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Weld - Gli articoli di Buscadero


L’uscita del doppio Weld e dell’EP Arc, entrambe a firma di Neil Young, non fanno che confermarci una sensazione che ci accompagna da tempo: Neil Young è uno dei pochi sinceri sperimentatori della storia del rock. Il concetto di sperimentazione, si sa, va sempre preso con le molle, soprattutto nel caso del rock, musica popolare la cui storia è purtroppo attraversata da miriadi di millantanati innovatori. Anche nel caso del canadese in questione, il concetto di sperimentazione non è privo di implicazione confuse e devianti: era forse sperimentatore il Neil Young computerizzato di “Computer age”? Si può parlare di sperimentazione a proposito delle frecciate elettroniche di dischi come Landing On Water? Non esiterei a proporre un secco no. Sperimentare è cosa ben diversa dal buttarsi a testa bassa in territori non conosciuti, solo per il gusto di poterci sguazzare dentro. Certo, va apprezzato il coraggio, addirittura iconoclasta, per certi versi suicida, di un cantautore che abbandona il suo facile cammino per avviarsi su sentieri accidentali e del tutto sconosciuti. Ma da qui a dire che si tratti di uno sperimentatore la strada è ben lunga. Se io – del tutto negato per qualsiasi attività canora che non sia urlata – mi metto a imitare Demetrio Stratos, non sto “sperimentando”. Sto semplicemente facendo pena. Ed era questo che il bravo Neil faceva sui dischi sopra menzionati. La vera sperimentazione, nel campo della musica popolare, come ci insegna il jazz, parte dalla conoscenza diretta del terreno che si intende attraversare. Si sperimenta solo a partire da qualcosa di conosciuto, per, eventualmente, nel caso dei grandi sperimentatori, finire su terreni del tutto sconosciuti – pensate a Jimi Hendrix o ai Velvet Underground.
La reale vena sperimentale di Young è quindi da rintracciarsi nella sua abbondante produzione elettrica, dominata dal concetto del guitar rock, un genere la cui storia è tutta da riscrivere. Neil Young, invece, non è mai stato un grande tecnico dello strumento e la sua mera abilità strumentale è certamente di gran lunga inferiore a quella di un Jimmy Page o di un Duane Allman. Il suo contributo sperimentale, appunto, alla storia del guitar rock è invece di tipo strettamente strutturale: un’esplorazione delle possibilità espressive della iterazione, del feedback e della distorsione. Invece delle sciabolate di Cipollina, Young ci ha sempre proposto un rock chitarristo basato sulle grandi cavalcate, gli accordi semplici, ripetuti da più chitarre, fino alla creazione di una dimensione elettrica globale. Da 4 Way Street a Zuma, da “Like a hurricane” al monumentale Rust Never Sleeps / Live Rust, l’ex Buffalo Springfield ha illustrato ai suoi contemporanei un diverso uso della chitarra che, guarda caso, ha trovato nei ribelli del post-punk i suoi più fedeli discepoli. Non è un vezzo, infatti, che gruppi come gli Husker Du, i Dinosaur jr o i Soul Asylum, tanto per citarne tre in ordine sparso, abbiano sempre indicato Young tra i loro modelli ispiratori.
Certo, Young ha affascinato generazioni di rockettari grazie al suo melanconico charme e alla violenza della sua poesia, ma a fianco di questi tanto celebrati clichees non possiamo non mettere la straordinaria influenza musicale che egli ha esercitato. E non ci sembra affatto un caso che, quando l’anno scorso i Sonic Youth dichiararono in un’intervista che l’unico personaggio del rock classico a cui avrebbero volentieri fatto da spalla era Neil Young, il diretto interessato li prese alla lettera, invitandoli ad aprire il suo celebrato Ragged Glory Tour. Da Neil Young ai Sonic Youth corre infatti un filo rosso di cui questo Weld / Arc è la definitiva conferma. E non tanto nei rantoli elettrici dell’EP Arc, che merita di stare a fianco del Metal Machine Music di Lou Reed come una delle grandi eccentricità della storia del rock (è stato stampato in sole 25.000 copie: prendetelo prima che sparisca). Bensì, è il doppio dal vivo Weld a dimostrarci, una volta per sempre, come Young meriti un posto di maggior riguardo nella storia del rock, un posto che ne apprezzi fino in fondo la potenzialità trasgressiva. È meraviglioso vedere questo quasi cinquantenne – e i suoi splendidi Crazy Horse – suonare con una violenza e a un volume che mai prima d’ora si era concesso. Forse, grazie a musicisti come lui, non tutto il senso del rock è andato perso nelle mani dei pubblicitari televisivi per il prossimo spot della Coca Cola o del preservativo di turno…
Non per tornare su vecchie polemiche, ma come passare in silenzio il rampante ritorno in auge della musica blues? Un ritorno, guarda caso, segnato da uno stridente bipolarismo: musicisti neri (Robert Cray, John Lee Hooker, Willie Dixon, Buddy Guy, ecc…), pubblico e manager bianchi.
