Graham Nash: il sopravvissuto (interviste, 2002)
intervista di Antonio Lodetti - JAM n. 86
Sono passati decenni dall’esplosione del cosiddetto country-rock, ma il sole della California scalda ancora il cuore degli eroi della West Coast, quei musicisti che, sopravvissuti alla diaspora hippie, hanno dato nuove speranze ai giovani con inni epici arpeggiati sulle chitarre acustiche e sulle pedal steel e spesso speziati con i ritmi aggressivi del rock. Per nulla decadenti, tanto meno patetici o nostalgici, sono tornati vecchi amici come James Taylor, Jackson Browne e Graham Nash, quest’ultimo antieroe inglese della controcultura californiana. L’uomo in ombra rispetto a Stills e Young, il rocker e il balladeur sempre in primo piano; l’alter ego delle elucubrazioni intellettuali di Crosby, Nash è l’autore manierato e lontano dai riflettori che in silenzio ha scritto pezzi di storia come Teach Your Children, Marrakesh Express, la battagliera Chicago, la dolce Our House. Ora – da solista – ha ripreso il filo del suo antico album Songs For Beginners pubblicando l’intenso Songs For Survivors, fatto di dieci gioiellini dove chitarre acustiche, armonica, armonie vocali, qualche insinuante tastiera rimandano alle suggestioni di un suono e di un mondo senza tempo e anzi, tremendamente attuale.
Sono passati decenni dall’esplosione del cosiddetto country-rock, ma il sole della California scalda ancora il cuore degli eroi della West Coast, quei musicisti che, sopravvissuti alla diaspora hippie, hanno dato nuove speranze ai giovani con inni epici arpeggiati sulle chitarre acustiche e sulle pedal steel e spesso speziati con i ritmi aggressivi del rock. Per nulla decadenti, tanto meno patetici o nostalgici, sono tornati vecchi amici come James Taylor, Jackson Browne e Graham Nash, quest’ultimo antieroe inglese della controcultura californiana. L’uomo in ombra rispetto a Stills e Young, il rocker e il balladeur sempre in primo piano; l’alter ego delle elucubrazioni intellettuali di Crosby, Nash è l’autore manierato e lontano dai riflettori che in silenzio ha scritto pezzi di storia come Teach Your Children, Marrakesh Express, la battagliera Chicago, la dolce Our House. Ora – da solista – ha ripreso il filo del suo antico album Songs For Beginners pubblicando l’intenso Songs For Survivors, fatto di dieci gioiellini dove chitarre acustiche, armonica, armonie vocali, qualche insinuante tastiera rimandano alle suggestioni di un suono e di un mondo senza tempo e anzi, tremendamente attuale.
Songs For Survivors è stato inciso a dieci anni circa dall’ultimo album e a trenta da Songs For Beginners…
Ho avuto tanto successo nella mia carriera ma, a differenza di tante rockstar, non ne ho goduto i privilegi. Non mi interessa il circo del rock fatto di lustrini, di apparenza: insomma il grande bluff che ha rovinato tutto. All’inizio il rock era un movimento spontaneo, soprattutto a San Francisco; poi i media si sono appropriati di tutto: hanno ridotto tutto a un fenomeno di costume e anche molti artisti sono caduti in quella trappola.
Inutile piangere sul passato, il pubblico sa ancora riconoscere i veri artisti, quelli che non hanno tradito.
Chi è oggi Graham Nash?
Un uomo tranquillo che, con un pizzico di incoscienza e di romanticismo, crede sempre nei valori e nelle battaglie civili. Nella musica sono stato fortunato. L’unico vantaggio della popolarità e del successo è che puoi permetterti di scrivere canzoni quando vuoi: quando hai veramente qualcosa da dire.
È quello che hai fatto nel nuovo album?
Sentivo queste canzoni che mi martellavano nel cuore e nel cervello ripetendo incessantemente "scrivimi, scrivimi". Provavo una sensazione di dolore e alla fine, quando ho cominciato a scrivere, un senso di liberazione. Credo che sia un disco molto profondo.
Da cosa nasce questa nuova voglia di scrivere?
Dalla serenità. Quando sei sereno riesci ad esprimere con chiarezza anche le emozioni più dolorose. Alcuni brani sono molto tristi, introspettivi, ma il disco nel complesso parla di temi positivi. C’è un senso di speranza di cui tutti abbiamo bisogno.
Non hai paura a confrontarti con brani ormai storici come Teach Your Children o Chicago?
