Questi
signori sono tornati all’essenza espressiva e compositiva, superando le
artificiosità del periodo di metà carriera. Superati cioè gli anni ’80 e
il nuovo rock dei primi anni ’90, questi cosiddetti hippie hanno
ritrovato il loro sound senza bisogno di aggiungere niente, se non
arricchendolo con moderni ma dosati arrangiamenti persino più pregnanti
di quelli d’un tempo. Ad esempio grazie alla collaborazione con nuovi
talenti, diretti eredi della loro musica, in grado di dare nuovi input
creativi (Pevar e Raymond, con cui Crosby ha fondato il progetto CPR).
E
guardateli dal vivo. Le loro chitarre e la band fanno un lavoro
straordinario, le loro voci sono più rauche, più incisive e più sagge, e
i vecchi cavalli di battaglia ne traggono incredibile giovamento. Le
nuove composizioni non sono dissimili a quelle che preferiamo e che
prendiamo come irremovibile riferimento, e si lasciano alle spalle con
gioia gli errori della mezza età, come una sorta di cerchio che si
chiude.
Songs For Survivors
è l’ultima opera discografica – per ora – del solo Nash, accompagnato
da vari elementi e con varie collaborazioni all’interno (tra cui
l’immancabile Crosby). Ed è una prova di questa teoria, così come Crosby & Nash del 2004, e certamente molto più di Looking Forward che
nel 1999 segnava il ritorno del supergruppo Crosby Stills Nash &
Young. Sembra infatti che questi signori siano micidiali sul palco tutti
insieme, ma discograficamente parlando trovino la serenità e
l’ispirazione necessaria una volta distaccati, o al massimo presi a
coppie. E così Nash dà il meglio nel suo album personale (registrato nel
2000 anche se uscito due anni dopo).
Un
album da ascoltare attentamente, testi sottomano, e da riascoltare
numerose volte. Nash, si sa, è sempre stato il poeta dell’amore, della
pace e della vita, e l’inquisitore di ogni ingiustizia morale ed
ecologica. Non troviamo un tema portante nell'album, ma tanti piccoli
frammenti che costituiscono un quadro generale della sua poetica.
“Dirty Little Secret” è una denuncia storica, “la violenza razziale al suo peggio” come dice Nash (nelle note alla canzone in Reflections,
il suo box set antologico). Una partenza trascinante che scivola poi in
“Blizzard of Lies”, piacevole ballad. “Lost Another One” è
probabilmente uno dei pezzi più significativi, dove Nash (parlando per
tutta la sua generazione) fa i conti con l’incedere del tempo e lo
scomparire dei vecchi amici: “All along we thought we’d do another show /
and write another song, but I guess we’ve lost another one”.
Riflessiva
e malinconica, ma non facilmente triste, anzi melodicamente
trascinante, in un binomio molto ben riuscito che porta il marchio del
suo compositore.
“The Chelsea Hotel” è una delle gemme, oscura, introspettiva, ricca d'immagine. Qui Nash cita James Raymond: “is writing of poets and painters […] / a lover of his art, a lover in his heart”.
Gli
episodi successivi, “I'll Be There For You” e “Nothing in the World”
sono temi d'amore che passano abbastanza lisci e indifferenti;
decisamente meglio “Where Love Lies Tonight” che rinnova la stessa
tematica.
L'ultima
parte dell'album regala autentici capolavori: “Pavanne” (cover di Linda
Thompson) catapulta l'ascoltatore indietro di trent'anni con una
melodia chitarristica da brividi e bellissime armonie vocali. “Liar's
Nightmare” è un pezzo assolutamente fuori dallo stile di Nash, un lungo
(oltre 8 minuti) incedere prosaico che si avvicina molto a Young e a
Dylan (su Reflections è presente in versione live e acustica, ma
l'originale è già perfetto). Nash afferma di averlo scritto sotto
sedativi dopo un’operazione al ginocchio, riprendendo una vecchia
melodia degli anni ’50 ripresa anche da Dylan.
Infine la dolce chiusura di “Come With Me”, classica e concisa.
Songs For Survivors ha decisamente più di quanto faccia intendere il titolo, e lo consiglio davvero agli estimatori di questi signori.
In Reflections
c’è una out-take dell’album, “We Breathe The Same Air”, non scritta da
Nash ma al quale fu spedita, che ricorda lo stile degli Hollies (la band
d’esordio di Nash).
