
diretto? «E’ uno storia complessa, da subito l’ho concepita su due piani, immagini e musica. Dura un’ora e quaranta minuti ma scorre bene, no?». Benissimo, perchè non la proietta mentre la canta? «Per farlo occorre suonare in teatri, posti piccoli dove il pubblico possa seguirla bene. E per ora, fortunatamente, negli Stati Unti tra qualche settimana suonerò, 33 concerti, in spazi grandi, a New York al Madison Square Garden, dove non verrebbe recepita come si deve. Al cd, quando uscirà credo a settembre, verrà allegato il Dvd del film. Intanto a fine giugno ripubblicherò, completamente rimasterizzati, quattro dei miei primi album, On the beach tra questi». Perchè un concept-album come Greenvale, vicenda piuttosto dreiseriana, alla Una tragedia americana per meglio intenderci? Come ha scelto gli attori? Mai pensato di dirigere, oltre Greenvale, un vero film? «Volevo raccontare la realtà di una piccola città, poco più di 25mila persone, come tante negli Stati Uniti. Di una famiglia distrutta da una dramma improvviso, un figlio omicida, le diverse personalità che la compongono. Il nonno che non si dà per vinto davanti al disastro avvenuto, e ne muore, la moglie un pò svampita, un figlio pittore che, grazie a un sogno, vede improvvisamente accettati i suoi quadri finora respinti, una nipote che studia i media e li critica così come critica la società in cui vive. E il diavolo, tentatore e, alla fine, salvatore. Gli attori sono tutti amici e conoscenti, non professionisti. Il cinema? Una grande passione, vedremo». Mai chiesto da dove nasce la sua ispirazione? «No. So che quando ho un’idea devo tradurla subito in un pezzo». Parafrasando il titolo di un famoso libro dello scrittore William Saroyan lei, canadese, che ne pensa dell’America? «Secondo me gli Stati Uniti non stanno vivendo un buon momento, l’intreccio politica-affari, la mancanza di rispetto verso l’ambiente non mi piacciono». Lei, Lou Reed, Jackson Browne, Bruce Springsteen: perchè, escluse le giovani Dixie Chicks immediatamente boicottate, solo artisti maturi hanno sentito il bisogno di prendere posizione contro la guerra in Iraq? «Forse perchè lo avevamo fatto già in passato? E’ parte di noi? Appartengo a una generazione che ha vissuto il rock come parte integrante, propulsiva, propositiva, stimolante della società, cantare e suonare tanto per farlo non ci appagava. E, a maggior ragione, non ci appaga oggi». Il rock come parte della cultura contemporanea pensa non esista più? «Adesso conta fare soldi, il fatturato. Ai miei tempi era diverso, prima di incidere dovevi fare anni di gavetta, dura, dovevi suonare tanto. Non c’erano i video che esaltano, lanciano e poi...». E poi? «Se non continui a vendere le case disocgrafiche non ti danno il tempo di maturare, ti tagliano subito fuori». E’ fiducioso sul futuro del rock? «Sinceramente credo che gente come Ryan Adams, Ben Harper, Radiohead, Pearl Jam potranno continuare a fare cose ottime. Anche se il contesto in cui operano non è così ricettivo e vivo come quello in cui abbiamo iniziato io e tanti altri». Non trova demoralizzante che ad attirare ancora le folle siano, spesso, artisti ultracinquantenni? «Quello è il segno che abbiamo lavorato bene. Forse. Non emetterei giudizi affrettati su alcuni artisti di oggi. Diamo loro tempo e fiducia, vedrà che cresceranno». Crosby, Stills, Nash & Young: nessuno speranza di rivedervi, riascoltarvi? «Stiamo lavorando. Per il prossimo anno. Se succederà, lo prometto, verremo anche in Italia».