Sono passati decenni dall’esplosione del cosiddetto country-rock, ma il sole della California scalda ancora il cuore degli eroi della West Coast, quei musicisti che, sopravvissuti alla diaspora hippie, hanno dato nuove speranze ai giovani con inni epici arpeggiati sulle chitarre acustiche e sulle pedal steel e spesso speziati con i ritmi aggressivi del rock. Per nulla decadenti, tanto meno patetici o nostalgici, sono tornati vecchi amici come James Taylor, Jackson Browne e Graham Nash, quest’ultimo antieroe inglese della controcultura californiana. L’uomo in ombra rispetto a Stills e Young, il rocker e il balladeur sempre in primo piano; l’alter ego delle elucubrazioni intellettuali di Crosby, Nash è l’autore manierato e lontano dai riflettori che in silenzio ha scritto pezzi di storia come Teach Your Children, Marrakesh Express, la battagliera Chicago, la dolce Our House. Ora – da solista – ha ripreso il filo del suo antico album Songs For Beginners pubblicando l’intenso Songs For Survivors, fatto di dieci gioiellini dove chitarre acustiche, armonica, armonie vocali, qualche insinuante tastiera rimandano alle suggestioni di un suono e di un mondo senza tempo e anzi, tremendamente attuale.
Ho avuto tanto successo nella mia carriera ma, a differenza di tante rockstar, non ne ho goduto i privilegi. Non mi interessa il circo del rock fatto di lustrini, di apparenza: insomma il grande bluff che ha rovinato tutto. All’inizio il rock era un movimento spontaneo, soprattutto a San Francisco; poi i media si sono appropriati di tutto: hanno ridotto tutto a un fenomeno di costume e anche molti artisti sono caduti in quella trappola.
Inutile piangere sul passato, il pubblico sa ancora riconoscere i veri artisti, quelli che non hanno tradito.
Chi è oggi Graham Nash?
Un uomo tranquillo che, con un pizzico di incoscienza e di romanticismo, crede sempre nei valori e nelle battaglie civili. Nella musica sono stato fortunato. L’unico vantaggio della popolarità e del successo è che puoi permetterti di scrivere canzoni quando vuoi: quando hai veramente qualcosa da dire.
È quello che hai fatto nel nuovo album?
Sentivo queste canzoni che mi martellavano nel cuore e nel cervello ripetendo incessantemente "scrivimi, scrivimi". Provavo una sensazione di dolore e alla fine, quando ho cominciato a scrivere, un senso di liberazione. Credo che sia un disco molto profondo.
Da cosa nasce questa nuova voglia di scrivere?
Dalla serenità. Quando sei sereno riesci ad esprimere con chiarezza anche le emozioni più dolorose. Alcuni brani sono molto tristi, introspettivi, ma il disco nel complesso parla di temi positivi. C’è un senso di speranza di cui tutti abbiamo bisogno.
Non hai paura a confrontarti con brani ormai storici come Teach Your Children o Chicago?
Se dovessi scrivere canzoni a mente fredda sì, mi bloccherei pensando a ciò che quelle canzoni hanno rappresentato per più di una generazione. Ma scrivo con il cuore e vado avanti, cercando almeno di comunicare con il pubblico sulle cose di tutti i giorni. Del resto non ho mai preteso di scrivere inni.
Ma Teach Your Children e Chicago, sono ancora attuali?
Credo di sì, esprimono concetti universali; il mio pubblico le canta ancora e anche i giovanissimi le ascoltano con interesse. Ci sono mille canzoni che sono specchio di un’epoca e anche alcune delle mie lo sono state.
Nel nuovo album i brani sono tutti nuovi tranne Pavanne di Richard Thompson e Liar’s Nightmare, la cui melodia nasce da un canto folk angloirlandese, lo stesso che ha ispirato Bob Dylan per Masters Of War.
