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Rust Never Sleeps - Rassegna Stampa


SUL SENTIERO DI GUERRA

Tramontati i tempi legati al mito californiano, il cantautore canadese volta pagina e fa coppia con Marlon Brando: il suo ultimo long playing, infatti, è dedicato interamente ai pellerossa...
Neil Young è rimasto l'allucinato poeta del passato e del futuro terrestre: un poeta vagabondo, lunatico, introverso ma incredibilmente sempre in corsa coi tempi, schierato in un contesto inamovibile del rock statunitense da dieci anni. Il suo ultimo album è un nuovo sogno double-face che Neil ha voluto, e saputo, regalarci alla vigilia degli anni Ottanta, per chiudere degnamente, e in bellezza, i fasti sonori di questo decennio sonoro. Si chiama Rust Never Sleeps, fantomatico lavoro da tempo annunciato e ogni volta opportunamente rinviato per inserire brani e temi nuovi. Il motivo conduttore costituisce la colonna sonora di un film documentario uscito in questi giorni negli States con tutti i caratteri della pellicola privata, visibile a pochi privilegiati. Questa è la terza pellicola girata dal canadese, dopo Journey Through The Past del '72 e Human Highway dello scorso anno contenente, quest'ultima, gran parte delle composizioni presenti in Comes A Time con la partecipazione straordinaria dei Devo (gruppo new wave preferito da Young) e la dedica esplicita a Johnny Rotten. Le solite voci avevano data per probabile la riunione di CSN&Y in occasione del Woodstock Festival, seconda edizione, ma la mancata concretizzazione del progetto ha lasciato tutto in sospeso. Oggi ecco Rust Never Sleeps, un lavoro importante che riconferma il talento multiforme dell'artista. Da qualche mese circolava già un doppio lp bootleg registrato a Los Angeles in concerto con i Crazy Horse ricco di gemme sui generis, come una versione reggae di “Cortez The Killer” e tutte le nuove ballate acustiche ed elettriche del canadese. Come dire, allora, un'anticipazione sulla sua evoluzione musicale che questa mania (i bootleg, cioè) diffusissima in Inghilterra e in America ha svelato in anteprima venendo comunque a ricoprire contemporaneamente il ruolo di “rampa di lancio”. Ma vediamo nei particolari Rust Never Sleeps e la spiegazione che Neil Young dà in prima persona della sua metamorfosi che ha influenzato anche il suo genere tradizionale.
La prima parte è interamente acustica, candidamente country-folk, ricca di strani strumenti-pellerossa, testi poetici e tepees (tende indiane) volanti con la descrizione di autentiche avventure-esperienze esistenziali vissute da Young insieme a Marlon Brando, una guida chiamata Pocahontas, John Ehrichman, scrittore americano, ed altri folletti lungo le frontiere messicane sino al Perù. Confida il canadese: “Ho passato molto tempo in Perù, mentre la gente credeva che fossi ricoverato in clinica per disintossicarmi; in realtà ero con i Crazy Horse e un clan di amici come l'amico Brando, anche lui accanito difensore dei diritti civili dei pellerossa: eravamo tutti mossi da un ricerca febbrile sui nostri antenati Incas e Aztechi, guidati da un Lama immaginario, ma simile nei nostri ideali”. Ed è proprio alla luce di queste dichiarazioni, che vale la pena di andare a scoprire gli ultimi tesori musicali composti in uno spelacchiato tepee, sotto il cielo peruviano, in balia di sogni archetipi di libertà razziale. Tutti i cinque brani: “My My, Hey Hey (Out Of The Blue)”, “Thrasher”, “Ride My Llama”, “Pocahontas” e “Sail Away” vanno letti ed ascoltati in un clima di completa rilassatezza mentale. Ma Young non ha voluto dimenticare il rock dei tempi d'oro di Everybody Knows This Is Nowhere, presentando sull'altra facciata quattro brani trascinanti, sanguigni, durissimi, di alta scuola californiana acida, densi di assoli chitarristici urlanti, condotti allo spasimo giungendo sino al parossistico limite concerto punk-rock manierato alla Devo & Sex Pistols, negli accordi marcatissimi di “Hey Hey, My My (Into The Black)” e “Sedan Delivery”. Altrove il suono della chitarra di Young ricorda da vicino certe atmosfere rock di Zuma, rimandando ogni eventuale apertura stilistica ai prossimi mesi del nuovo decennio. “Il rock 'n roll non può mai morire: il Re se n'è andato ma non è stato dimenticato... è questa la storia di Johnny Rotten?” canta freneticamente questo galattico menestrello del duemila con un banjo distorto a diecimila watt, “on stage” sulla copertina dell'album. In definitiva il bilancio artistico si chiude con un drappo d'oro infilato nella sua stramba capigliatura da trapper, con un grosso punto interrogativo rivolto verso il futuro ed un occhio velato di coerente nostalgia verso il passato, irripetibile, già tramontato, eppure così vivo nella memoria da sembrare quasi una cosa naturale acquisita dalla nascita...
Sergio D'Alessio, Guerin Sportivo 1979


