarlo.
Dopo la riflessione, la consueta cavalcata elettrica. Il
pezzo che saluta il pubblico è la lunga, splendida "Words (beetween the
lines of age)" con un bel cambio di tempo all'inizio e l'energia
inimitabile che caratterizza ancora oggi l'anima rock del canadese, nonostante
le "rughe del tempo".
Angelo Pierantoni
Mettersi a
scrivere di un album come Harvest è quanto di più difficile un recensore si
possa accingere a fare perché, a parte la notorietà del disco in questione –
dubito che vi sia davvero qualcuno che non abbia mai visto questa copertina, e
se così fosse inizierei seriamente a preoccuparmi – e i milioni di copie
vendute, il quarto lavoro solista di Neil Young è a tutti gli effetti un album
imprescindibile quanto a bellezza e contenuti, e mettersi a parlare di esso è
quasi inutile. Però siamo qui a fare il nostro sporco mestiere, e se leggendo
questa recensione qualche amante della Musica che ancora non ne possiede una
copia deciderà finalmente di provvedere, o se anche solo qualcuno decidesse di
riascoltare questa meraviglia, allora non potremo che essere soddisfatti.
Harvest uscì nel 1972 e sebbene Neil Young ancora oggi ricordi quanto fu facile
(«Harvest was just easy») buttar giù la decina di pezzi che avrebbe composto il
disco, la sua pubblicazione dovette subire un ritardo di un anno circa:
infatti, nel 1971 Neil dovette operarsi alla schiena per una duplice ernia, ma
nonostante ciò egli stava vivendo un momento particolarmente felice nella
propria vita, felicemente innamorato della sua fidanzata di quegli anni, Carrie
Snodgress («I was an in-love and on-top-of-the-world-type guy»). Quello che
pervade l’intero album è dunque un mood felice e positivo, fatta eccezione per
un paio di momenti drammatici di cui diremo in seguito, che riflette anche
l’ottima situazione in cui l’album fu registrato, fra Nashville e Londra. Alla
realizzazione di Harvest prese difatti parte uno staff totalmente nuovo che
riuscì ad assecondare perfettamente i desideri del rocker canadese. Nelle vesti
di produttore, Elliott Mazer – molto noto nella scena folk e in quella country
di Nashville – sostituì David Briggs, collaboratore storico di Neil; gli Stray
Gators furono invece la band che accompagnò il nostro, una specie di
supergruppo i cui membri vantavano già un’ottima esperienza: il bassista Tim
Drummond aveva suonato nientemeno che in un'altra pietra miliare come Blonde on
Blonde di Bob Dylan e in seguito avrebbe suonato e scritto pezzi anche con J.J.
Cale; Ben Keith fu l’abile chitarrista che permise finalmente a Neil Young di
inserire una chitarra pedal steel in un suo album; infine, il batterista Kenny
Buttrey fu anch’egli con Dylan in Blonde on Blonde. Se a questa valida band
aggiungiamo poi la presenza di artisti come Jack Nitzsche, James Taylor e Linda
Ronstadt, più due brani accompagnati dalla London Philarmonic Orchestra,
possiamo ben capire come gli ingredienti per dar vita a un capolavoro ci
fossero tutti. In quei mesi a Nashville (febbraio - settembre 1971), dove si
era recato per partecipare allo show di Johnny Cash, Young diede vita a quello
che sarebbe stato il suo album più venduto di sempre: nel 1994 Harvest conseguì
difatti il quarto disco di platino, mentre il singolo “Heart of Gold” fu
l’unica hit #1 nella carriera di Neil, avendo raggiunto quella posizione nelle
chart americane il 18 marzo 1972.

