On The Beach - Rassegna Stampa (pt.3)
Prima i fasti di Dejà Vu e 4 Way Street assieme ai CSN, poi
l’apoteosi tradizionalista (in chiaroscuro) di After The Gold Rush e Harvest,
ovvero come catapultarsi tra le stelle nel giro di un clamoroso biennio
(‘70-’71). Subito dietro l’angolo, però, attendeva l’inferno: crisi epilettiche
ed esistenziali, il tonfo clamoroso di Journey Trough The Past (disco e film),
la tragica morte dei compagni d’avventura Danny Whitten e Bruce Berry. Un
periodo terribile insomma, ma arrivato sull’orlo dell’abisso Neil Young vi
gettò il suo sguardo più lunare, fragile e indifeso, licenziando dischi aspri e
magnifici come Tonight’s The Night, Time Fades Away e, appunto, On The Beach.
Buttate uno sguardo all’immagine di copertina: sotto quella sabbia ci può
essere di tutto. Sopra, un mistero di spalle, il chiacchiericcio dei colori, le
carcasse delle utopie. E quel mare senza sorriso. Ora sapete cosa aspettarvi.
Si parte con “Walk On”, il suo zampettare decadente e
festoso, tra pennate sornione, riccioli di steel guitar (Ben Keith), il
drumming pimpante di Ralph Molina e quella voce (quelle voci) che acciuffano
l’ultimo miraggio per spingerlo ancora avanti, lungo una decade dimenticata da
madre natura. Come dire, è solo un gioco, ma in campo c’è la polpa dell’anima.
Il wurlitzer suonato da Young in “See The Sky About To Rain”
sembra fatto della stessa materia dei sogni, brusio evanescente di rimpianto e
speranza, mentre quel pezzo di storia che risponde al nome di Levon Helm detta
fruscianti direttive ai tamburi, il solito Keith ritaglia lacrimose virgole di steel
e un certo Joe Yankee chiosa un buffetto d’armonica che sembra la cresta di un
cuore. Che tipo, questo Yankee: probabilmente lo stesso Young sotto pseudonimo
per dissimulare la sovraincisione, salvaguardando ad un tempo l’aspetto da
“live in studio” del disco e la propria fama di bizzarro ad oltranza.
Chiamati David Crosby alla chitarra ritmica e Rick Danko al
basso (saltellante incognita black dalla vena oscura e capricciosa), confermato
Helm alla batteria e dirottato Keith al wurlitzer, ecco prendere il via
“Revolution Blues”, aspra ballata degna del miglior Dylan (quello lucido e
impietoso di “Vision Of Johanna”, per intenderci) ma come raggelata e sul punto
di sputare l’ultimo grumo di rabbia: lo squinternato canadese vomita un assolo
così scomposto e angoloso che ti chiedi da dove gli esca, da quale parte
anatomica o spirituale, ma è senz’altro in mezzo al petto che va a schiantarsi,
per non farsi più dimenticare.
La successiva “For The Turnstiles” è una specie di
interludio country-blues con Ben Keith al dobro e Neil al banjo, le voci che si
sfiorano graffiandosi, su quel frinire di corde scabro come polvere sul fuoco,
come a preparare il proscenio all’organo succhiasogni (è ancora Keith!) di
“Vampire Blues”, quadratura implacabile di basso e batteria (simbiotici e
lunari, Tim Drummond e Molina) strapazzata da stacchi rasposi di chitarra e da
quel canto storto, distante, incarognito: nella sua asciuttezza nasconde il
segreto di mille vibrazioni, ogni frase il segno di un’inquietudine irrisolta,
nelle vetrose evoluzioni dell’hammond l’immagine stessa del gelido orrore
moderno. Finisce il primo lato, bellissimo, eppure ciò che segue lo fa sembrare
solo un antipasto.
In un riverbero di corde smaniose ecco “On The Beach”, che
tra percussioni volatili e un wurlitzer defilato (a cura di sir Graham Nash)
diventa subito crepuscolo e rimpianto, allucinazione triste su orizzonte
chiuso: nessuno scampo tra le brevi parabole degli assolo e il canto
sprezzante, spoglio, sperduto, come sabbia su miraggi da soffocare.
