NEIL
YOUNG ROCK MILITANTE
«Contro
la guerra, ma non solo musica Oggi troppi dimenticano l'impegno»
«Un
giorno mi piacerebbe dirigere un film. Non certo uno alla James Bond,
uno con un' idea che vale... Sceglierei attori sconosciuti: ti perdi
più facilmente nella storia rispetto a quando vedi, che so, Dustin
Hoffmann. E infatti amo il cinema europeo, dove conta più il regista
che racconta una storia dell'attore». Neil Young, 62 anni e icona
del rock, per ora si accontenta di fare il regista di documentari.
Con lo pseudonimo Bernard Shakey ha diretto CSNY/ Dejà Vu,
documentario (a ottobre nelle sale italiane) sul tour contro la
guerra in Iraq che nel 2006 lo ha visto tornare con i vecchi compagni
Crosby, Stills e Nash e che faceva seguito a «Living with War»,
durissimo album nel quale Neil chiedeva addirittura l'impeachment di
Bush. Un vero documentario, in stile Michael Moore, non la semplice
documentazione dei concerti. Alle immagini degli spettacoli, si
intervallano reportage di guerra del giornalista Mike Cerre (Abc,
Cnn...) che si è anche occupato di raccogliere le testimonianze del
pubblico, molti i veterani dell'Iraq, che si presentava alle date. Lo
racconta Young nella sala di un elegantissimo albergo di Firenze,
dove ieri ha lanciato il tour solista europeo che lo vedrà questa
sera all'Arena di Verona. «Non mi bastava un dvd con Crosby, Stills,
Nash e Young che suonano. Un progetto così è vecchio e ormai lo
fanno cani e porci. Volevo più profondità».Profondità e impegno
ci sono, però è lui stesso a dire che «il momento in cui la musica
poteva cambiare il mondo è passato, al massimo ora può aiutare la
gente a pensare». Colpa degli artisti che non si impegnano più o
della società che è anestetizzata? «L'arte riflette sempre la
società, ma in passato la musica è stata molto più di quello. Oggi
invece riflette se stessa, un business, uno stile, una moda... Tutto
è superficiale e, anche se sta morendo, questa è la Mtv generation.
Chi canta di cose importanti non viene trasmesso», spiega. Durante
il tour i quattro hanno eseguito i brani di quell'album arrabbiato di
Neil, ma anche quelle pacifiste e impegnate che hanno segnato le
carriere di CSN&Y negli anni Sessanta e Settanta. «Per me una
canzone di protesta deve essere semplice, diretta, non c' è molto
spazio per l'arte. Le mie preferite di sempre sono "Masters of
War" e "Blowin' in the Wind": Dylan è il massimo».
Girare gli States per cantare contro Bush (come fecero durante la
campagna elettorale del 2004 Springsteen, Rem e altri con una serie
di concerti a sostegno di John Kerry) non è cosa facile. Non sono
mancati i momenti di tensione. Nel documentario si vedono. Fischi e
contestazioni, tanti che sfogavano la rabbia alzando il dito medio e
anche qualche minaccia di morte. Se lo aspettava? «Sì: le
recensioni negative che aveva avuto l'album erano spesso offensive.
Qualche preoccupazione c' era, ma io scrivo di quello che mi viene in
mente. Non certo di pantaloni a zampa o di tette. Molti si aspettano
che tutto sia intrattenimento. Ma il mio obiettivo era creare un
dibattito. Bush ha diviso il Paese: se non sei con noi non sei
patriottico era l'apice del suo pensiero. Una canzone non può
cambiare il mondo, ma può far ragionare la gente. Magri sul tema
dell'energia, fondamentale oggi». In «Dejà Vu» si capisce che già
allora Neil credeva in Obama: «Lo incontrai due o tre fa e gli
dissi: "Sarai il prossimo presidente". Lui rise: "sono
troppo giovane". È qualcuno in cui poter credere. I fallimenti
di Bush sono legati all'egoismo, al fatto che non volevano perdere i
loro posti più che al fatto che volessero vincere una guerra. Hanno
caratterizzato tutta una religione, l'Islam, come un nemico. Perché
non hanno mandato quanti più soldati possibile laggiù se fosse
stato veramente una minaccia alla nostra società? Non sarebbero
stati rieletti. McCain invece ha piani di guerra ovunque e se vincerà
ci sarà un' esplosione nel reclutamento».
