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Buffalo Springfield (1966) - Rassegna Stampa


Neil Young e Bruce Palmer sono due giovani canadesi venuti in California con qualche dollaro in tasca ed un vecchio carro funebre Pontiac del '53 parcheggiato da qualche parte in doppia fila. Tempo qualche settimana ed il loro sogno di celebrità e gloria inizia a sgretolarsi. Los Angeles non è esattamente quello che i due ragazzi del Winnipeg si aspettano ed è così che, rassegnati, decidono di viaggiare verso nord; dritti sulla 101 sino a Ventura e poi ancora su, verso la costa, Big Sur e San Francisco. Il destino non gli lascia però neppure il tempo di uscire dalla città che, fermi ad un semaforo, s’imbattono in due automobilisti che, a poca distanza, abusano del clacson e della pazienza di un già nervosissimo Neil Young. Sull’altro veicolo Stephen Stills e Richie Furey riconoscono la targa dell’Ontario e si ricordano di quel giovane musicista (Young) che suonava per gli Squires e che avevano conosciuto durante un breve soggiorno in Canada. È così che sulla Sunset Strip nascono i Buffalo Springfield; un modo a dir poco strano per formare una band che diverrà uno dei nomi più celebri del panorama musicale anni sessanta.
Al quartetto si aggiunge il batterista Dewey Martin ed il gruppo riesce a strappare quasi immediatamente un contratto con la Atlantic. Quello che viene registrato nell’estate del 1966 ai Gold Star Recording Studios è certamente uno dei principali spartiacque tra la musica del “prima" e la grande rivoluzione che si affaccia all'alba del 1967. Nonostante un sound piuttosto distante dall’imminente psichedelia e ancora piuttosto legato ad arrangiamenti (soprattutto per quanto riguarda il “cantato”) tipici del rock’n’roll, Buffalo Springfield permette già d’intravedere molte di quelle luci che faranno brillare i suoi componenti nel breve volgere di qualche stagione.
Il personaggio trainante (dalla sua può vantare il fatto di aver scritto sette delle dodici canzoni del disco d’esordio) sembrerebbe essere Stephen Stills ma è forse proprio il lavoro di Neil Young, grazie ai propri testi stralunati (“Nowadays Clancy Can’t Even Sing”) e ad un modo di comporre spiccio ma efficace (“Out Of My Mind”) ad essere il più innovativo ed il più interessante.
Alla pubblicazione della versione originale di Buffalo Springfield però il pubblico reagisce tiepidamente. La Atlantic si affretta a pubblicare una seconda versione contenente “For What It’s Worth” (un brano scritto da Stills a seguito dei disordini scoppiati il 12 novembre 1966 tra la polizia ed i manifestanti che chiedevano la fine del conflitto in Vietnam) che si trasforma immediatamente in un successo ed in uno dei grandi inni della controcultura. Non c'è però neppure il tempo di godersi la vittoria. Bruce Palmer, arrestato per possesso di marijuana, è costretto a lasciare il paese mentre Neil Young, seccato per il modo in cui viene considerato il suo lavoro, decide di mollare tutto proprio prima del festival di Monterey.
John Robbiani, universomusica.com


“Buffalo Springfield Again”, cantava Neil Young su Silver & Gold, in uno sfogo di nostalgia canaglia agli inizio di questo secolo. Con le reunion di gruppi storici e non ormai fuori controllo, sembrava che anche il leggendario gruppo californiano potesse tornare insieme, ma il buon Neil ebbe la saggezza di confinare nei suoi labirinti lirici tale amarcord, e di non barattare la sacralità di quell’epopea per un po’ di fama spiccia.
Già, perché i Buffalo Springfield sono stati indiscutibilmente uno dei protagonisti più significativi della sfavillante stagione westcoastiana, benché la loro parabola sia stata relativamente breve, e abbia funto da trampolino di lancio per le brillanti prosecuzioni dei più talentuosi tra i suoi membri. Una manciata di album sono stati però sufficienti a rilasciare nell’assolata aria californiana magici brandelli musicali.