Non ci credete? Prendete, ad esempio, l’ennesima Blues-invasion che ha contagiato l’Inghilterra nel corso della passata estate – quattro festival all’aperto con quasi cinquantamila presenze e un significativo aumento delle vendite di dischi blues. Di che colore pensate che fossero gli spettatori di quei concerti o i proprietari di quelle case discografiche?
Andiamo in America e vediamo che la situazione è ancora più evidente. Il recente Benson & Hedges Blues Festival svoltosi a New York, oltre a essere stato sponsorizzato da una nota marca di sigarette (segno che il blues tira e che il pubblico è giovane e ha i soldi per comprarsi una marca di sigarette tra le più costose sul mercato) ha attirato una massa di facce bianche e pulite da far invidia a una riunione di giovani del partito repubblicano. Partito che, guarda caso, alla festa di Washington per l’elezione di George Bush tre anni fa, invitò a suonare in onore del presidente proprio alcuni campioni del blues e del rock ‘n’ roll tutti neri, gli unici uomini di colore – fatta eccezione per i camerieri – presenti in sala.
Ma non è finita qui. Mentre nel campo del rap, della house, del soul, i neri fanno di tutto per mantenere il controllo manageriale di una musica che appartiene a loro, il blues è completamente lasciato nelle mani di manager bianchi. Fino al paradosso di uno dei più intriganti locali blues di New York, l’appropriatamente denominato Mondo Perso, che è di proprietà di un italiano.
Non vogliamo dire con questo che il blues sia diventato una musica reazionaria o che il fatto che sia gestito da bianchi lo renda un’espressione sonora meno interessante. È invece nostra intenzione far riflettere sui percorsi sociali di una musica, sulla inutilità di certe riletture e sulla banalità di altre (tipo: il blues musica dei neri oppure il blues espressione della sofferenza dei neri: sì, forse cinquant’anni fa…). La musica, come tutti i linguaggi umani, non è monolitica: muta, si trasforma, si evolve. L’evoluzione del blues, ci sembra, ha portato questa musica a rappresentare – socialmente e espressivamente – qualcosa di molto diverso da ciò che l’aveva fatta nascere. Qualcosa, probabilmente, contraddittoria. 
Guido Chiesa, Buscadero 1991


Neil Young è rinato. Dopo quasi un decennio di delusioni si è riconquistato una numerosa massa di fan, vecchi e nuovi, grazie a due dischi molto riusciti che rispondono ai titoli di Freedom e Ragged Glory. [...] E, dieci anni dopo aver invaso il mondo con il torrente elettrico di Rust Never Sleeps/Live Rust, gioca ancora le stesse carte, ma con mano più pesante, con le chitarre più dure e fragorose, e ci regala un'altra accoppiata storica: Ragged Glory/Weld.
Weld/Arc
Due ore secche di musica, totalmente dal vivo, con la chitarra del canadese che, capelli al vento, staffila i suoi a-solo, mentre i fidi Crazy Horse cavalcano come sempre al suo fianco.
Se dovessi visualizzare la musica di Young prenderei come paragone il Kevin Costner di Balla Coi Lupi: nella musica di Young c'è la stessa ampiezza di immagini, la stessa forza interiore.
Weld è puro acciaio: due cd, due ore di musica, ed i classici di sempre rivisti con gli amplificatori aperti al massimo, quasi che ogni corda della sua chitarra avesse 2000 watt di potenza.
Le luci si accendono: il Cow Palace è gremito in ogni ordine di posti.
I Sonic Youth hanno appena finito di suonare e la gente freme: i battiti di mani si sprecano, gli applausi non si contano. Poi, finalmente, il lungo canadese e la band di cavalli pazzi appaiono sul palco, senza preamboli imbracciano gli strumenti, le luci si spengono e la musica, subito dura, invade l'aria.
"Hey Hey, My My" apre il primo lato, segue "Crime In The City", molto più indurita rispetto alla versione di Freedom.
Il terzo brano, una cover di "Blowin' In The Wind" di Dylan, è fantastico: Neil con la chitarra amplificata, senza ritmica, canta a voce spiegata la famosa melodia dylaniana. Da brivido la parte finale con le voci che diventano un piccolo coro, mentre gli applausi si fanno sempre più forti.