Quello che fu il lato A del vinile di Harvest
contiene alcune fra le ballate più belle mai realizzate nella storia del
country-rock e non solo. Il disco si apre con la delicata “Out on the weekend”,
una classica ballad da viaggio in cui Neil sembra volerci coinvolgere nella
gita musicale che sta per intraprendere, in cerca della sua Carrie, alla quale
è appunto dedicato il brano che dà il titolo all’album. Accompagnato dalle
soavi note del piano di John Harris, Neil Young in “Harvest” dà vita a una
delle sue interpretazioni più toccanti, calandosi perfettamente nel ruolo del
trovatore solitario che canta della promessa fatta alla donna che ama. Non
esistono davvero parole che possano rendere giustizia alla bellezza di questa
canzone, qui semplicemente la storia del rock tocca una delle vette più alte e
non possiamo che invitare al suo ascolto chi ancora non lo avesse fatto. “A man
needs a maid” assieme a “There’s a world” è forse l’episodio che ha fatto sì
che Harvest venisse considerato comunque un album minore rispetto a capolavori
come After the Gold Rush, On the Beach o Tonight’s the night: Neil Young e Jack
Nitsche registrarono questi pezzi dal vivo nel marzo 1971 con la London
Symphony Orchestra, una produzione certamente notevole ma che ancora oggi ci
sembra stonare con la musica di Neil, fatta essenzialmente di un approccio più
rustico e semplice, che giammai ha necessitato di pomposità simili. Ad ogni
modo, si tratta di due buoni brani in cui la drammaticità è fatta sicuramente risaltare
dall’uso dell’orchestra, anche se certamente non sono annoverabili fra i
capolavori di Neil. Bob Dylan negli anni ’80 ammise candidamente di aver odiato
“Heart of Gold”, non riuscendo a capacitarsi di come non avesse potuto
scriverla lui, visto che la sentiva terribilmente sua, e questo giudizio
schietto del grande Bob credo sia il miglior tributo che Neil Young abbia mai
ricevuto per questa canzone, che riprende in parte il tema di “After the Gold
Rush”, con l’icona dell’eroico minatore che attraversa vaste lande in cerca
dell’oro e soprattutto di sé stesso. La “Are you ready for the country”, ai cui
cori ci sono le inconfondibili voci degli amici David Crosby e Graham Nash, è a
modo suo un tributo a uno dei più grandi bluesmaster di sempre: Neil raccontò
di essere stato ispirato da un giro di blues di Howlin’ Wolf che l’amico
Nitsche stava suonando, e che fu puntualmente ripreso in questa
Nashville-ballad. Di “Alabama”, anch’essa con Crosby & Nash, si disse molto
per via di una presunta querelle coi Lynyrd Skynyrd: il tema dell’americano
“southern” razzista e cattivo aveva già caratterizzato l’amara “Southern Man”,
e corse voce che la band di Ronnie Van Zant avesse composto “Sweet Home
Alabama” in tutta risposta al “nemico”; in realtà, non vi fu nessuna acredine
fra le due parti, fra Young e gli eroi del southern vi era una grandissima
stima, tanto che Ronnie vestiva spesso t-shirt raffiguranti l’artista canadese
durante i concerti, proprio come nella foto dell’artwork di Street Survivors.
In “Old Man”, altro esempio di perfetta ballata country, possiamo apprezzare il
fantastico coro di voci ad opera di Linda Ronstadt e del grande James Taylor
(che si occupò dei cori anche in “Heart of Gold”), alle prese anche col banjo,
ma il miglior brano del lato B di Harvest è sicuramente “The Needle and the
Damage done”: registrata dal vivo presso la UCLA University, in questa lenta e
disperata ballata acustica Neil canta il dolore per la prematura scomparsa di
Danny Whitten, membro dei Crazy Horse morto per overdose. Le atmosfere country
hanno ormai ceduto il posto al folk d’autore, e la drammatica ”Words” chiude
con grande intensità l’album. Altro non resta da dire, Harvest rientra
certamente fra quegli album storici che almeno una volta bisogna sentire e del quali
molti si sono innamorati. Neil Young forse non ha raggiunto in esso la
perfezione che ha caratterizzato altri suoi lavori, ma questo disco rientra a
tutti gli effetti fra le migliori cose da egli prodotte, e la bellezza delle
composizioni presenti in esso ci permettono sicuramente di annoverarlo fra gli
album immortali della storia della musica. Da scoprire, se ancora non ne avete
avuto modo.
Fabio Rezzola
Neil Young ha realizzato dozzine di album nella sua infinita
carriera, ma nessuno di questi riuscirà mai a scalzare Harvest dal gradino più
alto del podio. Non tanto per l’intrinseca qualità (notevole, ma non superiore
a quella di altri lavori del canadese, da After The Gold Rush a Rust Never
sleeps passando per il capolavoro On The Beach), quanto per i consensi di
pubblico raccolti, per le peculiari fragranze che hanno saldato il country-rock
al filone westocastiano attraverso il personalissimo prisma del suo autore e
per l’influenza esercitata su una moltitudine di musicisti.
Come tutte le pietre miliari, Harvest è stato sezionato,
analizzato e sviscerato, al fine di carpire il segreto di un incantesimo che
non smette di ammaliare a 35 anni dalla sua creazione, forte di melodie e
soluzioni sonore di impareggiabile semplicità e bellezza.