Il gruppo si forma a Los Angeles nel 1965. I canadesi Neil Young e Bruce Palmer, arrivati in California assieme a una manciata di amici hippy a bordo di una Pontiac adibita a carro funebre, ritrovano nella città del sole lo spaccone texano Stephen Stills, col quale avevano bazzicato nei locali folk di Toronto, e con gli innesti di Richie Furay e Dewey Martin il gruppo è praticamente fatto. La ragione sociale è scelta in onore di una macchina escavatrice testimone del fatale ritrovo.
La scena del Golden State è particolarmente feconda all’epoca: il lascito della British Invasion è ormai stato metabolizzato, i Byrds stanno scuotendo la tradizione folk elettrificando le canzoni di Bob Dylan, i Beach Boys si accingono a creare il modello definitivo di armonie vocali e perfezione pop mentre da San Francisco si avverte l’epicentro tellurico del montante sisma psichedelico.
Trovando un assetto stabile con la duttile sezione ritmica composta da Palmer al basso e da Martin alla batteria, e con un trio di cantanti-chitarristi composto da Young, Stills e Furay, i Buffalo si tuffano a capofitto nel magma sonoro del periodo, alla ricerca di una propria peculiare cifra stilistica: una ricercata commistione in grado di superare le barriere del folk-rock per esplorare lidi di volta in volta acidi, estatici e cupi, con un sound dinamico e melodicamente incisivo che si regge sulla dirompente personalità di Stills e sulla introversa e diamantina vena di Neil Young: una dicotomia in sede di songwriting che porterà a risultati splendidi.
Dopo un periodo passato a farsi le ossa in vari concerti (anche di spalla ai Byrds), nel 1966 arriva il debutto omonimo. Un album che in qualche frangente paga pegno alla giovane età dei suoi autori, ma già comunque in grado di imporre il marchio di fabbrica della band: armonie vocali da favola, intrecci chitarristici taglienti e pastosi (ad esempio in “Go And Say Goodbye”, country-rock futuristico che batte i Byrds sul loro stesso terreno), una maestria già notevole nell’ampliare il canovaccio folk con influenze latine e jazz (“Everybody’s Wrong”), o di costruire stralunati ed accattivanti slanci onirici (“Flying On The Ground Is Wrong”). Benché spesso oscurato dal giogo dell’amico-rivale Stills, anche Young inizia a emanciparsi in autore di vaglia: “Nowaydays Clancy Can’t Even Sing” in particolare è il primo capolavoro del canadese (cantata però da Furay): la storia di una ragazza afflitta da sclerosi multipla, resa con una maturità sorprendente in un nevrotico caleidoscopio di emozioni (alienazione, rifiuto, speranza) dilatato da una miscela che alterna sapientemente sontuose accelerazioni, echi spagnoleggianti e allucinazioni pop. Una pietra d’angolo per il suono westcoastiano, una sicura influenza ad esempio per i Love di Forever Changes, album alla cui stesura Young tra l’altro avrebbe brevemente partecipato.
Manca però a Buffalo Springfield un brano di punta, in grado di lasciare cinicamente il segno. A questo viene incontro il contesto storico dell’epoca. Nel Novembre 1966 i malcontenti giovanili per l’escalation americana in Vietnam iniziano a dilagare, e gli scontri tra poliziotti e manifestanti nel Sunset Strip ispirano a Stephen Stills la composizione di una riflessiva ballata in merito: “For What It’s Worth”.
Chi non l’ha mai sentita almeno una volta, tra film come Forrest Gump, Nato il 4 Luglio e un qualsiasi documentario sui favolosi Sixties? “There’s something happening here/what it is ain’t exactly clear…”. Tanto il brano sintetizza in 150 secondi il sound dei Buffalo (un maligno e circolare riff acustico di sapore bluesy che deflagra nel celebre ritornello), tanto cattura felicemente lo spirito turbolento del periodo, il chiedersi appunto “per cosa vale la pena”?, rivolto sia all’establishment che ai rivoltosi, con un’inquietudine tipica di buona parte della gioventù americana prima del 68. Versi come “Paranoia strikes deep / Into your life it will creep / It starts when you're always afraid / You step out of line, the man come and take you away” illustrano bene il concetto e catapultano in un baleno i Buffalo Springfield nell’immaginario collettivo.