Non mancano segni d’amore, come quello nebbioso e
vulnerabile di “Motion Picture” (dedicata a Carrie Sondgress, attrice e
compagna del periodo), traccia costellata di magici trapassi e pervasa dalla
delicata ombrosità di un Tim Buckley: magnifici il controcanto della slide (è
il country man Rusty Kershaw) e quell’armonica inerme e dolorosa come una
ferita.
L’album termina con la febbrile “Ambulance Blues”, j’accuse
disperato e acida critica al disfacimento morale statunitense (l’ultima strofa
è chiaramente rivolta al Watergate dello sbugiardato Nixon), un susseguirsi di
fotogrammi come sputi in faccia, come nere rovine davanti al mare, ingoiati da
un trepidante dialogo di fiddle (ancora Kershaw) e armonica, rabbia dolciastra
sul tramonto di tutte le prospettive: forse i nove minuti migliori mai
partoriti da Young. Ed è tutto dire.
Stefano Solventi
Di questo
disco si è sempre parlato molto, anche su queste pagine, a dispetto del fatto
che per quasi trent'anni sia rimasto accessibile solamente a chi ne aveva la
copia in vinile. Ufficialmente Neil Young non era soddisfatto della tecnologia
sonora dei CD, ma è pur vero che aveva permesso la ristampa in questo formato
di quasi tutto il suo catalogo, mentre On The Beach veniva rimandato a
oltranza, quasi a tenerlo nascosto per una sorta di pudore o di vergogna (anche
dal vivo le sue canzoni sono state ignorate per molto tempo). Allora
occorrerebbe ragionare più in profondità, entrare nelle pieghe del disco e del
periodo "maledetto" in cui è stato partorito ma, ovviamente, non è
questa la sede per simili lungaggini. In quei mesi il Bisonte è costretto dagli
eventi a guardarsi dentro (i primi segni della sua malattia, quella appena
scoperta del figlio Zeke, la morte crudele dei suoi amici, la vita balorda nel ranch,
l'incomprensione con i discografici...) e farlo profondamente, senza maschere.
Con un disco rifiutato e sempre rimandato (lo splendido Tonight's The Night) e
un mondo che gli si rivolta contro, anche la "star" di
"Harvest" soffre nel sentirsi solo, incompreso e smarrito, ma rifiuta
di darsi per vinto. È su questo colpo di coda, o rigurgito di orgoglio se
preferite, che nascono le canzoni di On The Beach, con un nucleo insolito di
collaboratori che ruotano attorno al violinista hippy Rusty Kershaw. "Sento
gente che sparla di me, fanno il mio nome e se lo rigirano...si facciano gli
affari loro e io mi farò i miei" sono le prime parole del disco sputate in
faccia a qualcuno (“Walk On”); ma l'accanimento verso i suoi "nemici"
è forte anche nelle frasi conclusive dell'album: "Non ho mai conosciuto un
uomo che sapesse dire tante bugie. Ne ha una diversa per ogni paio
d'occhi..." (“Ambulance Blues”). In questo contesto di feroce cinismo e
disillusione, Neil partorisce il suo disco più bello, intimo, affascinante,
sofferto, esposto e perciò disperato (forse è questo che ha voluto sempre
custodire). Eppure non si patisce di dolore come ascoltando le canzoni di
Tonight's The Night e anche gli scenari più da incubo sono esterni, quelli che
ricordano le efferatezze di Charles Manson (“Revolution Blues”). Un disco
purificatore allora. Ma per far rinascere se stesso da questi incubi di morte,
il Bisonte trascina nel suo baratro anche l'America e lo fa nella sua canzone
forse più enigmatica e ricca di fascino di sempre (“Ambulance Blues”).
Trent'anni sono tre quarti della mia vita e sono davvero molto felice di averli
passati con questo disco sempre sul "comodino".