C'è da dire che nella discografia di Neil Young ci si capisce poco o niente: album che hanno una gestazione lunghissima e caotica, album che escono come acqua fresca da una sorgente, album che rappresentano vecchi capitoli, altri che appaiono come il futuro stesso del musicista canadese. Prendete questo Rust Never Sleeps, malinconico, una parte acustica e una elettrica, sogni urbani e richiami alla natura, una voce tanto esile da pensare che si possa spezzare da un momento all'altro, la stessa band alle spalle, i Crazy Horse, l'apporto di Nicolette Larson nella stesura di un brano, le decine e decine di volte cui si è pensato di rimandarlo. E poi, appena uscito e già veloce verso i posti alti delle classifiche internazionali, ecco la notizia di un prossimo già pronto, probabilmente con lo stesso titolo.
Questo capitolo, comunque ci fa vedere un Neil Young ancora più raccolto in se stesso. Una prima parte acustica, la chitarra, l'armonica soffiata dentro, la voce che sottolinea parole quotidiane, ma condite col sale della ispirazione più genuina. “My My Hey Hey (Out Of The Blue)”, “Thrasher”, “Ride My Llama”, “Pocahontas”, “Sail Away”, questi i titoli della prima facciata, si fondono in un tutt'unico brano, quasi si fosse tornati ai primi esperimenti della voglia del solismo, dell'intenzione di aprirsi per intero ad un pubblico simile nelle scelte umane e musicali.
E le semplici ballate della prima parte si tramutano nei sicuri e duri country-rock cui da sempre ci ha abituato con i suoi Crazy Horse sempre mantenuti da quella diligente sofferenza che copre la sua vita come una fitta nebbia. “Powderfinger”, “Welfare Mothers”, “Sedan Delivery”, “Hey Hey, My My (Into The Black)”, coprono la seconda parte con qualche immediatezza in più, non proprio coerentissimi sotto il profilo tecnico, ma pur sempre in riga con i pensieri di questo strano leader dal broncio perenne.
Così l'album si è aperto con “My My, Hey Hey (Out Of The Blue)”, ovvero “fuori dal blu” (o blues?) e viene chiuso con “Hey Hey, My My (Into The Black)”, ovvero “dentro al nero”, l'esatto contrario e una ennesima perdita che musicalmente torna ad essere una vittoria.
L'ultima nota va a alla copertina, con belle foto sia esterne che interne e contenente i testi, assolutamente necessari per poter meglio entrare in quello straordinario cosmo nel quale Neil Young vive, un po' privato, un po' compreso, difficilmente avvicinabile.
Ciao 2001, 1979

“Meglio sparire che invecchiare / meglio bruciarsi che coprirsi di ruggine” sono alcune parole tratte da “My My Hey Hey” che apre e chiude Rust Never Sleeps, un altro album nel quale si sentono forti l'anima e il cuore di Young. Egli non vuole fermarsi, adagiarsi sulla sicurezza del passato, come esprimono le parole della canzone, ma piuttosto “rischiare” di vivere. Nella prima facciata, tutta acustica, c'è il cantautore che racconta le proprie storie nei piccoli locali con la chitarra a tracolla e l'armonica a bocca; è il solitario che ti parla con la sola, dolce nostalgia. In questa prima facciata c'è nuovamente la presenza di Nicolette Larson. Nella seconda parte Neil è con i tre Crazy Horse ed è, naturalmente, lo Young elettrico e rabbioso: la sua chitarra ritmica viene usata con il distorsore mentre s'intreccia con i solismi di Frank Sampedro. Più che di duelli tra chitarre si tratta di fusione, di intuizione, ancora una volta molto forte tra Young e il gruppo dei Crazy Horse. Il cantautore accentua la sua voce, la trasforma in grintosa ed è solo il suono un po' nasale che ne ricorda anche l'artista delle ballate folk. È questo un altro disco importante nella sua discografia, nel quale le idee riescono a essere espresse senza alcun tentennamento, prive dell'indecisione, o della noia che non aveva risparmiato certe sue produzioni.
Elia Perboni, Music 1982


