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Looking Forward (1999)



Looking Forward, album di cui si dice già un gran bene, sancisce il ritorno di una delle formazioni che hanno realmente fatto la storia del rock. La vicenda di Crosby Stills Nash & Young, cominciata a Woodstock e segnata da ripetute separazioni e riconciliazioni, è il paradigma della tensione verso l'Utopia e dei fallimenti di una generazione.
Looking Forward è il titolo del disco che sancisce l'ufficialità del ritorno sulle scene del rock di Crosby, Stills, Nash & Young. Non è certo la prima volta che i quattro si ritrovano. Si potrebbe anzi dire che la loro storia fatta di separazioni e riunioni, eterno e irrisolto conflitto tra individualismo e lavoro di squadra, sia il paradigma della tensione verso l?Utopia e dei fallimenti di un?intera generazione. Già, perché questi signori dai capelli grigi non sono stati soltanto un gruppo, uno dei migliori e dei più amati tra quelli nati in America sul finire degli anni 60, ma hanno racchiuso nella loro musica e nelle loro canzoni le speranze, i dubbi e i sogni di milioni di ragazzi che avrebbero voluto cambiare il mondo. E se l'ultima reunion, quella effimera del 1988, aveva lasciato un po? tutti con l?amaro in bocca, questa - che cade a trent?anni da Woodstock ed è stata mille volte annunciata e rimandata - dovrebbe riportare il quartetto sulla strada per qualche mese. Riusciranno Crosby, Stills, Nash e Young a convivere on the road per tanto tempo? Una piccola leggenda vuole che nell?estate del 1968 David Crosby e Stephen Stills, reduci rispettivamente dai Byrds e dai Buffalo Springfield (le due formazioni seminali del folk rock americano), abbiano incontrato l?inglese Graham Nash, da qualche tempo in crisi con gli Hollies, in una casa di Laurel Canyon, nei pressi di Los Angeles. Ancora oggi non si sa in quale, visto che le versioni dei presenti e dei protagonisti sono discordanti. Ma che fosse l?abitazione di Joni Mitchell, di ?Mama? Cass Elliott o di John Sebastian poco importa. La piccola e libera comunità dei folk rocker era molto vivace e una regola non scritta voleva che le session e le collaborazioni avvenissero molto spesso e nel modo più naturale e rilassato possibile. Nash ascoltò Crosby e Stills cantare e suonare You Don?t Have To Cry, gliela fece ripetere tre volte e alla terza la sua voce si unì a quella degli altri due in un?armonia di straordinaria bellezza. Ci volle qualche mese prima che Nash si liberasse dai suoi impegni con gli Hollies e decidesse di unirsi agli altri due, ma alla fine Crosby, Stills & Nash entrarono in studio per registrare il loro primo album. Era il febbraio del 1969. E già qualche mese dopo, grazie anche al successo del disco che portava semplicemente i loro nomi, i tre comparivano - sia pure al quattordicesimo posto nell?elenco stilato in base ai compensi - tra i gruppi partecipanti al Festival di Woodstock. Con una piccola variazione. A Crosby, Stills e Nash si era aggiunto Neil Young, ex compagno/rivale di Stills nei Buffalo Springfield. Al trio non bastava soltanto una buona sezione ritmica. C?era bisogno di un musicista che potesse suonare la chitarra e le tastiere, che potesse anche arricchire il repertorio del gruppo con altre canzoni. Young accettò la proposta di Stills, che in un primo momento non prevedeva un suo ingresso come quarto componente a tutti gli effetti, ma pose delle condizioni precise. Chiese e ottenne che il suo nome fosse aggiunto a quello degli altri tre. Con le loro splendide parti vocali, le loro canzoni e le loro chitarre, Crosby, Stills, Nash & Young conquistarono non solo i cinquecentomila di Woodstock, ma anche la gran parte dei giovani americani, che in loro vedevano la realizzazione stessa di un sogno di armonia e collaborazione. Il successo mise in moto i meccanismi del nascente business del rock e anche questo contribuì non poco ad alimentare le tensioni tra i quattro musicisti. Senza contare che Neil Young, che aveva progetti come solista e con i Crazy Horse, era sempre con un piede fuori dalla band. In Déja Vu, pubblicato da CSN&Y nel 1970, il suo contributo appare ancora oggi decisivo, seppur limitato ad alcuni brani. Quando l?anno dopo CSN&Y