Pier Angelo
Cantù, Late For The Sky
Il Neil Young del 1974 è in preda ad uno dei suoi soliti
trip, artista anarchico e fuori da qualsiasi logica commerciale, sta portando a
compimento una sistematica distruzione del successo ottenuto nei due anni
precedenti. Le vette artistiche e di pubblico raggiunte con Harvest sono
lontane mille miglia e Neil si chiude in una ermetica depressione che lo
conduce attraverso gli abissi degli anni settanta. Nascono le sue opere più
controverse e ispirate di quel periodo, gioielli nascosti, dischi seminali che
al tempo ricevono accoglienze piuttosto fredde da parte della critica e fanno
infuriare il pubblico west-coastiano, abituato alle dolcezze di “Heart of Gold”
e “Out on The Weekends”. La ristampa tanto agognata di On The Beach riaccende i
riflettori su uno dei dischi ingiustamente più snobbati della sua carriera, un
capolavoro oscuro e in tono minore che delinea perfettamente i paesaggi di
desolazione umana vissuti da quella generazione di musicisti. Mentre il resto
della ciurma californiana è ancora perso nei sogni di gloria o peggio si è
fatto inghiottire dallo star system, Young mette a nudo la situazione nella
controversa “Revolution Blues” (con Rick Danko e Levon Helm della Band e David
Crosby alla ritmica). Ma è tutto On The Beach ad essere controverso:
dall'apertura solare di “Walk On”, con i Crazy Horse al completo, si sprofonda
nella malinconia di “See The Sky About to Rain” e non si ritorna più a galla.
La produzione non da segni di vita, tutto suona spoglio e vero, anticipando il
tormento del successivo Tonight's The Night (1975), ode blues all'amico
scomparso Danny Whitten. Anche On The Beach è infarcito di blues, in senso lato
e più a livello di spirito: la già citata “Revolution Blues”, l'ironica
“Vampire Blues” e la lenta ipnotica chiusura con “Ambulance Blues” ne sono la
prova più evidente. Ma anche gli episodi più strettamente roots non abbandonano
questo senso di stringente malinconia: dalla sofferta “For the Tunstiles” alla
dolce “Motion Pictures” le ambientazioni non cambiano. Il senso di tutta
l'operazione è racchiuso proprio nella title-track, amara riflessione di un
artista osannato eppure tremendamente solo e insicuro: "I need a crowd of
people, but I can't face them day to day [...] I went to
the radio interview, but I ended up alone at the microphone".
Fabio Cerbone
Una volta
Neil Young disse “…non sono quel tipo tranquillo con l’acustica a tracolla…”.
On The Beach del Luglio 1974 viene subito dopo il planetario successo di
Harvest e il flop del quantomeno improbabile Time Fades Away. Il 1974 sarà un
anno disastroso per il canadese, la droga ucciderà di li a poco il suo
chitarrista Danny Whitten ed il rodie Bruce Berry mentre il suo matrimonio si
dissolverà poco più avanti. Nella splendida copertina del disco campeggia bene
questa ansia da calma prima della tempesta, Neil è solo su una spiaggia sotto
un cielo pallido che sembra non promettere niente di buono. Spesso è proprio da
tali sentimenti che nascono le opere più belle e On The Beach ne è un perfetto
esempio, da annoverare sicuramente tra i quattro o cinque capolavori assoluti
del loner canadese. L’apertura è affidata alla solare “Walk on” tradita solo
dalla voce strozzata di Neil, segue “See the sky about the rain” dove i toni
cominciano a farsi più cupi e riflessivi. “Revolution blues” e “Vampire blues”
sono i due brani neri del disco, il cantato di Neil continua ad essere molto
basso e nasale, frutto del largo uso di Honey Slides (frittelle di marijuana e
miele) durante la registrazione dell’album. “For the turnstiles” e “Motion
pictures” sono le tipiche ballate younghiane, banjo, armonica, chitarra
acustica e cori che rimandano ai fasti di CSN&Y. Il capolavoro del disco è
la traccia che dà il nome all’intero album, “On the beach” si apre sulle note
di una tetra chitarra distorta prima che Neil pronunci l’esaustive parole “ il
mondo sta girando, spero non scappi via…, entro nella cabina per l’intervista,
e mi ritrovo solo davanti al microfono…” in queste frasi c’è tutto il Neil
Young di quel periodo, ma anche dell’America e del suo sogno che proprio in
quel periodo comincia a scricchiolare per sparire del tutto nei paranoici anni
90. Chiude il disco “Ambulance blues”, stralunata ballata dal testo visionario
che rimanda agli esordi di “Last trip to Tulsa”. Gli amanti del Rock non
possono prescindere da questo disco, gli omaggi della nuova scena verso il
loner canadese non si contano, dal compianto Cobain ai REM per non citare
gruppi un po’ più sconosciuti ma ugualmente interessanti come gli Embrace o i
Thrills.
