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Marzo 1970, West Coast, U.S.A. David Crosby ha da poco abbandonato i
Byrds ed il loro prepotente leader R. MacGuinn, Stephen Stills ed i
suoi Buffalo Springfield pochi anni prima avevano scalato Billboard
con “For What It’s Worth”, Gram Nash e gli Hoollies avevano
insidiato addirittura i Fab4 facendo anche una capatina al nostrano
festival di Sanremo ed infine Neil Young che si trovava a pochi anni
dal realizzare la propria Bibbia, Harvest (1972). Dall’unione di
questi quattro talenti rock nasce Dejà Vu, che segue di un anno
l’esordio omonimo e anticipa l’uscita del loro terzo album del
1971, il live 4 Way Street, altro disco impedibile come del resto la
loro apparizione a Woodstock, immortalata nel doppio disco
dell’evento. La copertina ritrae i quattro musicisti in stile
quadretto primo 900’ con Neil Young più defilato, come a voler
ribadire la sua momentanea partecipazione, tema che accompagnerà
l’intera carriera del canadese sempre alla ricerca di continui
cambiamenti, per sfuggire alla ruggine come dirà più tardi. Il
disco si apre con la splendida cavalcata acustica di “Carry On”
(Stills) dove i sublimi intrecci vocali dei quattro legittimano la
fama nata dalla famigerata esibizione di Woodstock. La seconda
traccia, dove la steel guitar è suonata niente meno che da Jerry
Garcia, firmata da Nash è la bandiera del pacifismo imperante in
quel tempo dove ogni hippy armato di chitarra intonava le note di
“Teach Your Children”. “Almost Cut My Hair” mette in evidenza
il genio sregolato di Crosby, dotato di una voce graffiante e
avvolgente ottimamente accompagnata dalla blueseggiante chitarra di
Young.
“Helpless”
è il primo brano accreditato al loner canadese ed è una ballata
bellissima cantata prodigiosamente dalla struggente voce di Young.
Con la cover di Joni Mitchell, “Woodstock”, i nostri tornano con
la mente a quella data che doveva cambiare il mondo e che ha cambiato
sicuramente il rock, basta ricordare l’esibizione di Jimi Hendrix.
Il pezzo che dà il nome al disco è una perla psichedelica del
solito D. Crosby, la bellezza del brano ci fa rimpiangere ancor di
più la sua carriera pesantemente compromessa dall’alcol e dalle
droghe. “Our House” è la gemma pop dell’album, potrebbe
tranquillamente essere confusa con un capolavoro a caso della coppia
Lennon-McCartney, del resto G. Nash è l’unico inglese del gruppo.
Il momento più intimo dell’intero episodio è affidato al cuore di
S. Stills che con i due minuti appena di “4+20” porta l’ascolto
ad un altro livello. “Country Girl”, ancora di Neil Young, è una
suite di cinque minuti che ripercorre i fasti di episodi quali
“Cowgirl In The Sand” e “Old Laughing Lady”. Chiude il disco
“Everybody I Love You” un brano che avrebbe potuto far parte
delle opere dei passati Buffalo Springfield, non a caso è firmato
dagli ex-bufali Stills e Young.
Patrizio
Schina
Con
l’inserimento di Neil Young, Dejà Vu (Atlantic, 1970) protegge
l’intimità acustica del primo album con un caleidoscopico campo di
forza elettrico. A viaggiare a velocità doppia sono orizzonti sonici
– ancora una volta – perfettamente amalgamati, in nome di una
generazione di accordi rigogliosi e arrabbiati.
Da
hippy in crisi esistenziale, David Crosby emerge come sciamano,
veemente nella splendida progressione soul-blues di “Almost Cut My
Hair”. Qui il coerente legame con Crosby, Stills & Nash, nel
ritrovare i sani ingredienti di campagna, come nell’isolata gemma
folk di “4+20”, firmata da Stephen Stills. A continuare,
tuttavia, è soprattutto la magia alchemica delle menti singole: Déjà
Vu, infatti, è la nuova, collettiva formula magica di quattro
stregoni diversi tra loro, ma accomunati dalla stessa passione per la
tradizione rivisitata.
Nash prosegue la sua preziosa ricerca
melodica, appendendo il quadretto beatlesiano di “Our House”
prima di incrociare la steel di Jerry Garcia nel luminoso angolo
country di “Teach Your Children”.
Stills,
maniaco della perfezione sonora, pare divertirsi come un bimbo nello
smontare e rimontare canzoni diverse. Frutto del suo istinto da
adolescente del blues, “Carry On”, orientaleggiante nenia
elettro-acustica con intermezzo psichedelico. Mattoncini musicali
fatti a mano, scolpiti con sapienza dalla chitarra di Young che
ricama elettricità sulla serpentina barocca della title track,
impreziosita dall’armonica folk di John Sebastian. Diavolerie
bluesy che deflagrano nella “Woodstock” di Joni Mitchell, altra
eco dell’esibizione d’agosto che lancia il quartetto in cima al
mondo rock.
