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American Dream (1988)


L'AMERICAN DREAM DEI QUATTRO CAVALIERI

Sono passati diciotto anni dalla loro ultima produzione insieme, ma ogni rock fan porta i loro nomi del cuore: David Crosby, Stephen Stills, Graham Nash e Neil Young, insieme e da soli, hanno scritto pagine importanti della storia del rock, con gli Hollies, i Byrds, i Buffalo Springfield e, soprattutto, con la gloriosa band che portava i loro nomi, hanno attraversato gli anni sessanta, reso favolosi e mitici i primi anni settanta, per poi scomparire, chi più chi meno. Oggi, diciotto anni dopo, eccoli ancora qui, alcuni decisamente ingrassati, come Crosby e Stills, altri con molti capelli bianchi, come Nash, altri ancora con la grinta e la voglia di far la musica di sempre, come l'imbattibile Neil Young. Sono tornati insieme per un nuovo album, intitolato American Dream. Non è certamente un album di nostalgia, non c' è un solo momento di celebrazione del passato. Anzi, i quattro cavalieri del vecchio hippismo hanno gli occhi ben aperti sul mondo ed ancora qualche buona cartuccia da sparare per quel che riguarda la musica. Il più arzillo di tutti, ed era facile supporlo, è Neil Young, autore di quattro dei quattordici brani dell'album e co-autore di altri due brani con il suo vecchio compagno Stephen Stills: suoi sono alcuni pregevolissimi momenti, come quelli di “Name of love”, una ballad nello stile più classico del canadese, e la bella “This Old House”, ma non sfigurano certamente i brani degli altri componenti del gruppo, da “Soldiers of peace” di Graham Nash e “Got it made” di Stephen Stills. Ma la vera sorpresa dell'album sono i due brani firmati da David Crosby, “Nighttime for generals”, uno straordinario brano di rock californiano come da tempo non avevamo il piacere di ascoltare, con tanto di assolo di chitarra firmato da Stills e dedicato a Jimi Hendrix e, ancora di più, l'affascinante “Compass”, che sembra presa dall'album dei ricordi di If I could only remember my name, l'unico e mitico disco solista di Crosby, un vero capolavoro. Crosby, contemporaneamente all'uscita del disco, ha dato alle stampe anche la sua autobiografia, intitolata Long Time Gone, nella quale racconta la sua storia, una vita di rock e di droga, e soprattutto la sua battaglia personale contro la tossicodipendenza, vinta solo in questi ultimi anni. American Dream è insomma un buon disco, un album gradevolissimo, realizzato con amore e divertimento da quattro vecchie glorie del rock.
Ernesto Assante, Repubblica 1988


Primo album in studio dai tempi dell’ormai mitico Dejà Vu, American Dream (Atlantic, 1988) è, di fatto, il ritorno in pompa magna dei quattro cavalieri del country-rock.
Ad abbellirsi in vetrina, ovviamente, Neil Young che, tuttavia, vive una fase creativa in declino dopo il nuovo apice personale di Rust Never Sleeps (1979). È lui che da il via alle ritrovate danze del supergruppo, ma l’orecchiabile ritmo di basso della title track non sembra affatto il preludio a un disco da ricordare negli annali della musica popolare americana. L’uomo solitario, infatti, vira subito verso la classica ballata di country elettrico (“Name Of Love”), ma a non funzionare è proprio l’intesa con Stills, che non riesce a inserirsi con i suoi assoli, perso nel magma sintetizzato dei suoi ultimi dischi solisti (“Got It Made”).
Nash, da par suo, non ha remore a insistere sul piano liturgico di “Don’t Say Goodbye” e, soprattutto, sull’ormai trita ballata ecologista di “Clear Blue Skies”. Nota brillante, invece, il ritorno alla vita (artistica) di David Crosby che, disintossicato appieno, getta il piede sull’acceleratore con la grinta per tastiere di “Nighttime For The Generals”. Il baffo dalla California sembra ricordarsi improvvisamente del suo glorioso passato da songwriter, emozionando con il folk esistenzialista di “Compass”, cartolina westcoastiana firmata anche dall’armonica di Young. Lo stesso canadese rende di più quando dipinge l’acquerello acustico di “Feel Your Love” rispetto alla filastrocca corale di “This Old House”.
A soffrire più di tutti è sicuramente Stephen Stills che prova il riff blues di “Drivin’ Thunder” prima di affondare tra i fiati soul di “That Girl” e il rock sintetico di “Night Song”. Non basta, quindi, la solida melodia contro la guerra di Nash (“Soldiers Of Peace”) per scrivere ancora un grande album.
American Dream è una delusione generale, resa più scottante dal carico di aspettative sulle spalle di un gruppo che pare troppo sfilacciato per durare ancora nell’immaginario della gente.
Quando il disco arriva nei negozi, a novembre, ottiene subito un buon successo di pubblico fino ad arrivare al disco di platino dopo appena due mesi. La critica, tuttavia, è impietosa e spinge soprattutto Young a rinunciare all’idea di un tour mondiale. Neil, in realtà, non si fida poi tanto delle condizioni ritrovate di David Crosby che, per tutta risposta, decide di concentrarsi sul serio per dare finalmente alla luce il suo secondo, sospirato disco da solista.
ondarock.it

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