Patrizio Schina
Il viaggio
nell'oscurità prosegue con On The Beach (1974), disco che sarà rimasterizzato
in cd solo trent'anni dopo, ulteriore testimonianza di come il dolore riesca a
fornire a Young una livida vena creativa. Tutto è desolato, a cominciare dalla
copertina, con un mare opaco, un ombrellone deserto, una Cadillac affondata
nella sabbia e un Neil Young di spalle, quasi a impersonificare la solitudine.
Gli iniziali bagliori rock di "Walk On", con i guizzi di Ben Keith
alla slide guitar, si offuscano presto nel brusio di "See The Sky About To
Rain", una ballata commovente, solcata dal piano Wurlitzer e dagli arpeggi
malinconici della steel guitar, e con il mesto drumming di Levon Helm ad
assecondare il bisbiglio di Young. Più movimentata "Revolution
Blues", che vibra della chitarra dell'ospite David Crosby e del basso
funky di Rick Danko, prima che Young prenda l'iniziativa con un assolo allucinato
e con un lamento sorretto solo dalla forza dei nervi, preludio al caos finale.
Seguono due blues: "For The Turnstiles", cartolina da un'America
rurale anni 30 con Ben Keith al dobro e Young al banjo, e la struggente
"Vampire Blues", con il canto rasposo di Young, i palpiti agonizzanti
del basso di Tim Drummond e un organo "mistico" che scioglie per un
attimo la tensione. Dopo il requiem psichedelico della title track (con Graham
Nash al Wurlitzer) e la ballata notturna di "Motion Pictures (For Carrie)",
ecco gli otto minuti di "Ambulance Blues" a riassumere i contenuti
dell'intera opera: un atto d'accusa contro il disfacimento morale americano,
scandito dal battito a mani nude di Molina, e cullato tra i sospiri del violino
di Rusty Kershaw e i sibili dell'armonica di Young.
ondarock.it
On The
Beach (1974), il primo disco in studio in quasi due anni, per lo più acustico,
era invece una profezia apocalittica, un concentrato di angoscia e terrore.
Ballate isteriche ispirate al folk rurale del Sud (“Walk On”, “Revolution
Blues”, “For The Turnstiles”) fanno da contraltare al monologo acustico di
“Ambulance Blues”, che svetta in tutta la sua truculenta calma per otto intensi
minuti. Con queste opere Young rinnegava la sua carriera in un malinconico
stile confessionale che capovolge esattamente quello del "loner"
delle origini, pur partendo dalle stesse premesse di
"solitudine".
Piero Scaruffi
On The
Beach, uscito nel 1974, è uno di quei dischi che inspiegabilmente sono rimasti
inaccessibili fino ad oggi: è infatti, anche riascoltato oggi, un capolavoro
assoluto e forse uno dei migliori dischi di tutta la discografia del Canadese.
Dopo i fasti del successo con CSN&Y e con i suoi famosissimi primi album
(soprattutto l’immenso successo che ottennero After The Gold Rush rush e
Harvest) Young entra in crisi come uomo e come artista e complice la morte per
droga di alcuni carissimi amici comincia ad esplorare il lato buio del successo
e della vita e si dedica ad una meticolosa opera di distruzione del suo stesso
mito fino a partorire uno dei capolavori del rock più sofferti e disperati che
si ricordino, quel Tonight's The Night che la casa discografica in un primo
momento gli rifiutò e che poi venne pubblicato due anni dopo, nel 1975. On The
Beach, pur venendo cronologicamente prima di Tonight's The Night, è stato
composto dopo ed è per questo che risulta anomala la sua collocazione nella
discografia younghiana: è anch’esso un disco pieno di malinconia e disperazione
anche se deboli raggi di luce arrivano a rischiarare la profonda notte della
depressione e del dolore. La stessa immagine di copertina – Young di spalle
sulla spiaggia che contempla immobile e assorto il mare e l’orizzonte – la dice
lunga sul carattere introspettivo di questo disco dai testi particolarmente
ermetici e dalla musicalità quasi liquida (musicalmente è uno dei dischi più
affascinanti e atipici del primo Young). A testimonianza di come le cose belle
rimangano nel tempo ed anzi crescano, On The Beach a quasi trent’anni dalla sua
prima pubblicazione, rimane un disco bellissimo e un tassello fondamentale per
conoscere Young.
Marco Re