Qualcuno azzarda a mettere in evidenza i pochi difetti (le
orchestrazioni un po’ ridondanti di Jack Nietzsche in un paio di episodi in
primis), mentre è quasi del tutto decaduto il celebre appunto mosso dal critico
di Rolling Stone Dave Marsh a suo tempo: ossia che il sound di “Harvest”
avrebbe banalizzato e deturpato, rendendolo accessibile alle masse, il marchio
West Coast. Certamente Young passò al raccolto di un credito maturato nei
cinque anni precedenti. La scelta di registrare parte dell’album a Nashville fu
un tributo a quel country-rock che stava conquistando sempre più consensi, dopo
il rivoluzionario Sweetheart of the Rodeo dei Byrds (persino Bob Dylan fu
contagiato dal virus di Gram Parsons, pubblicando l’emblematico Nashville
Skyline). Ma fin dai tempi dei Buffalo Springfield, il Canadese aveva saputo
maneggiare una impareggiabile vena folk, resa unica dalla sua voce fragile, dal
fingerpicking e dal lirismo sprigionato. Intarsiare tali prerogative con
calibratissimi arrangiamenti di steel, slide e banjo fu dunque un logico passo
successivo. La morbidezza, il nitore di buona parte di Harvest non scadono mai
nel flaccido: è il Neil Young più sereno e ispirato, l’architetto della
solitudine, della ricerca di sé stessi e dei propri sogni nei grandi spazi
aperti della tradizione americana.
Se il minimalismo percussivo ( il batterista quasi rifugge
indietro senza perdere l’ondeggiamento necessario), il senso di sospensione
estatica e la frugalità melodica ispireranno diversi sotto generi ( dal mellow
country all’indie-folk), l’apparente serenità younghiana in Harvest riflette le
speranze della generazione baby-boomers nel riflusso di Woodstock, ancora
ubriaca di innocenza, un attimo prima che il vento degli anni Settanta spazzi
via tutto. Apparente perché in alcuni brani non mancano di allungarsi le
nevrosi personali dell’autore e foschi accenni alla crescente disillusione dei
tempi mutanti, culminate in particolare nei due pezzi che concludono l’opera.
Va detto che lo stesso Canadese, come sempre inquieto artisticamente, rifuggì i
bagliori del canovaccio harvestiano, temendo di rimanere intrappolato in un
cliché. I passi successivi saranno quelli scorati e sfocati della “trilogia
maledetta”, tanto devastante umanamente quanto superba artisticamente, per poi
sfociare nel solare Zuma, l’album della svolta e del ritorno coi Crazy Horse.
Harvest si apre con il soffuso incedere di “Out of the
weekend”, autentico manifesto dell’opera: riflessiva e contagiosa, permeata da
una tenue malinconia da fine estate enfatizzata dal magnifico lavoro di pedal
steel di Ben Keith e dagli inconfondibili soffi di armonica di Neil. Il tema
del pezzo è un classico di Young: la fuga dalla alienazione metropolitana verso
gli spazi aperti, autentico luogo della mente. Assieme a Lou Reed, il buon Neil
è stato tra i più lucidi interpreti rock dell’angoscia contemporanea. Ma se
Reed ha sempre affrontato i suoi demoni rimanendo fedele alla dimensione
cittadina (la campagna l’avrà forse vista solo in cartolina), Young è appunto
il cantore della fuga, delle visioni apocalittiche (in celeberrimi pezzi come
“Broken Arrow” o “Last trip to Tulsa ) che in Harvest si sublimano in un
restauro interiore pacato e sognante, da realizzare negli infiniti orizzonti
dell’America più vera.
La title-track approfondisce magistralmente tale solco: una
delle più toccanti canzoni d’amore di Young, un soave numero country-rock in
cui l’impalcatura è retta dal pianoforte. Come sempre folgoranti sono la
sincerità e la vulnerabilità di un Neil stavolta messosi nei panni del trovatore
solitario impegnato a mantenere la promessa alla donna amata, il tutto con
liriche incisive quali “Will I see you give more than I can take? Will
I only harvest some? As the days fly past /will we lose our grasp /Or fuse it
in the sun?” .
Segue “A man needs a maid”, spesso considerata la pietra
dello scandalo: per il pesante inserto orchestrale della London Symphony
Orchestra e per un testo accusato di misoginia, come già accaduto alla
celeberrima “Cowgirl in the sand”. Sul primo argomento, è indubbio non tanto
che il fraseggio pianistico venga appesantito, quanto che ben più geniali erano
stati gli arrangiamenti lisergici di Nietzsche ai tempi di “Expecting to fly”
dei Buffalo Springfield. L’accusa di misoginia invece è francamente ridicola.
Dopo aver tratteggiato lo spaesamento della sua generazione all’inizio della
decade, Neil ipotizza un riflusso nel privato, sciorinando appositamente il
peggiore stereotipo del rude maschio bisognoso soltanto di una cameriera: per
poi sciogliersi nell’ammissione delle proprie paure e fragilità con parole
dolcissime quali “To give a love, you gotta live a love. /To live a love, you
gotta be "part of" /When will I see you again?”.