Young è sicuro del suo contributo nella band,
portando l’erba country a crescere fino a mezzo metro da terra.
Schiva, “Helpless” fa l’amore con il gospel, proprio mentre
“Country Girl” si gode il suo valzer barocco.
In
fondo, quattro uomini d’altri tempi – almeno a giudicare dalla
copertina del disco – che lottano in musica per quello che
ritengono giusto. E forse si tratta proprio di pace e amore, stando a
quello che grida alla fine l’inno corale di “Everybody I Love
You”. Forse, invece, è qualcosa di più profondo, una meditazione
zen su quello che non saremo, probabilmente, mai più. Come una
sensazione perenne di déjà vu.
Dejà
Vu esce a marzo e la maggior parte della stampa si mette in fila per
celebrare il gran lavoro della band. Basta un niente, tuttavia, e gli
allori si trasformano in rovi spinosi: subito dopo la pubblicazione,
Young molla i tre compagni per andare in tour con i neonati Crazy
Horse. Crosby, Stills e Nash sono furenti, soprattutto per il fatto
di ritrovarsi da soli con un disco importante senza la possibilità
di eseguirlo al meglio dal vivo. I tre, allora, decidono di
accantonare la band per dedicarsi ad attività artistiche personali.
ondarock.it

[…]
Il vero business per Young inizia nell’estate di quel 1969: accetta
di entrare nel supergruppo più amano della storia. Crosby, Stills e
Nash lo vogliono al loro fianco, sono reduci da un primo album
apprezzatissimo ma cercano qualcosa per crescere ancora; il canadese
può completare e perfezionare a meraviglia la confezione. Sanno del
suo carattere schivo, difficile, spigoloso ma anche delle sue qualità
di musicista […]. Dice: “Credo mi abbiano chiamato perché dal
vivo ci vuole qualcuno che suoni davvero sul palco”. Un giudizio
aspro, con una punta di rivalsa (adesso infatti si sente in grado di
duellare alla pari con Stills, alla chitarra elettrica non si sentirà
più un gregario). L’ingresso ufficiale nel gruppo è dell’estate
’69 e in settembre i magnifici quattro sono giù a Woodstock, un
ovvio trampolino di lancio in termini di amore, di stima e
considerazioni critiche e, perché no?, di fatturato. Nei mesi
successivi a Woostock, Crosby, Stills, Nash & Young preparano
Dejà Vu, che esce nel marzo del ’70 e schizza in testa alle
classifiche, catapultato in quella posizione grazie a un’opera di
cesello curata in tutti i dettagli. Nel disco ci sono i ritagli
minori di ognuno dei quattro personaggi, spiccioli di una serenità,
di una pulizia interiore che per anni serviranno a pacificare gli
animi: quei pezzi saranno cantati in ogni angolo del mondo […]. A
distanza di dodici anni, quei simboli sembrano sgualciti e un poco
falsi, incomprensibili, segnali di una West Coast dove neppure allora
si sorrideva e si cantava con tutta quella dose di spensieratezza:
musica che solleva l’animo e rilassa, amata da tutti, entrata nella
cultura contemporanea al pari di altri eroi, magari molto più
meritevoli.
Crosby,
Stills, Nash & Young davano la risposta migliore, quella più
saggia e innocua di un comunitarismo moderato e sempre disponibile
verso un intimismo di fondo, con i suoni leggiadri, accomodanti,
pronti a far navigare l’ascoltatore fuori dalle acque tempestose
dei malesseri sociali e generazionali. Per questo CSN&Y non si
sono ridotti a fenomeno americano al pari di altri campioni del
business; il loro messaggio nella semplicità quasi banale conteneva
briciole di speranza e di gradevole quotidianità tale da renderli
universali, idoli naturali del piacere e della calligrafia messi in
musica.
[…]
Dejà Vu aggiunge alla carriera di Young compositore tra canzoni:
“Helpless”, di costruzione esile e semplicissima, specchio della
sua dolcezza disperata e misteriosa (“Nella mia mente ho ancora il
bisogno di un posto dove andare, tutti i travagli mi riconducono
laggiù…”), “Country Girl”, un ritratto che calza come un
guanto alla sua spiritualità lacerata (“Mentre le stelle siedono
nei bar e decidono cosa bere, loro vengono qui per morire perché è
più rapido che tramontare”) e “Everybody I Love You”, scritta
a quattro mani con Stills, un compendio dei due linguaggi, esemplare
per quell’album all’insegna dell’affresco interdisciplinare.
da
Enzo Gentile, introduzione a “Neil Young” (Arcana 1982)