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After The Gold Rush - Rassegna Stampa (pt.1)



Neil Young aumenta la propria popolarità diventando il quarto componente del supergruppo Crosby, Stills, Nash & Young. È forse in questo periodo che Young rivela ancora una volta la sua strana personalità. Gli è difficile riuscire a mantenere rapporti continuativi con gli altri (e forse i Crazy Horse rappresentano l'unico caso). Mentre il quartetto incide due dischi rimasti storici, Dejà Vu e 4 Way Street, Young cerca nuovamente la solitudine e spesso si esibisce in piccoli locali come ai primi tempi. Continua anche la sua attività di solista e pubblica, nel 1970, After The Gold Rush. Soprattutto nell'impostazione vocale tutto il lavoro risente dell'esperienza con CSN. È questo un disco abbastanza sofisticato rispetto alle precedenti produzioni di Young che ha sempre preferito una musica maggiormente schematica e d'impatto. Nell'album sono presenti anche due latri musicisti notevoli. Il primo è l'amico Steve Stills (che Young conosceva da diversi anni, sin dai tempi dei Buffalo Springfield) e il secondo è un giovane musicista, appena diciassettenne ai tempi di questo disco, che porta il nome di Nils Lofgren (tastiere e chitarre). Presenti anche i Crazy Horse che si adattano al clima spesso più acustico che tutto il lavoro offre. Neil Young comunque non cerca mai, dal punto di vista musicale, di puntare alla troppa ricercatezza. Preferisce che la parte sonora sottolinei semplicemente le intenzioni dei temi lasciando che sia l'interpretazione della voce ad arrivare direttamente, a colpire l'ascolto. Infatti Neil anche quando è solo con la sua chitarra (e in questo album sono diversi gli episodi del genere) non fa sentire alcun vuoto dal punto di vista musicale: con la sua voce riempie con suggestione questi spazi. Nel disco spicca senz'altro “Southern Man” che resta nel tempo uno dei suoi brani più conosciuti.
Elia Perboni, Music 1982


[…] After The Gold Rush (agosto 1970), una sequenza avvincente di undici brani, equilibrati tra i colori pastello di “Till The Morning Comes” e “Only Love Can Break Your Heart” e le pagine arroventate di “Southern Man” dove, come spesso gli accade, non rinuncia a schierarsi […] usando parole e una musica acre come per diverso tempo non gli accadrà più. In quel periodo di lui diranno: “Parole come amabile, bello, romantico non possono essere spesso applicate a un album rock, ma non ci sono neppure molti album come After The Gold Rush. È un gioiello fragile e delicato. Nei momenti migliori del disco la voce disarmante e soffice di Neil, la strumentazione frizzante sono parentesi dolci e quasi terapeutiche in quest’epoca di aggressioni a base di rock.” […] Oltre ai innumerevoli attestati di questo genere, il disco fu votato nel referendum del Malody Maker come miglior album dell’anno, mentre Young ebbe il riconoscimento come numero 1 nelle classifiche degli interpreti e degli autori.
da Enzo Gentile, introduzione a “Neil Young” (Arcana 1982)


[…] Sembrano essere anni meravigliosi: Young ha ancora il contratto come solista e pubblica After The Gold Rush, del '71, un capolavoro che non riuscirà più a bissare in futuro. Il successo è più grande di quello che Young aveva sognato ma i suoi problemi aumentano giorno dopo giorno: per il carattere introverso del canadese tutto diviene molto penoso e alcune parole scritte nelle canzoni diventano profetiche, l'odio per la vita da superstar e verso tutto quello che comporta.
Le canzoni di Young si fanno sempre più cupe, nascondono messaggi di morte; visioni e metafore spesso risultano incomprensibili, spesso parlano dell'insofferenza alla violenza, come “Southern Man” e “Ohio”, quest'ultima scritta dopo l'uccisione di quattro studenti alla Kent State University durante una manifestazione contro la guerra.
Il Ku Klux Klan (Young si era avventato contro i razzisti in “Southern Man”) gli fa pervenire lettere minacciose e la polizia californiana prende a controllare la sua casa, ma Young non ha problemi nel rilasciare pesanti dichiarazioni in interviste infuocate. […]
La grande enciclopedia del Rock