Andrea
Laffranchi, Corriere della Sera 2008

Dal
rock come dimensione "totale" alla musica come impegno e protesta.
Dalla band più coesa che la storia ricordi, a un gruppo diviso e plurale
già nel nome. Dal mito sulfureo degli Stones a quello più nobile ma
forse meno sfavillante di Crosby, Stills, Nash & Young. Che dopo
essersi sciolti hanno deciso di riunirsi, serenamente invecchiati e
panciuti (altra differenza chiave rispetto agli Stones), in una lunga
tournée attraverso l'America per mobilitare il paese contro la guerra in
Iraq. Il risultato è un curioso film itinerante e molto militante
firmato da Bernard Shakey, meglio noto come Neil Young, che è l'esatto
opposto di Shine a Light. Scorsese non esce mai dal Beacon Theatre se
non per andare a ritroso nel tempo e cerca nella storia degli Stones la
storia di tutti, o almeno del loro pubblico. CSNY: Déja Vu (Berlinale
Special), titolo autoironico o forse scaramantico, fa l'esatto
contrario. Porta la storia il presente sullo schermo e sul palco.
Letteralmente. Sia alternando immagini d'attualità ai concerti, con
effetto a tratti un poco archeologico. Sia arruolando come testimonial
il reporter di guerra Mike Cerre, che essendo stato "embedded" in
Afghanistan e poi in Iraq è il personaggio ideale per catalizzare umori e
reazioni. Accostare i due film in apertura era una scelta curiosa. Ma è
poco dire che l'attenzione della Berlinale era tutta per gli Stones.
Glamour batte politica 6-0, 6-0.
Il Messaggero, 8 febbraio 2008
"I
think that the time when music could change the world is past. I think
it would be very naive to think that in this day and age. I think the
world today is a different place, and that it's time for science and
physics and spirituality to make a difference in this world and to try
to save the planet".
(“Credo che il tempo in cui la musica poteva
cambiare il mondo sia finito. Credo che sarebbe davvero infantile
pensare una cosa del genere in questa epoca. Credo che il mondo oggi sia
un posto differente e che sia il tempo per la scienza, la fisica e la
spiritualità di fare la differenza e cercare di salvare il pianeta”).
È
interessante che Neil Young abbia detto queste cose proprio alla
presentazione del suo film CSNY: Deja Vu, documentario che racconta il
Freedom of Speech tour che lui e Crosby, Stills e Nash hanno tenuto nel
2006, uno degli eventi più altamente politici che la storia della musica
rock recente ricordi, messo in piedi per attaccare e denunciare
l’amministrazione Bush.
Aggiungendo poi: “I miei amici mi dicono di
non smettere. Non smetterò. Sono convinto che questo sia il momento di
operare dei cambiamenti. Ma so anche che non sarà una canzone. Forse lo
era, ma oggi non lo è più. Sto cercando il carburante della gente, ciò
che la spinge a vivere e a muoversi. Lo troverò? Sì. Non so nemmeno
perché ho scelto di dare una mano a rivelare una cosa di tale portata.
So che posso solo scrivere una canzone quando lo avrò trovato. Fino ad
allora posso scrivere una canzone sulla ricerca. Ma una canzone da sola
non cambierà il mondo. Eppure, continuerò a cantare”.
Personalmente
non ho mai creduto che una canzone rock abbia cambiato il mondo. Non so
da dove Neil Young abbia preso la nozione che in passato sia stato così.