decisero di autocelebrarsi con un doppio live, l?ormai leggendario Four Way Street, il quartetto non esisteva già più. CSN&Y si ritrovarono nel 1973 alle Hawaii per incidere un nuovo disco, ma il progetto non prese mai una forma definita e la band si limitò (si fa per dire) a un lungo tour nell?estate del 1974, culminato il 14 settembre con l?unica data europea al Wembley Stadium di Londra - un concerto memorabile, con un cartellone che comprendeva anche Jesse Colin Young, Joni Mitchell e la Band. Neil Young raggiunse i tre vecchi amici - peraltro sempre impegnati, sia pure a fasi alterne, con la sigla CSN - soltanto per il Live Aid (1985) e per American Dream, che si rivelò un episodio isolato e tutto sommato di scarso rilievo nella storia di una band che resterà nella storia del rock soprattutto per Déja Vu e Four Way Street. I giochi sembrano adesso riaprirsi proprio grazie a Neil Young, anima inquieta e vagabonda, l?unico tra i quattro ad aver sempre mantenuto un contatto forte e vitale con i musicisti delle generazioni successive. E Young l'autore più presente in Looking Forward - con il pezzo cha dà il titolo al disco, Slowpoke, Out Of Control e Queen Of Them All - Stills ha riscritto, non senza autorizzazione, un inedito di Bob Dylan, Seen Enough, e ha composto Faith In Me e No Tears Left; Crosby canta Stand And Be Counted (l'unica canzone politica) e Dream For Him; Nash interpreta Heartland e Someday Soon. Chi ha avuto modo di ascoltare Looking Forward ne dice un gran bene, anche se il grave incidente capitato a Nash, i problemi di salute di Crosby (un vero sopravvissuto) e quelli di alcolismo di Stills gettano un?ombra malinconica su questo ritorno. Una storia come quella di CSN&Y richiede e merita comunque stima e rispetto, anche se i tempi in cui Crosby intonava Music Is Love appaiono lontani anni luce.
Giancarlo Susanna


Una questione di cuore, e come tale irrazionale, istintiva, impossibile da giudicare con i presunti obiettivi criteri di una lucida analisi. Questo è l’impulso che mi guida all’ascolto e che, in fin dei conti, ha fatto nascere Looking Forward, il primo album in studio di Crosby Stills Nash & Young a 11 anni dal deludente (ma non del tutto) American Dream e a 30 da quel Déjà Vu che fece sognare intere generazioni. Dirò subito che chi si aspetta un altro Déjà Vu è un illuso e rimarrà inevitabilmente deluso. Chi invece si aspetta un altro American Dream rimarrà piacevolmente sorpreso: qui la produzione è onesta e meno “artefatta”, c’è meno spirito autocelebrativo, ma soprattutto ci sono canzoni all’altezza della fama dei nostri quattro gloriosi vecchietti. Su tutti svetta Young, e non solo quantitativamente (con quattro brani a sua firma): se Looking Forward è un magico intreccio di chitarre acustiche sussurrate e di voci come sempre inarrivabili (l’atmosfera complessiva del brano mi fa pensare a una via di mezzo tra Human Highway e Helplessly Hoping), Slowpoke è proprio da brividi. Tenue, acustica e sospesa nell’aria con una progressione d’accordi che sta a metà tra Heart Of Gold e Piece Of Mind è cantata da Neil con una voce talmente esile e incerta da sembrare sempre sul punto di spezzarsi; tuttavia quando arriva il sublime coro di CSN si capisce il perché, dopo 30 anni, questi adorabili mascalzoni hanno deciso di rimettersi assieme e noi siamo ancora qui a parlarne. Out Of Control è una bella e malinconica ballata pianistica nel classico stile younghiano impreziosita dagli interventi vocali di CSN, mentre Queen Of Them All è un pezzo piuttosto atipico dall’impianto pop-rock elettrico (mi ricorda alcune cose di Landing On Water ma senza la componente elettronica), la cui collocazione su questo album mi pare un po’ fuori posto (e la lista di più degne sostitute può essere infinita). Stills è la vera sorpresa: quando ormai si era pronti a darlo per disperso tra ville miliardarie, motoscafi off-shore, partite di golf e montagne di “polvere” (erano ormai più di 20 anni che non riusciva a regalarci un brivido), ecco che sciorina un rock tirato e torrenziale come No Tears Left in cui fa urlare un’incredibile chitarra elettrica solista (ben memore di certe vicinanze con l’amico Jimi). Poi ci sono il solito brano latineggiante (ma Faith In Me almeno è una buona canzone e suona perfetta come apertura) e la convincente Seen Enough, una sorta di serrato talking blues palesemente basato sulla melodia rallentata di Subterranean Homesick Blues, da cui la cointestazione del brano con sua maestà Bob Dylan (non è quindi una reale collaborazione tra i due, bensì solo una citazione “autorizzata”). Nash è sempre il solito: Heartland è forse un po’ troppo solenne, ma, come anche Someday Soon (più equilibrata e positiva quest’ultima), è retta da tre chitarre acustiche e da una melodia talmente lineare e un testo così ottimista da spingerti al sorriso facendoti ciondolare beatamente pensando che il mondo potrebbe essere migliore se solo lo si volesse. Quando finiscono ti senti un idiota per aver avuto un pensiero del genere, ma, in fin dei conti, Nash è adorabile proprio per questo. Più modesto il contributo di Crosby che, evidentemente, sta spendendo le sue carte migliori con i CPR (con i quali è già al lavoro per un secondo album in studio): Stand And Be Counted ha un bel riff potente e distorto in cui Stills e Young ci danno dentro con le elettriche come ai vecchi tempi (vedi Long Time Gone e Ohio) ma è sciupata da un ritornello scontatissimo che banalizza il graffiante invito del testo all’impegno civile. La versione di Dream For Him (una cui prima incarnazione dal vivo era già apparsa in CPR Live At The Wiltern) è invece più tirata, tesa e, tutto sommato, più riuscita: incalzante, discorsiva e sorretta da un arrangiamento jazzato pregevolissimo non riesce a togliermi la fissazione che Crosby avrebbe dovuto (da sempre) avere più spazio all’interno di CSN(&Y). In chiusura la delicata e solare Sanibel, brano scritto nel ’90 da Danny Sarokin che racconta di meravigliosi scenari marini del Pacifico: è Nash a guidare la canzone, anche se Young canta il secondo verso e il coro si dipana sul ritornello con grazia sublime. Non un capolavoro, ma un’ottima ballata che magari sarebbe stato bello sentire cantata a turno da tutti e quattro. Nel complesso la sensazione è che ognuno faccia le sue cose con l’appoggio degli altri (ma in fin dei conti è sempre stato così) e in questo senso a brillare di più sono le armonie vocali e le chitarre di Stills e Young (riconoscibilissime in ogni brano). Se è pur vero che le canzoni del canadese sono state prese paro paro da un suo album “in stile Harvest Moon” che ancora deve essere pubblicato (ma che si dice esser pronto da oltre un anno) al quale sono stati aggiunti gli interventi vocali di CSN, è pur vero che Young suona su ben 11 dei 12 brani e che Looking Forward ha comunque una compattezza di sound (perfettamente in equilibrio tra acustico ed elettrico) e un’omogeneità complessiva che in passato nessun album di CSNY ha avuto. Dal punto di vista dei contenuti, abbandonata l’indole del “siamo dei gloriosi e pluridecorati reduci sopravvissuti al massacro della Woodstock generation” CSNY abbracciano quella del “siamo degli imperfetti ma premurosi padri di famiglia che si preoccupano per il futuro dei loro pargoli pur guardando con ottimismo al domani”: questa la filosofia che affiora da un album che non fa gridare al miracolo, ma che ci fa semplicemente ritrovare dei cari vecchi amici di un tempo ancora capaci di regalarci (si fa per dire) un sorriso e qualche brivido. Credo che da loro, oggi, non potremmo (e non dovremmo) aspettarci niente di più e niente di meno.
Marco Grompi da Buscadero


Le prove per il nuovo album di CS&N vengono sconvolte da un arrivo inaspettato: Neil Young. L’elettricità del canadese ravviva i cuori e, dopo svariate sessioni, porta all’album vero e proprio, storico ritorno dei quattro dopo American Dream.
Con Looking Forward (Reprise, 1999), quattro stelle da museo della musica popolare uniscono le singole forze per dimostrare al mondo un’attualità priva di tempo.
L’inizio, tuttavia, non promette molto bene perché Stills torna, per l’ennesima volta, ai suoi amati Caraibi con “Faith In Me”. Sembra difficile, quindi, “avere fede” nei vecchi moschettieri del folk. Ma un disco con Neil Young è sempre qualcosa di speciale e, così, il canadese inizia a lavorare di ricami acustici per far rivivere la magia vocale della title track.