“For What It’s Worth” viene subito inserita come traino all’album di debutto, e ormai Stephen è sempre più leader. La partecipazione al Festival di Monterey certifica la centralità dei nostri nella scena californiana, benché in tale occasione Young venga sostituito da David Crosby dopo l’ennesima lite con Stills. […]
Junio C. Murgia, storiadellamusica.it

Il primo album dei Buffalo Sprinfield è tanto distante dall'estetica odierna da risultare un ascolto addirittura imbarazzante o ridicolo - soprattutto per via di un canto tra il vocal-group e il soul. L'atmosfera è descrivibile come un country-pop elettrico/acustico intriso di fatalismo, epos, magniloquenza e pessimismo. Abbiamo dei Byrds senza i loro sperimentalismi, ma con un tono cupo più marcato. Si tratta di 7 composizioni di Stills (quasi tutte mediocri ma nessuna inascoltabile o del tutto priva di spunti influenti) e di 5 di Young (almeno 2 capaci di giustificare e dare un senso a un'operazione altrimenti poco ammissibile).
"For What It's Worth" (Stills) (No. 7 Pop Singles) è un ottimo, tenue e raffinato tappeto sonoro, purtroppo deturpato da ingenui gargarismi Merseybeat. "Go And Say Goodbye" (Stills) potrebbe essere dei Byrds: pare un sostenuto country suonato dai Beatles. Se la musica può essere interessante (un country pur sempre avveniristico) e l'esecuzione ottima, ci pensa la solita voce compiaciuta e riverberata - e così voluta - a sciupare tutto (o a elevarlo a estetica kitsch).
"Sit Down, I Think I Love You" (Stills) dice tutto nel titolo, "Hot Dusty Roads" (Stills) prova col blues, "Everybody's Wrong" (Stills) è l'epos del folk elettrico, "Leave" (Stills) è un rhythm and blues teso e proto hard-rock (influenzerà segnatamente i Jefferson Airplane), "Pay The Price" (Stills) è, con la precedente, e in un tono più medio, il più significativo contributo di Stills (roba da ispirare Cat Stevens come Lou Reed e - nel ritornello - addirittura certo metal).
"Nowadays Clancy Can't Even Sing" (Young) è il primo capolavoro di Young: con un esistenzialismo capace di trascinare e giustificare gli espedienti musicali country-pop che - per quanto mirabili - rimangono confinati nel puro mezzo espressivo. "Flying on the Ground Is Wrong" (Young) non prova nemmeno ad accostarvisi e torna - impeccabilmente - alla musica pop di almeno vent'anni prima (es. Bing Crosby). "Do I Have To Come Right Out And Say It" (Young), a metà strada tra le due prove precedenti, non trova ragione d'essere. "Burned" (Young) è tra i pezzi - relativamente - duri dell'album: tra country e Kinks; lontanissimo dai risultati del futuro Young per quanto ne tinteggi l'orizzonte. "Out Of My Mind" (Young) è l'altro capo d'opera: basta la liquida chitarra d'apertura e chiusura per sentirsi rimescolate le midolla; nemmeno la retorica del ritornello strappalacrime a più voci - quintessenza dell'estetica del tempo - ne pregiudica l'effetto.
Pur quasi completamente privo di brani memorabili, quest'album mantiene tutta la sua importanza storica per singoli aspetti, specie di natura tecnica. E se già i Byrds - e altri - erano arrivati alla fusion country/folk-chitarra elettrica da una parte (il country-rock) e vocal-group o pop-chitarra elettrica (o strumentazione rock) dall'altra, eravamo comunque agli inizi. Sebbene in un anno cambi tutto; sebbene l'esordio dei Buffalo Springfield sia inferiore ai lavori più importanti del '66 - basti il nome dei 13th Floor Elevator.
Nel 1973 - a country-rock ampiamente saturato - l'album tornerà in classifica (n. 10): si cercavano i progenitori dei vari Eric Andersen, Carole King, James Taylor, Joni Mitchell.
ondarock.it

I Buffalo Springfield furono una delle formazioni più talentuose e originali della scena folk-rock di Los Angeles. Emersi quando i Byrds si erano già spinti nel campo della psichedelia, i Buffalo Springfield continuarono quella esplorazione con ballate sempre più complesse.