Se dovessi scrivere canzoni a mente fredda sì, mi bloccherei pensando a ciò che quelle canzoni hanno rappresentato per più di una generazione. Ma scrivo con il cuore e vado avanti, cercando almeno di comunicare con il pubblico sulle cose di tutti i giorni. Del resto non ho mai preteso di scrivere inni.
Ma Teach Your Children e Chicago, sono ancora attuali?
Credo di sì, esprimono concetti universali; il mio pubblico le canta ancora e anche i giovanissimi le ascoltano con interesse. Ci sono mille canzoni che sono specchio di un’epoca e anche alcune delle mie lo sono state.
Nel nuovo album i brani sono tutti nuovi tranne Pavanne di Richard Thompson e Liar’s Nightmare, la cui melodia nasce da un canto folk angloirlandese, lo stesso che ha ispirato Bob Dylan per Masters Of War.
Pavanne è come un romanzo, è un brano dal fascino irresistibile scritto da Richard Thompson, uno degli artisti più grandi che io abbia mai conosciuto. Naturalmente non ha mai raggiunto la popolarità che meritava, anche se è un artista di culto. Io sono nato in Inghilterra e sono sempre stato affascinato dai canti popolari. La canzone folk si modifica continuamente. Prendi In The Pines o Alabama Bound, sono usciti in mille versioni diverse, con la stessa melodia ma con titoli e testi completamente diversi. Io ho riadattato Liar’s Nightmare. Dylan l’ha trasformata in Masters Of War e sono in molti a pensare che sia stata scritta dal vecchio Bob. Molti mi hanno detto: hai copiato Masters Of War? Dylan ormai è più classico del folklore.
Il brano Lost Another One, veramente toccante, è dedicato a qualcuno in particolare?
A George Harrison, un vecchio amico dal carattere dolce, schivo e visionario molto simile al mio. Lui se ne stava fuori dalle lotte tra Lennon e McCartney come io stavo lontano dai litigi tra Stephen e Neil. Però scrivendo quel brano ho pensato a tanti vecchi amici. A Roy Orbison, il primo grande rocker maledetto, un uomo che ha sofferto come pochi altri. A Jerry Garcia, un altro dei miei migliori amici, uno che ha scoperto nuovi modi di viaggiare con la mente e di applicarli alla creatività: uno degli artisti più versatili di tutti i tempi, bluesman, tradizionalista e grande cultore della tradizione, ma inventore dell’improvvisazione nel rock con le sue suite psichedeliche. Ancora è dedicato a Frank Zappa, alla sua genialità beffarda e strafottente. Poi ho pensato a un personaggio che non ho conosciuto ma che, con la sua musica e le sue sofferenze, è stato il padre di tutti noi: Hank Williams.
Il testo dice: "C’è stato un tempo in cui pensavamo di essere invincibili"…
A Woodstock non si faceva politica in senso stretto ma ci sono stati momenti in cui, tutti insieme, abbiamo creduto di cambiare il mondo, e forse in parte l’abbiamo fatto. Grazie a noi sono caduti molti tabù. Milioni di giovani hanno imparato a stare insieme, a pensare con la loro testa, a combattere contro le costrizioni dell’establishment, contro la repressione, abbiamo imparato tutti a essere più liberi. A quei tempi insomma il modo cominciò a cambiare.
Il movimento di Woodstock si è poi sviluppato nel suono della West Coast?
Sì, ma come sempre i media ci hanno ricamato sopra. CSN&Y, Eagles, America, Jackson Browne, Flying Burrito, eravamo semplicemente musicisti raggruppati a Los Angeles, uniti da un grande feeling, eravamo giovani e dalla parte dei giovani e rinnovavamo l’epica del country con iniezioni di rock.
Ma perché hai lascito gli Hollies e l’Inghilterra, dove eri un monumento del beat e vendevi tantissimi dischi, per cambiare così radicalmente?
Il beat inglese era troppo ripetitivo e alla fine non mi ci ritrovavo più. In Inghilterra scrissi Teach Your Children e Right Between The Eyes che nessuno capì. Andai in crisi, ma per fortuna le feci ascoltare a Crosby che se ne innamorò e salvò la mia carriera.
Suonerete ancora insieme voi due?
Sì. Ha fatto una breve apparizione nell’album e il brano Chelsea Hotel è dedicato a lui. Ci siamo incontrati da poco alle Hawaii. Lui è in ottima forma, siamo andati a pesca, a fare windsurf e abbiamo messo le basi per il nuovo disco che uscirà l’anno prossimo.