Pavanne è come un romanzo, è un brano dal fascino irresistibile scritto da Richard Thompson, uno degli artisti più grandi che io abbia mai conosciuto. Naturalmente non ha mai raggiunto la popolarità che meritava, anche se è un artista di culto. Io sono nato in Inghilterra e sono sempre stato affascinato dai canti popolari. La canzone folk si modifica continuamente. Prendi In The Pines o Alabama Bound, sono usciti in mille versioni diverse, con la stessa melodia ma con titoli e testi completamente diversi. Io ho riadattato Liar’s Nightmare. Dylan l’ha trasformata in Masters Of War e sono in molti a pensare che sia stata scritta dal vecchio Bob. Molti mi hanno detto: hai copiato Masters Of War? Dylan ormai è più classico del folklore.
Il brano Lost Another One, veramente toccante, è dedicato a qualcuno in particolare?
A George Harrison, un vecchio amico dal carattere dolce, schivo e visionario molto simile al mio. Lui se ne stava fuori dalle lotte tra Lennon e McCartney come io stavo lontano dai litigi tra Stephen e Neil. Però scrivendo quel brano ho pensato a tanti vecchi amici. A Roy Orbison, il primo grande rocker maledetto, un uomo che ha sofferto come pochi altri. A Jerry Garcia, un altro dei miei migliori amici, uno che ha scoperto nuovi modi di viaggiare con la mente e di applicarli alla creatività: uno degli artisti più versatili di tutti i tempi, bluesman, tradizionalista e grande cultore della tradizione, ma inventore dell’improvvisazione nel rock con le sue suite psichedeliche. Ancora è dedicato a Frank Zappa, alla sua genialità beffarda e strafottente. Poi ho pensato a un personaggio che non ho conosciuto ma che, con la sua musica e le sue sofferenze, è stato il padre di tutti noi: Hank Williams.
Il testo dice: "C’è stato un tempo in cui pensavamo di essere invincibili"…
A Woodstock non si faceva politica in senso stretto ma ci sono stati momenti in cui, tutti insieme, abbiamo creduto di cambiare il mondo, e forse in parte l’abbiamo fatto. Grazie a noi sono caduti molti tabù. Milioni di giovani hanno imparato a stare insieme, a pensare con la loro testa, a combattere contro le costrizioni dell’establishment, contro la repressione, abbiamo imparato tutti a essere più liberi. A quei tempi insomma il modo cominciò a cambiare.
Il movimento di Woodstock si è poi sviluppato nel suono della West Coast?
Sì, ma come sempre i media ci hanno ricamato sopra. CSN&Y, Eagles, America, Jackson Browne, Flying Burrito, eravamo semplicemente musicisti raggruppati a Los Angeles, uniti da un grande feeling, eravamo giovani e dalla parte dei giovani e rinnovavamo l’epica del country con iniezioni di rock.
Ma perché hai lascito gli Hollies e l’Inghilterra, dove eri un monumento del beat e vendevi tantissimi dischi, per cambiare così radicalmente?
Il beat inglese era troppo ripetitivo e alla fine non mi ci ritrovavo più. In Inghilterra scrissi Teach Your Children e Right Between The Eyes che nessuno capì. Andai in crisi, ma per fortuna le feci ascoltare a Crosby che se ne innamorò e salvò la mia carriera.
Suonerete ancora insieme voi due?
Sì. Ha fatto una breve apparizione nell’album e il brano Chelsea Hotel è dedicato a lui. Ci siamo incontrati da poco alle Hawaii. Lui è in ottima forma, siamo andati a pesca, a fare windsurf e abbiamo messo le basi per il nuovo disco che uscirà l’anno prossimo.
Ritornerete anche in quartetto. Looking Forward non era un granché…
Forse è stato inciso troppo in fretta, ma torneremo insieme sicuramente. Il tour americano ha battuto tutti i record di incasso. La gente ci ama e noi amiamo la gente.