Crosby, da par suo, pare vivere una seconda vita artistica grazie al figlio ritrovato James Raymond. Con lui firma il blues attivista di “Stand And Be Counted” e, da solo, “Dream For Him”, toccante tematica universale sulla difficoltà dell’essere padre. Nash è, ovviamente, a bordo della sua automobile pop, riuscendo a centrare il bersaglio con la melodia di “Heartland” e la tenerezza di “Someday Soon”.
Il disco, insomma, non barcolla anche perché Stephen il texano vira verso un robusto rock-blues in odore hard (“No Tears Left”), permettendosi addirittura di sfiorare il plagio su una “Seen Enough”, troppo vicina a “Subterranean Homesick Blues”. Young si trova bene nel ruolo di chioccia più navigata e sembra quasi divertirsi con filastrocche per piano (“Out Of Control”) e rock and roll per bimbi (“Queen Of Them All”). Lontane anni luce dal concetto musicale di “capolavoro”, ma vicine a un modo sapiente di fare musica. “Slowpoke” sarà anche troppo simile a “Heart Of Gold”, ma emoziona nella sua essenza lunare.
In definitiva, pare effettivamente che CSN&Y stiano “guardando avanti”, duri a morire in un mondo che ha ancora bisogno della forza simbolica delle loro canzoni.
Al fine di promuovere lo storico disco, i quattro si imbarcano, all’inizio del 2000, per un tour record di incassi insieme al batterista Jim Keltner e al basso di Donald “Duck” Dunn.
ondarock.it


Ogni volta che facciamo un disco da solisti dicono che ci siamo separati. E quando realizziamo un album tutti e quattro insieme dicono che ci siamo riuniti. In realtà , sin dagli inizi, 30 anni fa, abbiamo detto che avremmo lavorato insieme ma anche individualmente". I leggendari David Crosby, Stephen Stills, Graham Nash e Neil Young tornano in pista con il nuovo album Looking Forward, 11 anni dopo American Dream, e con un tour che prenderà il via dagli Stati Uniti il 24 gennaio. A Milano arrivano solo in tre: Nash s' è fratturato le gambe in un incidente in barca. "Gli hanno appena tolto il gesso - dice Stills, camicia hawaiana e una sordità piuttosto evidente. Ora comincerà la riabilitazione. Sarà sicuramente con noi in tournee". "Siamo tornati insieme proprio adesso perché avevamo le canzoni giuste e la voglia per poterlo fare - dice Crosby dai capelli tutti bianchi. Il rock non ha età, anzi solo dopo i 50 anni riesci ad avere la vera padronanza della voce e dello strumento". Si sentono al passo con i tempi: "Ai concerti di ciascuno di noi la metà del pubblico è fatto di giovanissimi", dice ancora Crosby. Che tra i musicisti della nuova generazione riconosce più di un grande artista: "Michael Stipe dei Rem e i Rage against the machine". E spara contro "Woodstock" di cui loro sono stati protagonisti nel '69: "Le edizioni di questi anni sono state fatte solo per rubare soldi".
IL DISCO - Galeotto ritorno alle origini Per affrontare i doverosi confronti con il passato abbiamo messo sul piatto Dejà Vu del 1971 e abbiamo calato il pick up su "Teach your children". Un brivido d'emozione di fronte ai cristallini giochi vocali, alle galeotte chitarre acustiche, alla commozione dei ricordi per quegli anni in cui la West Coast era il mito. Per gli artisti che sono stati con la loro musica il simbolo di un' epoca, il ritorno è difficile. Crosby, Stills, Nash & Young ce l'hanno messa davvero tutta per ricreare nella scrittura, nelle voci e nei suoni l'antica magia. Looking Forward è dunque un bel disco da tutti i punti di vista, il massimo che si poteva chiedere ai magnifici quattro in canzoni nuove centrate sempre sugli ideali delle origini. Non riuscirà tuttavia a trasmettere alle nuove generazioni il nostro fuoco sacro di allora. I cinquantenni si getteranno a capofitto sulle versioni rimasterizzate dei CSN&Y o su opere come Rust Never Sleep di Neil Young (capolavoro). Inevitabile. Come lo scorrere del tempo.
Corriere della Sera, 1999




 





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