Ritornerete anche in quartetto. Looking Forward non era un granché…
Forse è stato inciso troppo in fretta, ma torneremo insieme sicuramente. Il tour americano ha battuto tutti i record di incasso. La gente ci ama e noi amiamo la gente.
Ho avuto tanto successo nella mia carriera ma, a differenza di tante rockstar, non ne ho goduto i privilegi. Non mi interessa il circo del rock fatto di lustrini, di apparenza: insomma il grande bluff che ha rovinato tutto. All’inizio il rock era un movimento spontaneo, soprattutto a San Francisco; poi i media si sono appropriati di tutto: hanno ridotto tutto a un fenomeno di costume e anche molti artisti sono caduti in quella trappola.
Inutile piangere sul passato, il pubblico sa ancora riconoscere i veri artisti, quelli che non hanno tradito.
Chi è oggi Graham Nash?
Un uomo tranquillo che, con un pizzico di incoscienza e di romanticismo, crede sempre nei valori e nelle battaglie civili. Nella musica sono stato fortunato. L’unico vantaggio della popolarità e del successo è che puoi permetterti di scrivere canzoni quando vuoi: quando hai veramente qualcosa da dire.
È quello che hai fatto nel nuovo album?
Sentivo queste canzoni che mi martellavano nel cuore e nel cervello ripetendo incessantemente "scrivimi, scrivimi". Provavo una sensazione di dolore e alla fine, quando ho cominciato a scrivere, un senso di liberazione. Credo che sia un disco molto profondo.
Da cosa nasce questa nuova voglia di scrivere?
Dalla serenità. Quando sei sereno riesci ad esprimere con chiarezza anche le emozioni più dolorose. Alcuni brani sono molto tristi, introspettivi, ma il disco nel complesso parla di temi positivi. C’è un senso di speranza di cui tutti abbiamo bisogno.
Non hai paura a confrontarti con brani ormai storici come Teach Your Children o Chicago?
Se dovessi scrivere canzoni a mente fredda sì, mi bloccherei pensando a ciò che quelle canzoni hanno rappresentato per più di una generazione. Ma scrivo con il cuore e vado avanti, cercando almeno di comunicare con il pubblico sulle cose di tutti i giorni. Del resto non ho mai preteso di scrivere inni.
Ma Teach Your Children e Chicago, sono ancora attuali?
Credo di sì, esprimono concetti universali; il mio pubblico le canta ancora e anche i giovanissimi le ascoltano con interesse. Ci sono mille canzoni che sono specchio di un’epoca e anche alcune delle mie lo sono state.
Nel nuovo album i brani sono tutti nuovi tranne Pavanne di Richard Thompson e Liar’s Nightmare, la cui melodia nasce da un canto folk angloirlandese, lo stesso che ha ispirato Bob Dylan per Masters Of War.
Pavanne è come un romanzo, è un brano dal fascino irresistibile scritto da Richard Thompson, uno degli artisti più grandi che io abbia mai conosciuto. Naturalmente non ha mai raggiunto la popolarità che meritava, anche se è un artista di culto. Io sono nato in Inghilterra e sono sempre stato affascinato dai canti popolari. La canzone folk si modifica continuamente. Prendi In The Pines o Alabama Bound, sono usciti in mille versioni diverse, con la stessa melodia ma con titoli e testi completamente diversi. Io ho riadattato Liar’s Nightmare. Dylan l’ha trasformata in Masters Of War e sono in molti a pensare che sia stata scritta dal vecchio Bob. Molti mi hanno detto: hai copiato Masters Of War? Dylan ormai è più classico del folklore.
Il brano Lost Another One, veramente toccante, è dedicato a qualcuno in particolare?
A George Harrison, un vecchio amico dal carattere dolce, schivo e visionario molto simile al mio. Lui se ne stava fuori dalle lotte tra Lennon e McCartney come io stavo lontano dai litigi tra Stephen e Neil. Però scrivendo quel brano ho pensato a tanti vecchi amici. A Roy Orbison, il primo grande rocker maledetto, un uomo che ha sofferto come pochi altri. A Jerry Garcia, un altro dei miei migliori amici, uno che ha scoperto nuovi modi di viaggiare con la mente e di applicarli alla creatività: uno degli artisti più versatili di tutti i tempi, bluesman, tradizionalista e grande cultore della tradizione, ma inventore dell’improvvisazione nel rock con le sue suite psichedeliche. Ancora è dedicato a Frank Zappa, alla sua genialità beffarda e strafottente. Poi ho pensato a un personaggio che non ho conosciuto ma che, con la sua musica e le sue sofferenze, è stato il padre di tutti noi: Hank Williams.