I Buffalo Springfield nacquero dall'incontro fra i cantanti-chitarristi Steve Stills (proveniente dal Texas, esperto di blues e cultura latina) e Ritchie Furay (proveniente dall'Ohio), conosciutisi a New York, con i canadesi Neil Young (chitarra) e Bruce Palmer (basso), avvenuta a Los Angeles nel 1966.
Il complesso prendeva soltanto la superficie dallo stile corale ed elettrico dei Byrds, ma le loro canzoni soppiantavano i sorrisi dei primi anni '60 con un'atmosfera malinconica, che era quasi uno spleen esistenziale, e le partiture strumentali, fratturate da tempi sincopati e fiondate elettriche, vivevano di una nevrosi senza precedenti.
La loro storia durò tre anni scarsi, nei quali presero corpo composizioni estremamente calibrate, energiche e intense, spartite per lo più fra Stills e Young. Il primo album, Buffalo Springfield (Atco, 1966), è in gran parte appannaggio di Stills, delle sue ballate soffici e orecchiabili, fatte di piccoli tocchi chitarristici, di sonni vocali lenti e profondi: il country-pop di “Go And Say Goodbye”, la canzone di protesta “For What It's Worth”, il ritornello naive di “Sit Down I Think I Love You”. Furay contribuisce soprattutto “Flying On The Ground Is Wrong” e il giovane Neil Young comincia a combattere i propri fantasmi interiori con “Out Of My Mind”. La novità, comunque, sta nel modo di suonare, che era uno dei più creativi del 1966. Le chitarre imbastivano armonie surreali. Bruce Palmer e il batterista Dewey Martin costituivano una delle sezioni ritmiche più duttili di sempre.
Palmer (deportato per problemi di droga) venne sostituito da Jim Fielder per Stampede, che non è mai stato pubblicato.
Piero Scaruffi


Sta accadendo qualcosa qui
Ma non è esattamente chiaro
C'è un uomo con la pistola lì
Che mi dice di stare attento
Penso che dobbiamo fermarci
Ma cosa è quel suono,
Tutti guardano cosa accade sotto

Questi sono i primi versi di For What It's Worth dei Buffalo Springfield, una canzone sui moti studenteschi e giovanili, sul clima turbolento che si respirava a Los Angeles a metà degli anni Sessanta. Una canzone che sarebbe presto diventata un inno, un simbolo per un'intera generazione. Il primo album della band usciva proprio il 3 marzo del 1966 e consolidava, confermava quella rinascita della scena rock americana, quella risposta alla british invasion dei Beatles e dei Rolling Stones iniziata dai Byrds. Non a caso citiamo i Byrds di David Crosby e Roger McGuinn, perché le strade dei due gruppi, o meglio, di alcuni dei loro componenti, si incroceranno più volte. Richie Furay, Stephen Stills, Neil Young, Bruce Palmer, Dewey Martin, Jimmy Messina rimasero insieme per appena due anni ma lasciarono una traccia indelebile nella scena rock americana, con il loro personalissimo folk-rock psichedelico.
La band si forma a Los Angeles grazie ad incontri in parte casuali. Stephen Stills, trasferitosi a Los Angeles da New York, aveva cercato di creare una band con Van Dyke Parks (futuro autore dei testi di Smile di Brian Wilson) ed era stato rifiutato dai Monkees, un gruppo "finto" nato solo per gli shows televisivi, perché non aveva una faccia da "bravo ragazzo". A Los Angeles incontra Richie Furay e i due poi, nel giro del Whiskey A Go Go, incontrano un giovane cantautore canadese in cerca di una banda con  la quale sviluppare nuovi linguaggi: si chiama Neil Young.
I Buffalo Springfield fondono le esperienze più disparate, dal bluegrass di Nashville alla canzone d'autore delle caffetterie del Greenwich Village, dall'inevitabile sound britannico dei Beatles al soul. L'anima di Stills è dura, graffiante, tagliente come i soli della sua chitarra. Young è più lirico, malinconico, sconsolato. Due anime che presto si troveranno in precario equilibrio ma che incontreremo poi di nuovo insieme nell'esperienza di Crosby, Stills, Nash & Young.