Un tempo inno alla pace, la canzone viene stravolta anche tramite l'uso di scoppi di bombe e rumori di spari.
"Welfare Mothers" è dura e spigolosa, ma le voci sono in netto contrasto con la parte strumentale.
"Love To Burn", abbastanza di routine, fa da apripista per una poderosa "Cinnamon Girl", un brano del '70 che il canadese non si stancherà mai di rifare dal vivo.
Le voci cantano raggruppate mentre le chitarre ricamano con forza uno dei migliori riff di rock mai scritti. La versione è decisamente lunga, con continui assoli.
"Mansion On The Hill", rilassata quanto lo può permettere una formazione come quella attuale dei Crazy Horse, si fa seguire dalla devastante "Fuckin' Up", un urlo elettrico contro tutto ciò che c'è di convenzionale.
"Fuckin' Up" si può considerare, a ragione, come uno dei brani guida del suono attuale di Young: la durezza del suono, la forza delle chitarre, l'impatto vigoroso della sezione ritmica sono il suo fiore all'occhiello per gli anni novanta.
Una versione lenta di "Cortez The Killer", con le chitarre liriche, molto discorsive, apre il secondo disco. Neil riflette sul suo passato e lascia scorrere le dita sulle corde del suo strumento.
Segue la splendida "Powderfinger", uno degli inni rock più intensi della scorsa decade, ripreso da decine e decine di giovani bands (chi di voi si ricorda la tenue versione dei Cowboys Junkies?); Neil la rivede in modo semplice.
Le chitarre sono amplificate, la ritmica mozzafiato, la sua voce perfettamente intonata. "Powderfinger", almeno in questa versione, raggiunge il massimo della sua espressione musicale: la potenza della parte musicale supporta magnificamente il cantato.
"Love And Only Love" e "Rockin' In The Free World" concludono il terzo lato. Discorsiva la prima, più dura la seconda.
"Like A Hurricane", un altro dei suoi brani storici, apre la quarte facciata: la versione, in un tripudio di pubblico, con gli amplificatori aperti al massimo, è quanto di meglio si possa attendere.
Segue una durissima "Farmer John" (un brano originariamente interpretato negli anni sessanta dalla band californiano/messicana dei Premiers e ripreso anche dagli inglesi Searchers), quindi è la volta di "Tonite's The Night" e "Roll Another Number" (entrambi erano su Tonight's The Night), giusto finale per un concerto vibrante, intenso, pieno di feeling.
Weld è stato registrato nel corso del recente tour americano ('90/'91) che il canadese ha effettuato per supportare il suo ultimo lavoro, Ragged Glory, ed è strutturato, nelle sue due ore, come se fosse una performance intera.
Buona parte del tour è stato fatto assieme ai Sonic Youth, che hanno aperto quasi tutte le date dei Crazy Horse.
L'uso del feedback, certe sonorità indurite, hanno certamente qualche cosa in comune con la band di Thurston Moore e Lee Ranaldo, anche se i giovani Youth sono in debito maggiore.
La Wea ha pubblicato, ma non in Italia, una edizione speciale del cd, tripla, aggiungendo un terzo compact (quindi niente vinile per questa versione) intitolato Arc.
Arc Weld (questo il titolo del triplo cd) contiene un brano lungo 34 minuti: sono effetti di chitarra, feedback, che Young e la sua band sono soliti fare alla fine di ogni canzone (sentitevi in Weld il finale di "Like A Hurricane" o "Tonite's The Night" e capirete).
Rumori distorti, effetti di chitarra, la ritmica che se ne va per i fatti suoi.
I feedback sono tratti da varie canzoni ma sono stati mixati a formare un unico brano molto lungo: si dice che Young abbia fatto questa scelta perché suggestionato dai Sonic Youth.
È probabile, inoltre, che Arc esca come singolo cd più avanti, entro la fine del '91.
Mentre le ultime note di "Roll Another Number" avvolgono l'aria, Neil Young, the mad buffalo o l'ultimo cavaliere dell'apocalisse o il vendicatore del rock and roll (come lo chiamano i suoi fans), lascia l'arena.
I Crazy Horse continuano a fare suoni, o meglio rumori, ma il lungo canadese non è più sul palco: la gente applaude, lo rivorrebbe.
Ma Mad Buffalo ha ormai lasciato lo stage, le luci si accendono e il pubblico sfolla.
Il Cow Palace di San Francisco ha vissuto un'altra delle sue serate storiche...
Paolo Carù, Buscadero 1991

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