“Heart of gold” è invece un brano che ha sempre messo
d’accordo tutti: quei quattro accordi di chitarra, gli inserti di pedal steel,
il suadente controcanto di Linda Ronstadt e James Taylor forgiano un brano
perfetto. Neil ci mette un’interpretazione asciutta nel descrivere la figura
dell’eroico minatore in cerca dell’oro e dell’amore, muovendosi ai margini di
quella “fine line” descritta nel testo come quella linea immaginaria in cui si
schiudono le nostre utopie, trovandola in questi tre minuti perfetti tangibile
e vicina. “Heart of gold” è uno di quei brani in grado di restituire la più
pura accezione al rock, unificante linguaggio comunitario dei giovani, ma Young
nutrì per esso un rapporto di amore-odio, temendo di essere considerato alla
stregua di un John Denver per l’eccessiva orecchiabilità. Anni dopo infatti
dirà: “Heart of gold mi mise al centro della strada. Viaggiare lì divenne
rapidamente noioso, così mi spostai nel fossato. Una cavalcata più difficile,
ma in cui incontrai gente più interessante”. La prima facciata del vinile si
chiude col divertissement di “Are you ready for the country?”, brioso sunto
impreziosito dalle voci di Crosby e Nash.
Le danze riprendono subito con un'altra epitome dell’album,
“Old man”. Grandi vedute e folgoranti liriche che fungono da specchi in cui
riflettersi fanno da sfondo ad una delle melodie più limpide e struggenti mai
create da Neil, con un fulgido banjo che si impossessa dei suoi dubbi, Una
perfetta ballata country, che lascia senza fiato nel magistrale refrain. Con
“There’s a world” tornano invece gli azzardi di certe partiture d’archi, con
tanto di rintocchi di campane che inficiano leggermente una tema cristallino (
la versione solo voce e piano è uscita nel recente Live at Massey Hall, ed è
certamente migliore).
Il tono dell’album cambia improvvisamente mentre ci si
spinge verso l’epilogo: “Alabama” riprende la vena anti-razzista della
celeberrima “Southern Man” con impeto persino maggiore. Indimenticabile il
roccioso attacco di chitarra: la sei corde elettrica torna inaspettatamente a
ruggire, increspandosi tra le pieghe del pianoforte e delle armonie
westcoastiane targate Crosby-Stills e regalando un solenne incedere. Neil
dipinge con un mirabile gioco di rimandi e immagini l’universo sudista (“Your
Cadillac has got a wheel in the ditch / And a wheel on the track”) e innescando
la celebre polemica con gli amici-rivali Lynyrd Skynyrd, che gli dedicheranno
la celeberrima “Sweet home Alabama” in risposta.
A quel punto arrivano i due minuti registrati dal vivo di
“The Needle and the damage done”:in quell’arpeggio morboso – evidente omaggio
al Bert Jansch di “Needle of death”- e nello straziante cantato di Neil si
materializza l’altra faccia del sogno hippie, la droga che si porta via le
menti migliori di una generazione. La discesa negli inferi della dipendenza del
chitarrista dei Crazy Horse Danny Whitten, poco prima che l’ago se lo portasse
via, fa percorrere un brivido lungo la schiena, anche ascoltandola per la
millesima volta, dalle dolci e ingannevoli spire del “Cellar door” all’amara
profezia finale del “every junkie is like a setting sun”. Assolutamente
straniante è lo stacco dagli applausi, che chiudono il mitico brano, al
violento attacco di “Words (Betweene the lines of age)”, l’episodio che chiude
Harvest con una feroce e sfibrata cavalcata chitarristica, costituendo il
contraltare elettrico del pezzo precedente.
Quasi un sibilo malefico e distorto col quale cala il
sipario di un album epocale, fotografia irripetibile del momento in cui la
somma illusione rock del 69 – ossia che una società alternativa, basata sulla
musica, fosse possibile – stava definitivamente tramontando. Niente sarebbe
stato più come prima. Neil Young attraversò il buco nero di quella decade
sfoderando la sua arte migliore, per poi tornare sei anni dopo, nel 1978, al
celestiale sound country-rock su Comes A Time, una volta lenite le sue ferite e
uscito dal tunnel. Se guardate la bucolica copertina di quell’album potrete
scovare l’unico sorriso di Neil mai apparso in cover: lo stesso che abbiamo
noi, ogni qualvolta ascoltiamo le prime note di Harvest.
Junio C. Murgia, storiadellamusica.it