Young è un soggetto stimolante, adatto a una pratica psicanalitica: studiare i suoi testi e le sue traiettorie di volo non è per niente agevole, a dischi insipidi sa farne seguire altri fondamentali, in una situazione di estrema instabilità dove la contraddizione è regina. Per lui la musica è forse un accessorio di lusso, l’intelligenza, il genio artistico un optional a cui ricorrere con parsimonia: ma quando l’interruttore scatta è la luce davvero. A metà del ’79 giunge gradito e solenne Rust Never Sleeps, un felicissimo connubio tra la vena introspettiva e quella balzana del cocker che lavora a tutto volume tra gli strepiti degli strumenti. Una faccia acustica e l’altra elettrica ai confini della realtà, lusinghiere nella manifestazione della trasgressione stessa: le due anime di Young sono i aperto conflitto eppure convivono splendidamente. Provare (a ascoltare) per credere: “Thrasher” e poi “Welfare Mothers” sono dei gioiellini, mail raffronto risulta esaltante quando in parallelo si pongono le versioni A e B dello stesso pezzo, “My My, Hey Hey (Out Of The Blue)” che sembra prima un acquerello, e quindi riletto con una venatura hard-core “Hey Hey, My My (Into The Black)” un inno contro il quieto vivere: “Il rock ‘n’ roll è qui e ci resterà… è meglio bruciare fino in fondo piuttosto che dileguarsi… il rock ‘n’ roll non potrà mai morire”.
Mentre in “Powderfinger” il canadese canta con voce ce appare una rasoiata: “Il fucile di papà nelle mie mani è rassicurante…”. Alcuni passaggi dell’“electric side” sono vibranti, forti di una durezza evocativa, frastagliata, con i suoni ancora grezzi, schiumanti di rabbia e allo stesso tempo propositivi, proiettati in avanti, a sperimentare una strada di rock spietato ma intelligente (ecco la novità), prodigo per il futuro di sorprese bellissime.
Qualche buontempone, in quei tempi, diede Neil Young addirittura in procinto di inaugurare una simbiosi artistica con i degenerati new wave Devo. Illazione magari stuzzicante ma poi rimasta senza seguito concreto: ci fu invece, e questo è assodato, una certa amicizia e stima reciproca tra il “loner” canadese e i ragazzi di Akron e furono loro a suggerirgli il titolo dell’album Rust Never Sleeps (la ruggine non dorme mai) mutuato da uno slogan da loro ideato per l’agenzia di pubblicità i cui lavoravano per il lancio di un prodotto anti-ruggine.
Ancora pochi mesi, è il novembre ’79, e appare un altro album di Young, doppio; si chiama Live Rust e funziona come una scorribanda dell’artista tra stelle filanti e coriandoli del passato remoto e prossimo, una voglia di documentare se stesso attraverso il remake. Young pesca lontano, fino a “Cinnamon Girl”, fino a “When You Dance I Can Really Love”, per arrivare alla immancabile, sussultante “Tonight’s The Night”, alle ultime puntate di “My My, Hey Hey”. Il recupero a volte sconcerta e disturba i puristi, arrangiamenti secchi e straziati, canzoni che da radici illustri e pacifiche presentano adesso un aspetto più dilaniante, affilato. Nel contempo, con leggero ritardo per l’Italia, esce anche il film riferito a quella tournèe. Rust Never Sleeps piace e diverte, apre il dibattito su quale sarà il Neil Young anni Ottanta e pare scontato che nessuno saprà indovinare: le immagini che scorrono sullo schermo sono cariche di sensazioni, i richiami metaforici numerosi. Mentre Neil suona, alle sue spalle si muovono esseri misteriosi, roadies incappucciati, specie di monatti con gli occhi fosforescenti. La scenografia aiuta a decifrare il sogno: sul palco amplificatori giganteschi, le attrezzature di dimensioni smisurate che sovrastano le persone, quelle che suonano e quelle che ascoltano.
da Enzo Gentile, introduzione a “Neil Young” (Arcana 1982)

Mai stato rigoroso con i suoi dischi, Neil Young. Mentre cointesta Rust Never Sleeps ai Crazy Horse, per esempio, l'autore afferma una mezza verità: nella seconda facciata ritorna effettivamente a scorrere il sangue caldo della band, ma nella prima le acque sono calme e Young è quasi sempre solo con armonica e chitarra. Come il Dylan “diviso in due” a cavallo della svolta elettrica. Tutti i pezzi eccetto tre sono ripresi in concerto, ma più di uno ha la coda sfumata in modo innaturale. “My My Hey Hey” è firmata Young/Blackburn, mentre nella versione full band che chiude l'album è accreditata al solo Young. Tuttavia, per quanto incongruo, Rust Never Sleeps segna il rientro di Young “nel tempo”, il suo e delle nuove leve che ne hanno ormai avviato la santificazione. Così, oltre a inanellare cinque tracce acustiche di una bellezza sfolgorante, Young rimonta sul cavallo pazzo e si riprende la sua strada con una cascata di elettricità che ha i nomi di “Powderfinger”, “Welfare Mothers” e “Sedan Delivery”, al grido di “rock 'n' roll will never die”. Un altro must.
Mucchio Selvaggio Extra 2004