Come tante altre band californaiane si esibiscono nel 1967 al festival di Monterey dove proprio il solitario e capriccioso Young viene sostiuito all'ultimo momento da David Crosby, preso in prestito dai Byrds. Solo due anni di vita, ma tanti semi fecondi sparsi in quella irripetibile estate dell'amore. Furay e Messina avranno poi un ruolo di rilievo nei Poco mentre il bassita Bruce Palmer, scomparso da poco, produce da solo, alla fine del del decennio un capolavoro visionario della sperimentazione psichedelica, The Cycle Is Complete.
Stefano Pogelli


Di leggenda, benché effimera, per i Buffalo Springfield bisognerà parlare. Il puzzle studiato e ben rifinito da Stills, Young, Furay, Martin e Palmer […] è tra i più allettanti e gustosi ascoltati sino a oggi sul versante del country-rock: un’aria smilza, le chitarre non più ovattate e molli, le voci che amano il velluto e certa lana grezza, proprio per accomunare le indicazioni ovvie della folk-song americana e del nuovo, ispido sound elettrico appena scoperto dai pionieri della West Coast. 1966, Los Angeles: la metropoli assurda, popolata da fantasmi, fa da ideale contrappunto alla figura di Neil, al verde silenzioso e sterminato del suo Canada. Canterà con fiera e angosciata passione quella vicenda in Everybody Knows This Is Nowhere, il secondo album solistico, dove la filosofia della fuga, del rifiuto del cappio appare evidente per la prima volta: forse anche per questo schermo che fa da filtro, Neil non si immergerà mai del tutto nella carovana Springfield, lavorerà un po’ defilato, soffrirà il leaderismo di Stills, la sua maggiore abilità sulla chitarra e se pure contribuirà in maniera determinante al sound della formazione, sarà il meno dispiaciuto dello scioglimento e il più pronto a fare le valige, senza salutare nessuno. I Buffalo Springfield (a proposito, il nome è ripreso da quello di una macchina agricola vista per caso a Beverly Hills) partiranno con alcuni concerti in un locale del Sunset Strip, L.A. (ecco il riferimento di “Don’t Be Denied”) e un singolo che riporta sul lato A un brano di Neil, “Nowadays Clancy Can’t Even Sing”, mentre sul retro c’è un pezzo più vivace di Stephen Stills, “Go And Say Goodbye”.
Sono le prime stelle del country rock che tanta gente fece e farà sognare ancora oggi: saranno leggermente in secondo piano sulle pagine delle cronache specializzate e non potrebbe essere diversamente. Davanti a loro marciano a pieno regime i Byrds di Crosby e Mc Guinn, già infervorati e arricchiti nello spirito (e non solo in quello) dal “Mr. Tambourine Man” e dai parallelismi con il mito dilaniano. Nel febbraio ’67 esce comunque il primo album dei Buffalo Springfield: piace abbastanza (ma sarà rivalutato, come tutta la produzione del gruppo, diversi anni più tardi), tra le righe alcuni gioiellini ma il capolavoro di quel tempo è “For What It’s Worth” di Stills (“C’è gente che porta cartelli che sanno dire solamente: viva i nostri cartelli”), magia spicciola pensata e raccolta durante un periodo di ritiro al Topanga Canyon. Nel giro di un anno e mezzo i Buffalo, che tra le varie crisi interne non ne avvertiranno alcuna a livello produttivo, pubblicheranno altro materiale: un secondo album, Again, a fine ’67 e quindi l’epitaffio tra luci e ombre di Last Time Around, estate ’68.
[…] Di quell’esordio musicale, a Young sono da ascrivere una decina di brani tra cui  la docile, eterea “Out Of My Mind”, “Mr. Soul” pimpante e gustosissima, “I Am A Child” dove Neil riafferma il diritto all’ingenuità, al candore del mondo dei bambini, anche per gli adulti, e “On The Way Home”, già ricca di quei sogni e di quelle immagini che hanno contribuito a rendere celebre la poesia di Young, grande visionario.
da Enzo Gentile, introduzione a “Neil Young” (Arcana 1982)

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