Il biennio '69-'70 ha qualcosa di magico per Neil Young, che nel giro di pochi mesi mette insieme i tasselli principali della sua leggenda: a quel punto può già vantare nel "curriculum" la militanza in una band seminale come i Buffalo Springfield, due album solisti (di cui uno – Everybody Knows This Is Nowhere – strepitoso) e il non trascurabile onore di essere la "Y" del marchio CSN&Y, autori dell'epocale Dejà Vu (cui seguirà un tour dall'incredibile successo). Cos'altro poteva fare il Nostro se non dare alle stampe quello che in un impietoso sondaggio tra i fan rischierebbe seriamente di essere eletto come il miglior album della sua carriera?
After The Gold Rush esce nell'agosto del 1970, ed è una raccolta di canzoni straordinarie, un autentico manifesto poetico, la migliore commistione possibile tra country e rock, combinazione ora armoniosa e ora frizzante, capace di rabbia furiosa, dolcezza estrema, epica da terra promessa e languide carcasse di utopie.
L'inizio è affidato alla zampettante "Tell Me Why", che potrebbe essere soltanto un acquarello folk, chitarra e voce col supporto di un ineffabile coro a cinque (tra gli altri Stephen Stills e Nils Lofgren), e invece si rivela uno degli episodi più subdolamente inquieti di Young, come sottolinea l'inflessione del suo canto a metà tra falsetto e lamento, come una sonda nel ventre molle del disagio, come un rimpianto e assieme la consapevolezza agghiacciante dell'inevitabilità delle cose. Impossibile, poi, dimenticare i primi ascolti della successiva "After The Gold Rush", quella sensazione spiazzante di delicatezza e disperazione, l'ultima cosa che ci si può aspettare di trovare in un disco rock: un piano in bilico sulla fragilità di quella voce ferita, l'onirica presenza dei corni, la fuga immaginifica e velleitaria di una illusione antica, tra tempo sconfitto e prospettive perdute, solidificate nell'immagine/archetipo del razzo spaziale/seme d'argento lanciato nello spazio, nella velleitaria ipotesi di nuove inseminazioni e sviluppi futuri (un po' come nel "Blows Against The Empire" di Kantner).
"Only Love Can Break Your Heart" potrebbe essere a ben ragione definito un western-valzer claudicante e sghembo, divertissement vagamente alla The Band, contagiato da una cinica amarezza che gli conferisce penombre agghiaccianti, come se negasse in nuce l'eventualità stessa che prospetta. È invece un'espettorazione rabbiosa la linfa di "Southern Man", invettiva sferzante contro la mentalità del sud, contro l'ottusità di un razzismo incistito fino alla radice dell'anima, con quel volo radente di chitarra lanciata in un fraseggio abrasivo, il piano incalzante e la voce di Young doppiata e sorretta da un coro solidale: un pezzo leggendario, destinato ad anni di brucianti apoteosi live (straordinaria la versione presente su 4 Way Street). Breve contrappunto bucolico è la marcetta di "Till The Morning Comes", intarsio semi-orchestrale che rivela la presenza in cabina di regia di Jack Nizsche, strategicamente piazzato a stemperare la tensione, prima della comparsa di "Oh, Lonesome Me", l'unico brano non a firma Young (è di Don Gibson), con la vena country più scoperta in una ballata dal sapore molto agro e poco dolce, nel quale ogni volta piace ritrovare quegli strappi di chitarra e quella presenza salvifica del piano, con l'armonica abbandonata di Young a sfarfallare lingue di fuochi solitari, con il povero drumming di Ralph Molina colto in flagranti pulsazioni nude: una di quelle canzoni, quest'ultima, che fanno la differenza tra un grande e un povero disco, perché è in questi ultimi che di norma i brani "minori" sono meri riempitivi, figli sciatti della mano sinistra.
Il concetto di ballata è un'ipotesi sdrucciolosa, e Young ama scivolare sui piani inclinati dell'indefinibile: "Don't Let It Bring You Down" ci mette con le spalle al muro, imbastisce una ritmica trattenuta ma incontenibile, un'energia compressa che sfrigola sul basso di Billy Talbot e sul piano deciso di Nils Lofgren, per poi esplodere e stemperarsi nella magia di un chorus che regala un po' di calore alle raggelanti visioni del verso. A mio avviso, una delle più belle canzoni in assoluto del canadese, coraggiosa nella forma (col terzo chorus che segna una netta cesura nonché il topos stesso del pezzo), ben suonata e interpretata, sinuosamente melodica e portatrice di un'inquietudine scapestrata, nonché del sottile mistero tipico di ogni leggenda.
"Birds" rappresenta l'altra faccia del nostro loner: solo piano e voce, in una delle sue più struggenti melodie, con quel contrapporsi di "tomorrow" e "today" appoggiato al capoverso come a insaporire l'insostenibilità del distacco, di ogni distacco, lasciando aperto – come sempre – uno spiraglio d'anima.
Ma Neil Young è anche un rocker, non scordiamolo: infatti "When You Dance I Can Really Love" scava un solco di chitarre sfibrate e voce al limite dell'estensione, basso corposo e raptus ritmici del piano, mentre la batteria con Molina fa quel che può e deve. Va da sé che si tratta di un altro "must" live. Ballatona soavemente malinconica e da cuore in mano è la successiva "I Believe In You", che - lungi dall'essere una sciropposa dichiarazione d'amore – scava nel punto di frizione tra un rapporto a due, disegnando confini di incomprensione e affetto, di rancore e fiducia, con il chorus che precipita in uno spogliarello integrale di sentimenti mentre un coretto in vena di understatement alza molto opportunamente il tiro dell'ironia.
La chiusura è affidata al country folk sgangherato di "Cripple Creek ferry", basso e piano in prima linea a sostenere l'evoluzione ondivaga di una melodia a suo modo indimenticabile, travestito da innocuo omaggio alla tradizione con l'insidia di un messaggio che si comincia a intuire sul fading conclusivo, con l'immagine minacciosa degli "alberi incombenti" contro la chiglia del Cripple Creek, emblema (?) di tutto quello che allora (e oggi) il grande Neil vede come origine dei tanti dolori del mondo.
Nello Giovane