Matteo Barbieri, Rockinfreeworld (pubblicato originariamente su BeatBlog2)
Stanno
montando un piccolo caso su questo nuovo album di Graham Nash, a
trentun anni dal leggendario Songs For Beginners e a sedici dal
penultimo disco, Innocent Eyes. Trovo che sia esagerato, ma sapete com'è
Nash: un gentiluomo sempre così affabile e gentile, che finisce per
trascinarti nel suo piccolo mondo e metterti comodo, così che proprio
viene spontaneo non essere severi con lui. Songs For Survivors è un
tipico album dell'artista, mettiamola così. Nel bene e nel male. È «il
solito Nash»; e chi lo ama troverà spunti per volergli ancora bene
mentre chi lo disdegna (o più facilmente lo ignora) seguiterà a rimanere
indifferente. Nulla è cambiato dal passato, a cominciare dalla voce
che, come nel caso del compagno Crosby, è rimasta clamorosamente intatta
rispetto a «quei giorni». Così pure il piglio educato dei brani, anche
nei momenti più polemici; e il gusto per ritmi moderati, appena appena
mossi, che dà un po' fastidio e fa troppo yuppie quando Nash yuppie
proprio non è. Dimenticatevi il primo album, che aveva dalla sua canzoni
speciali, perfettamente in linea di vento; e anche il penultimo,
clamorosamente sbagliato, orribilmente «anni Ottanta». Qui siamo al
livello di Wild Tales, il secondo album del 1973, e di Earth Sky, 1980:
un West Coast gentile e di maniera, gradevole ma incapace di graffiare.
Nash è sempre stato una presenza discreta nella scena e dalla metà degli
anni Settanta ha inciso davvero poco: tre dischi «solo», un paio di
album con Crosby, qualcosa ancora con Stills e Young, a inseguire sogni
perduti. Anziché diventare workaholic e farsi mangiare dalla musica, ha
preferito dedicare tempo alla moglie Susan e alla figlia (oggi
ventenne), oltre che ai suoi hobby, primo fra tutti la fotografia. Ha
una società di stampe digitali di alta qualità, Nash Editions, e sta per
pubblicare un libro anche di suoi scatti in bianco e nero (From Eye To
Eye, Gardner Press, in uscita per l'autunno). Colleziona anche
manoscritti musicali, ha un progetto chiamato Manuscript Originals che
ha coinvolto finora l'amico Crosby e Grace Slick, James Brown, Carole
King, John Lee Hooker. Vive in una piccola isola delle Hawaii, lontano
dallo stress, si gode i sessant'anni con lo spirito giusto. L'album è
prodotto con l'amico Russ Kunkel e suo figlio Nathaniel, e suonato bene
da una serie di fini musicisti tra cui il bassista Viktor Krauss, il
chitarrista steel Dan Dougmore e i chitarristi Steve Farris e Dean
Parks. Non è mai troppo denso e neanche «modernista» ma ogni tanto
sarebbe bello che si smagrisse ancora un po', che si affidasse magari
alla semplicità chitarristica di Pavanne. Tra i brani comunque spiccano
l'iniziale Dirty Little Secret, il ricordo nuovayorkese di The Chelsea
Hotel e la ballata d'amore di Where Love Lies Tonight. Discorso a parte
merita Liar's Nightmare, l'unica melodia non composta da Nash.
Impossibile non riconoscervi i tratti di Masters Of War, il celebre inno
contro i guerrafondai di Freewheelin'. Un clamoroso plagio dylaniano,
dunque? Piano con le parole. Nash ha infatti usato una melodia
prestatagli da Jean Ritchie, uno storico folksinger anni
Cinquanta-Sessanta, erede di una famiglia di musicisti che affonda le
sue radici nelle Kentucky Mountains addirittura dalla fine del
Settecento. Siamo nel campo della canzone popolare, insomma, la grande
nutrice della generazione di Nash e per l'appunto di Dylan. Tutt'e due
si sono abbeverati alla stessa fonte, ecco quanto, a distanza di
quarant'anni; solo che Nash cita la derivazione mentre il Dylan giovane,
in questo e in altri casi, era smanioso e spiccio, e per nulla attratto
dalla filologia.
Riccardo Bertoncelli, Del Rock
Voto: 8
Perché: la domanda sorge spontanea. Perché le canzoni migliori Crosby, Stills, Young, e adesso Nash, se le tengono per i loro dischi solisti? Poco importa, basta che continuino a farne.
Perché: la domanda sorge spontanea. Perché le canzoni migliori Crosby, Stills, Young, e adesso Nash, se le tengono per i loro dischi solisti? Poco importa, basta che continuino a farne.
Paolo Vites, JAM