Live It Up (1990)
Dal 1968, e per più di
trent'anni una della cose per cui si ricorderanno Crosby, Stills &
Nash (con Young a raggiungerli qua e là) è l'estenuante, continuo
tira-e-molla tra riunificazioni e abbandoni, nuovi ritorni e scomparse.
L'altra cosa è la musica, quella dei primi anni, quella di Dèjà vu, del
superbo live Four Way Street. Non mancano poi, purtroppo, solenni
schifezze, concerti patetici, dischi raffazzonati com'è questo del 1990,
dopo l'ennesima dipartita di Young. Tralasciando l'orribile copertine
(con quelle salsicce sospese sopra una terra fumetto), quel che viene in
mente è una parola: tristezza. Cosa dire ascoltando queste canzoni,
trascinate senza brio né poesia, con un invisibile Crosby, il dilagare
di un Nash che ha vissuto momenti migliori al desolante ammucchiata di
super-ospiti (Hornsby, McGuinn, Frampton, il clarinetto di Marsalis) che
di certo non lasciano un segno in questo malinconico circo viaggiante.
Là dove il marasma dei suoni e l'aridità compositiva dei singoli brani
raggiunge momenti imbarazzanti, e in cui gli assoli della chitarra di
Stills suonano come gli ultimi baluardi di un passato irraggiungibile.
da "Dischi da Evitare" di Mucchio Selvaggio
Solitamente non è
bene giudicare un disco o un libro dalla copertina. In questo caso,
però, Crosby, Stills e Nash nello spazio che mangiano wrustel – è questa
più o meno l'idea che suggerisce, sbaglio? – non si fanno prendere
molto sul serio.
Che sia il punto
più basso della loro discografia è fuor di dubbio, tuttavia non lo si
può bollare come spazzatura punto e basta. Non sono tanto le canzoni ad
affossare questo album, metà delle quali pregevoli (anche se spesso
scritte in collaborazione o da terzi), ma la colpa è il sound.
Siamo tra il 1989 e il 1990 e al trio non è bastato lo scarso successo di American Dream (CSN&Y, 1988) per decidere di ritornare al sound trasparente che li caratterizzava ai bei tempi. No, Live In Up fa un passo in più nella direzione sbagliata (leggi sintetica) risultando molto peggio del suddetto American Dream. Col senno di oggi queste canzoni suonano alla stregua di una composizione in midi, non so se mi spiego. Fortunatamente CSN sono rinsaviti subito dopo, e nel 1994 li ritroveremo con il bello After The Storm (titolo quantomai azzeccato).
Siamo tra il 1989 e il 1990 e al trio non è bastato lo scarso successo di American Dream (CSN&Y, 1988) per decidere di ritornare al sound trasparente che li caratterizzava ai bei tempi. No, Live In Up fa un passo in più nella direzione sbagliata (leggi sintetica) risultando molto peggio del suddetto American Dream. Col senno di oggi queste canzoni suonano alla stregua di una composizione in midi, non so se mi spiego. Fortunatamente CSN sono rinsaviti subito dopo, e nel 1994 li ritroveremo con il bello After The Storm (titolo quantomai azzeccato).
Un
brano pregevolissimo, per esempio, è “House Of Broken Dreams” di Nash:
si staglia nitidamente in mezzo agli altri ed è l'unico a non essere
distrutto dalla veste sonora. Un'altra bella composizione è “Haven't We
Lost Enough?” (“Non abbiamo perso abbastanza?” risposta: stavolta sì,
decisamente) di Stills, la cui chitarra sembra suonata in una navicella
spaziale, ma se facciamo lo sforzo di immaginarla dal vivo in formato
chitarra + voce, diventa interessante. Meriterebbero una seconda chance
“Yours And Mine” e “Arrows” (cantate da Crosby), “If Anybody Had A
Heart” e “After The Dolphin” (Nash), “Tomboy” (Stills).
Nelle note all'interno dell’antologia Reflections,
Nash racconta che il Dolphin (dell'omonima canzone) era un pub di
Londra colpito dalle bombe della Prima Guerra Mondiale. “House Of Broken
Dreams” deriva invece dal nomignolo dato da David Gilmour (Pink Floyd)
alla casa al mare di Nash.
Sul
resto, inclusa la title track (che richiama molto “American Dream”) si
può benissimo sorvolare (e specialmente su “Got To Keep Open”, brano la
cui oscenità equivale a quella della copertina). In definitiva,
seppur lontani dalle emozioni dei '70 e dai nuovi, ottimi brani che
verranno nei '90, qui CSN sarebbero stati comunque da due-tre stelline,
purtroppo decimate dalla terrificante realizzazione. Per fortuna le
canzoni migliori hanno avuto un'altra chance (anche se la versione è la
stessa) nel contesto dei box-set antologici: “Arrows” è presente in Voyage di Crosby e ben tre di Nash sono presenti nel suo Reflections.
Personalmente, quando le sentii per la prima volta pensai fossero buone
quasi quanto tutto il resto (nonostante l’ostico sound anni '80). Il
fatto che questi box set valorizzino la musica che contengono, in
particolare quella meno famosa e più sparpagliata, è un valore
importante che li rende un must (quindi optate per quelli piuttosto che acquistare Live It Up).
MPB, Rockinfreeworld (postato originariamente su BeatBlog2)