Il testo dice: "C’è stato un tempo in cui pensavamo di essere invincibili"…
A Woodstock non si faceva politica in senso stretto ma ci sono stati momenti in cui, tutti insieme, abbiamo creduto di cambiare il mondo, e forse in parte l’abbiamo fatto. Grazie a noi sono caduti molti tabù. Milioni di giovani hanno imparato a stare insieme, a pensare con la loro testa, a combattere contro le costrizioni dell’establishment, contro la repressione, abbiamo imparato tutti a essere più liberi. A quei tempi insomma il modo cominciò a cambiare.
Il movimento di Woodstock si è poi sviluppato nel suono della West Coast?
Sì, ma come sempre i media ci hanno ricamato sopra. CSN&Y, Eagles, America, Jackson Browne, Flying Burrito, eravamo semplicemente musicisti raggruppati a Los Angeles, uniti da un grande feeling, eravamo giovani e dalla parte dei giovani e rinnovavamo l’epica del country con iniezioni di rock.
Ma perché hai lascito gli Hollies e l’Inghilterra, dove eri un monumento del beat e vendevi tantissimi dischi, per cambiare così radicalmente?
Il beat inglese era troppo ripetitivo e alla fine non mi ci ritrovavo più. In Inghilterra scrissi Teach Your Children e Right Between The Eyes che nessuno capì. Andai in crisi, ma per fortuna le feci ascoltare a Crosby che se ne innamorò e salvò la mia carriera.
Suonerete ancora insieme voi due?
Sì. Ha fatto una breve apparizione nell’album e il brano Chelsea Hotel è dedicato a lui. Ci siamo incontrati da poco alle Hawaii. Lui è in ottima forma, siamo andati a pesca, a fare windsurf e abbiamo messo le basi per il nuovo disco che uscirà l’anno prossimo.
Ritornerete anche in quartetto. Looking Forward non era un granché…
Forse è stato inciso troppo in fretta, ma torneremo insieme sicuramente. Il tour americano ha battuto tutti i record di incasso. La gente ci ama e noi amiamo la gente.
***
La
voce di Graham Nash percorre via satellite le migliaia di chilometri
che ci separano dalle Hawaii, dove sta raccogliendo le energie prima di
portare in tour il suo nuovo (peraltro bellissimo) album, Songs for
Survivors. Nash sembra tutt'altro che un “sopravvissuto”, a dire il
vero. E' preso da mille progetti, non ultimo un libro che documenterà la
sua passione per la fotografia. Continuerà a prendersi cura della sua
famiglia (“E' la mia prima preoccupazione”, dice), ma dovrà pensare
anche alle prove. Il tour americano dell'uomo che ha consegnato al mondo
perle assolute e proverbiali come Teach Your Children e Our House
partirà il 14 settembre e si concluderà il 6 ottobre, ma all'orizzonte
si profila anche l'Europa, che Nash e i suoi tre migliori amici, David
Crosby, Stephen Stills e Neil Young, hanno sempre frequentato troppo
poco. E' un'attesa dolce, quella per il ritorno di Graham Nash, in uno
scorcio di storia in cui la sua generazione – quella che ha ridefinito
la stessa nozione di cultura, di arte, di musica e di società, creduta
ammuffita solo una manciata di anni fa – sembra di conoscerlo da sempre.
Lo ascoltiamo e siamo assolutamente sicuri che quello che sta dicendo
proviene della stessa profonda sensibilità che abbiamo e amiamo ancora
nelle sue canzoni...
Qual'è il segreto del tuo successo come autore e come cantante?
Credo
che il mio segreto più importante sia il piacere totale che provo
nell'arte di creare. Mi piace veramente creare. Mi piace veramente
toccare il cuore delle persone. Mi piace veramente toccare l'anima delle
persone.
So che stai per pubblicare anche un libro di fotografie.
Il
mio libro sarà pubblicato nella primavera del prossimo anno. Ci saranno
centocinquanta fotografie scattate da me. Alcune di queste foto sono
già nel mio sito, www.grahamnash.com, e alla fine ci saranno tutte le
altre.
E la voce? Il tempo passa, ma è sempre bellissima. Sembra che tu abbia fatto un patto col diavolo.