Neil Young è uno dei pochi musicisti che dopo 30 anni di attività è ancora capace di proporre un discorso musicale che non sia solamente autocelebrativo. Considerato come il padre del grunge, viene continuamente citato come fonte di ispirazione da musicisti molto più giovani di lui: da Michael Hedges a Kirk Hammet dei Metallica, dai Soundgarden, ai Nirvana (nel disco Sleeps With Angels sembra che il brano omonimo sia dedicato alla memoria di Kurt Kobain), fino ai Pearl Jam con i quali ha prodotto il disco Mirror Ball con il relativo tour.
After The Gold Rush venne stampato nel luglio del 1970 ed un disco dove convivono le diverse anime del musicista canadese. Vi si trovano struggenti ballate acustiche, ma anche nervosi brani elettrici dove la visione "acida" di Young ha modo di palesarsi in tutta la sua potenza. Il disco contiene alcuni pezzi diventati dei classici del suo repertorio, come “Southern Man” (forse il brano più noto del disco) continuamente riproposto dal vivo in versioni sempre molto "sporche" e dilatate (in 4 Way Street ne venne pubblicata una versione della durata di oltre 13 minuti). La descrizione del sud degli USA che Neil Young fece in questo pezzo non piacque ai Lynyrd Skynyrd che in risposta scrissero l'altrettanto celebre “Sweet Home Alabama”. Altri gioielli del disco sono la stessa “After The Gold Rush” (in seguito ripresa in versione strumentale da Michael Hedges nel suo disco Aerial Boundaries), l'inquietante “Don't Let It Bring You Down” o la traccia di apertura del disco stesso con tanto di chitarra acustica suonata in perfetto Carter Family Style. Tra i musicisti presenti nel disco da ricordare i Crazy Horse (trio composto da Talbot, Molina e Whitten che a più riprese ha legato il suo nome a quello del canadese), l'amico-rivale di sempre Steve Stills e un allora poco più che diciassettenne Nils Lofgren, che in seguito suonerà con Lou Reed e che poi ritroveremo nella E-Street Band di Bruce Springsteen). Da notare che il disco si colloca nel tempo subito dopo la pubblicazione di Dejà Vu, (disco uscito a nome del supergruppo Crosby, Still Nash & Young) e prima di Harvest il cui successo commerciale ha fatto passare in secondo piano questo After The Gold Rush. Ma a riascoltarli oggi questi due dischi rischiano di apparire leggermente datati, troppo legati alle emozioni e ai sentimenti di quel tempo. Mentre After The Gold Rush appare più completo nel raccontare l'universo musicale del canadese.
Tutte le canzoni sono scritte da Neil Young ad eccezione di "Oh, Lonesome Me", scritta da Don Gibson. La maggior parte delle canzoni vennero ispirate dalla sceneggiatura di un film, scritta insieme a Dean Stockwell, dal titolo omonimo, ma che non fu mai girato.
Nino Gurgone


A seguire il quasi altrettanto ispirato Everybody Knows This Is Nowhere dell'anno precedente (quello di “Cinnamon Girl”, “Cowgirl In The Sand” e “Down By The River”), il terzo album solistico di Neil Young chiude per qualche tempo il sodalizio con i Crazy Horse e inaugura la stagione d'oro del loner canadese naturalizzato californiano, che di lì a poco raccoglierà colossali consensi con il supergruppo CSN&Y e sbancherò le classifiche inglesi e americane - un doppio n.1 - con il quarto lavoro in proprio, Harvest. È un folksinger rock malinconico ma non eccessivamente cupo, quello che emerge dai solchi di After The Gold Rush, abile nel trattare in modo diverso da chiunque altro - aiutato in questo dall'inconfondibile timbrica lamentosa - la materia tradizionale e la classica forma ballata; e anche impetuoso nello scardinare le porte del cuore di chi lo ascolta con canzoni sobrie e insinuanti, impreziosite dalla sanguigna delicatezza tipica del miglior sound della West Coast. Da “Tell Me Why” e “Only Love Can Break Your Heart”, da “Don't Let Bring You Down” a “Birds”, da “When You Dance I Can Really Love” fino all'epocale “Southern Man”, un trionfo della melodia carezzevole ed evocativa, in grado di far male. Fino alle lacrime.
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Dopo aver chiuso con i Buffalo Springfield e aver intrecciato le sue vicende soliste con i Crazy Horse, nel 1970 Young stringe una storica collaborazione con Crosby, Stills e Nash. Ma la sua anima inquieta gli impone di voltare le spalle a un presente luminoso per entrare ancora nella sua solitudine. La copertina del suo terzo album, After The Gold Rush, è emblematica: Neil cammina solo, indifferente alle lusinghe del mondo, reso alieno dal bagliore innaturale del suo viso. Un gigante che va avanti per la sua strada, controcorrente, che sembra trascinare con sé la minuscola figura anziana che gli cammina accanto.
C.M., Le copertine più belle del rock, Rockstar

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