Forse da una frase che disse una volta Bob Dylan (che, come sempre, va
letta in modo piuttosto ironico e cinico): “Crosby Stills Nash e Young,
loro sì che hanno fermato la guerra in Vietnam con le loro canzoni”. Ho
sempre pensato che una canzone di “protesta” (termine orribile) o
“politica” al massimo riflettesse quello che già stava accadendo nella
società. Canzoni come Ohio, appunto di Neil Young. Oppure rivelasse una
visione ideologica del tutto parziale e chiusa in se stessa, come
Fascist Pig dei Suicidal Tendencies. Le canzoni di protesta la maggior
parte delle volte vengono ascoltate da chi è già su una certa lunghezza
d’onda. Guardate il grande dispiego di mezzi che fu Il Vote for Change
Tour capitanato da Bruce Springsteen nel 2004, quando un gruppo di
artisti girò l’America per sostenere la candidatura di John Kerry contro
quella di George Bush. Il risultato fu la vittoria di Bush. Perché a
quei concerti di Springsteen & Co. ci andavano solo, ovviamente,
persone che già avevano deciso di votare per Kerry. Insomma, “predicare
ai convertiti”, come si usa dire.
Forse, se proprio devo pensare a
canzoni rock che hanno cambiato il mondo, credo abbiano avuto più
impatto brani come Tutti frutti di Little Richard, Thats Alright Mama di
Elvis o Like A Rolling Stone di Bob Dylan. Canzoni che hanno avuto una
forza d’urto formidabile sulla società, spingendola a muoversi verso
direzioni sconosciute. Ma anche in tal caso, esse hanno riflesso dei
cambiamenti che comunque erano già in atto e che probabilmente sarebbero
accaduti ugualmente, magari in forma diversa.
Nessuno, in Occidente,
sa o si ricorda di quella che invece è passata alla storia come la
“singing revolution”, la “rivoluzione cantante”, avvenuta nei Paesi
Baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) tra il 1987 e il 1990. Nel
tentativo di scrollarsi di dosso quello che era stato il brutale regime
sovietico, il 14 maggio 1988 al Tartu Pop Music Festival in Estonia,
vennero improvvisamente eseguite in barba alla polizia russa presente
cinque canzoni patriottiche: il pubblico presente si unì in massa ai
musicisti rock sul palco, unendo le loro mani, e cominciò una serie di
eventi epocali. Notte dopo notte, ovunque ci fosse un concerto o anche
per le strade, migliaia di cittadini si univano a musicisti rock
cantando canzoni che il regime di occupazione aveva proibito per
decenni. La cosa si propagò anche negli altri due Paesi vicini,fino alla
vittoria (esiste anche un film su questa storia, vedi immagine in
questo post).
Per dirla tutta, forse davvero alcune canzoni rock
hanno (in parte) cambiato il mondo. Neil Young si scorda però di dire
che erano canzoni così belle e significative – ad esempio quelle citate
prima e tante altre, magari Anarchy in the UK dei Sex Pistols – che era
proprio inevitabile che ottenessero risultati clamorosi. Un pezzo,
scritto come semplice canzoncina ballabile per innamorati come Dancing
in the Streets di Martha and the Vandellas, nel 1964 divenne il canto di
migliaia di manifestanti per i diritti della gente di colore. Oggi
nessuno, Neil Young incluso, sa più scrivere canzoni di tale portata.
Mi
piace piuttosto che Neil Young sia ancora così appassionato alla
propria musa e a ciò che essa davvero significhi: cercare l’anima del
mondo, cercare di svelare il mistero della vita. Anche solo con una
canzone. Le canzoni “politiche” passano come passano gli eventi di cui
esse raccontano. Le grandi canzoni che osano dare un volto al mistero
rimangono, almeno fino a quando il mistero non verrà svelato. O qualcuno
si accorga che il mistero ha già preso un volto umano e si è fatto
compagnia all’uomo già da tempo. Da circa duemila anni e poco più.
Paolo Vites