No,
ho fatto un patto con Crosby! Credo di essere molto fortunato. Ho
sempre avuto cura di me. Crosby, Stills, Nash & Young hanno finito
il loro tour due mesi fa e le voci erano molto belle. Credo di essere
una persona davvero fortunata.
A proposito di David...come mai hai deciso di tenere le armonie vocali di Crosby e di Sidney Forest un po' basse nel missaggio?
Volevo
fare un disco molto intimo, un disco che la gente potesse ascoltare.
Volevo concentrarmi su di me. Con David e Steven o con David, Steven e
Neil, le armonie sono la cosa più importante, ma con un progetto solista
le mie parti vocali sono quelle che per me contano di più.
Hai
cantato di nuovo con David e ogni volta che questo succede, torna la
magia di Crosby & Nash. Avete mai pensato di riformare il duo?
Mi
piace cantare con lui. Mi piace molto...Daid era qui alle Hawaii in
questi giorni e proprio ieri sera abbiamo parlato a lungo di un altro
album di Crosby & Nash e di un tour con una nuova band.
Hai ancora legami con il tuo paese e con la tua città?
Amo
molto l'Inghilterra. E' un paese molto bello, abitato da molte persone
in gamba e ci vivono ancora le mie due sorelle. Anche se sono nato in
Inghilterra, sono diventato americano da molti anni, ma mi considero
soprattutto un abitante di questo pianeta più che di un paese specifico.
Ho sempre invidiato gli astronauti, che potevano osservare la terra
dall'alto e non vedevano confini, non vedevano stati, vedevano un
pianeta.
Quanto
c'è ancora dell'Inghilterra nella tua musica? Nel disco hai ripreso per
esempio “Pavanne” di Richard e Linda Thompson...senza dimenticare la
melodia di “Nottamun Town”, che hai usato per “Liars Nightmare”.
Ho
parlato con Linda una settimana fa. Ci siamo incontrati in una radio di
Philadelphia dove eravamo per promuovere i nostri dischi. Ho sempre
amato Pavanne e la cantavo spesso dal vivo già vent'anni fa. Mentre
stavo registrando il disco mi sono detto che sarebbe stato bello farla
ancora. E' molto inglese, molto europea...parla di un'assassina,
stranamente, ed è una canzone stupenda. Bob Dylan ha usato la melodia di
Nottamun Town per Masters of War e a me è sempre piaciuta molto. Nelle
note dell'album l'ho attribuita a Jean Ritchie.. Penso che sia stato
Alan Lomax a registrarla con lei durante uno dei suoi lunghi viaggi
negli Stati Uniti...Purtroppo Lomax è morto un mese fa. Nel mio disco
c'è una canzone, Lost Another One, che parla proprio di tutte le persone
che abbiamo perduto.
Pensavo che si riferisse in modo particolare a George Harrison...
La
canzone è stata scritta prima che George morisse, ma quando si sapeva
già che era molto malato. Ho cominciato a scriverla quando è morto Ray
Orbison e negli ultimi due anni ho perso molte persone...Frank Zappa,
Harry Nilsson, John Candy, Micheal Hedges, Kurt Cobain e proprio in
questi ultimi giorni John Entwistle.
Cosa
pensi della decisione di Pete Townshend e Roger Daltrey di non
annullare il tour americano degli Who dopo la scomparsa improvvisa di
John Entwistle?
Penso
che lo stesso John avrebbe voluto così. Ne sono convinto. Questo non
significa che Pete e Roger non abbiano pianto per la perdita di un
vecchio amico e che non siano tristi. Significa soltanto che hanno
voluto essere il più positivi possibile e che hanno voluto onorare la
sua memoria suonando rock'n'roll.
In
“Lost Another One” e “The Chelsea Hotel” parli del trascorrere del
tempo e del tramonto della giovinezza...Pensi che il nostro sogno di
cambiare il mondo sia ancora vivo?
Assolutamente
sì. Puoi cambiare il mondo in tanti modi. Puoi cambiare il mondo
incoraggiando i bambini a leggere, avendo cura della tua famiglia e dei
tuoi amici. Puoi cambiare il mondo in un milione di modi. Credo nel
profondo del mio cuore che il gesto più piccolo possa cambiare il mondo.
E se ti chiedessi qual'è stato il momento più importante di tutta la tua carriera?
Cantare
per gli Everly Brothers. Nel 1990 ho cantato So Sad con loro dal vivo
ed è stato uno dei momenti più importanti della mia storia musicale.