Terminata la relazione con Nicolette Larson, Young sposa la sua vecchia amica e vicina di ranch Pegi (2 agosto 1978). Poco dopo, parte con il Rust Never Sleeps Tour che segnerà la sua grande resurrezione sulla scena mondiale. Dalla tournée nascerà un memorabile live come Rust Never Sleeps: la "ruggine che non dorme mai" è l'energia di Neil Young, curvo sulla sua chitarra, a gridare al mondo la sua rabbia e la sua solitudine. Suddiviso come ogni suo live in parte acustica solitaria e cavalcata elettrica con i Crazy Horse, il disco si apre con la struggente sfida al tempo di "My my hey hey (out of the blue)": "Rock and roll can never die", canta la sua vocina che quasi si spezza; "the King is gone but is not forgotten.", ovvero Elvis Presley, simbolo del rock and roll. Young è consapevole della fine di un'epoca, come canta in "The Thrasher", ma altrettanto sicuro di difendere il vecchio rock and roll, "like dinosaurs in the shrine".
Young è un dinosauro del rock, ma lo sguardo verso il nuovo è palese, nell'inneggiare a Johnny Rotten (Sex Pistols) nella stessa "My My Hey Hey". Il canadese si tuffa nel passato con i classici pezzi pro-indiani d'America, come "Ride My Llama" e "Pocahontas", senza dimenticare la dolce "Sail Away", con Nicolette Larson alla seconda voce. La rabbia per i teepee bruciati e per la morte di tante Pocahontas deflagra nel capolavoro dell'album, "Powderfinger". È la storia di un'invasione e di un ragazzo che chiede invano aiuto ("shelter me from the powder and the finger"). I Crazy Horse scatenati accompagnano la ruggente chitarra di Young in un'apoteosi elettrica. "Welfare Mothers" e "Sedan Delivery" denunciano lati oscuri della società (la prima inneggia al divorzio, la seconda racconta il degrado metropolitano), mentre la conclusione è affidata alla versione elettrica di "Hey Hey My My (into the black)", con gli amplificatori Fender ormai esausti e con Young che picchia sulla chitarra incitando a vivere al massimo, "cause rust never sleeps". Ma proprio quando ricomincia a respirare, Young viene colpito al cuore da una nuova tragedia. Al suo secondo figlio Ben (il primo avuto da Pegi) viene diagnosticata una grave forma di paralisi cerebrale, e solo in quel momento Young scopre che anche il primogenito Zeke soffre di una lieve forma della stessa malattia. Ben viene sottoposto negli anni a moderne terapie di riabilitazione. Tecniche che influenzeranno anche la carriera artistica di Young, tanto da indurlo a sperimentare per un certo tempo il vocoder, lo strumento che permette di trasformare la voce in un suono computerizzato. "Ben è il mio assistente, il mio collaudatore", dirà affettuosamente in un'intervista a Mojo. E lo stesso Young, insieme alla moglie Pegi, costituirà nel 1986 la Bridge School, una scuola speciale per bambini cerebrolesi.
ondarock.it


Rust Never Sleeps (1979), registrato dal vivo con i Crazy Horse, rappresenta un altro picco creativo, con un' ennesima nevrastenica denuncia del nichilismo e della disperazione che pervadono la società moderna (“Powderfinger”), un'altra visione tenera e fantastica del passato indiano (“Pocahontas”), un'ennesima amara tirata contro tutto e tutti (“Thrasher”). Sono tre grandi ballate degne del più grande dei cantautori. Trascinato dal riff a lui più congeniale, quello di Harvest, qui reincarnato nell'ouverture di “My My Hey Hey”, inno all'immortalità del rock and roll, Rust è un disco schizofrenico, che ad una facciata di folk acustico alterna una facciata di grintoso hard-rock, fino al quasi-punk martellante di “Sedan Delivery” e agli accordi marziani della reprise di “My My Hey Hey”.
Piero Scaruffi


 da Speciale Rolling Stone: I 50 Momenti che hanno fatto la stora del rock n' roll
(clicca per ingrandire)



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